Un racconto di Franco Deanna
San Benedetto del Tronto | Fantasmi
di Franco De Anna
Fuori faceva freddo, c'era un'umidità che penetrava le ossa e scendeva un'acquerugiola fitta fitta, leggerissima, tagliente, obliqua. Avevo camminato senza niente sulla testa. L'acqua mi bagnava i capelli e, da dietro, mi scendeva sul collo. Non mi ero neppur alzato il bavero del pastrano, non m'importava.
Ero conscio di essere solo, ombra più o meno identificabile secondo il riflesso della luce emanata dai pochi lampioni posti in inizio e in fine di ogni calle che avevo percorso una volta sceso dal vaporetto alle Zattere. Non avevo nessuna fretta di arrivare, avessi tardato all'appuntamento, non m'importava. Avrebbero dovuto attendermi.
Di nitido non c'era niente, perchè una nebbiolina era già presente in ogni dove a smussare contorni e ribadire tutti i toni dei grigi e dei neri e dei nerissimi con cui Lei si dipinge di notte.
Anche di avere i piedi diacci, non m'importava, andava bene così mentre protraevo quel mio raggiungere il notaio: cercavo di carpire ancora qualcuno dei Suoi canti incantevoli, mentre stavo per tradirLa e tradirmi vendendomi una parte di corpo col suo bravo pezzo d'anima dentro, ma forse più di un pezzo, ché mi sembrava che tutta l'anima fosse andata ad albergare là.
Può comprendere, altri no, chi sa come sia Lei, come voglia essere d'inverno nelle ore buie, come prenda alla gola quel Suo fagocitarti, quella Sua certezza di conoscere e riconoscerti, quel gioco che fa quando ti segue con ombre a terra e sui muri che non sono la tua ma le Sue. Può comprendere, altri no, chi è abituato a sentirsi al sicuro nei Suoi scuri pur con i silenzi allarmanti scanditi da passi dal rumore secco del tacco a terra e, dopo, dallo strusciare felpato della suola sui gradini dei ponti. Chi, altri no, sente parole (sussurrate) in quei silenzi che mai potrebbe poi testimoniare di aver sentito ma che, segretissime, rinsaldano il legame.
C'ero voluto passare davanti per l'ultima volta, alla mia calle e alla mia casa nella calle, le mani in tasca stringevano tutte le chiavi che servivano ad aprirla.
Era la casa di mia nonna e di mio nonno, poi di mio padre e dei suoi tre fratelli; adesso mia, di mio fratello e di due nostri cugini. Ma per tutti loro non era la stessa cosa: ci avevo abitato, io, loro no; avevo fermato l'acqua alta con i sacchi di sabbia sulla soglia della porta, io, loro no; conoscevo l'odore dell'androne, potevo salire e scendere le scale ripide ad occhi chiusi anche senza toccare il corrimano, sapevo cos'era nascosto in soffitta.
Avevo presi schiaffi in quella casa, avevo giocato davanti al portoncino antico con la testa di leone in bronzo e un anello ritorto in bocca a far da batacchio, avevo battuto il batacchio un'infinità di volte. Loro no.
Pensando, avevo continuato a procedere come ad occhi chiusi e forse l'avevo fatto veramente, come un cane guidato solo dall'olfatto, medesime traiettorie, medesime pietre calpestate: non un cristiano in giro, ma sentivo che i miei vecchi erano tutti lì e mi camminavano accanto mentre mi avvicinavo alla mia calle.
Poi, avevo raggiunto la Trattoria ( quindi ero quasi arrivato ) e mi ero fermato davanti: perché da sempre, sempre mi fermavo alla Trattoria. Turno di riposo, così diceva il cartello sul vetro buio, non ci si era potuti salutare: meglio, a scanso di commozioni inopportune.
Così, ancora un ponte, lo avevo superato, per poi trovarmi all'imbocco della mia calle che si apriva sulla fondamenta del rio che stavo percorrendo e davanti alla calle (Calle de' Pometti ) - fra la nebbia montante e la confusione che mi regnava in testa quasi tiravo dritto - avevo sostato: un attimo?
Mi era venuto addosso uno, spuntato non so da dove, dalla nebbia, un vecchio con una voce vecchia:
" Mi scusi, signore (sior)..." mi aveva detto in veneziano d'un tempo, portandosi la mano al cappello, leggermente sollevandolo " ‘sera"
" Scusate voi, signore, ‘sera' " gli avevo risposto mentre entravo a passo lento nella mia calle che era chiusa al fondo, tre portoncini a destra , tre a sinistra: il terzo a destra, il mio.
In realtà, non avevo la percezione esatta del tempo che ero rimasto fermo all'inizio della calle, né del tempo che avevo impiegato a percorrere la ventina di metri fino al portoncino di casa mia, né di che cosa avevo fatto una volta davanti al portoncino.
Sicuramente ero frastornato dalle voci che sentivo, tutte assieme, ma che mi giungevano assolutamente distinte, ognuna col loro tono e col livello di volume conosciuti: le voci dei miei, dei miei fantasmi (forse solo a Venezia può succedere ciò e probabilmente solo a un veneziano e forse solo una volta), oh, pochissime parole, come sorte improvvisamente da un disco rotto con un gran rumore di fondo tremendamente distorto. Quelle voci.
Mio nonno che diceva (muovendo pochissimo le labbra sotto i baffi):
" Sta ‘tento a no cascar in acqua, ciò"
Mia nonna che diceva:
" Te go fato i galani, amor mio"
Mio padre che diceva, galleggiando nel rio:
" Dai , tuffati, tuffati!"
Arrigo, mio zio, un grande zio, che, aiutandomi a scendere nella barchetta (un ‘caicio'), diceva:
" Adesso t'insegno a vogare"
Mia zio Vittorio, burlone simpaticissimo, che - io piccolissimo - mettendomi in mano delle uova suggeriva:
" Rompile a terra che facciamo arrabbiare la nonna, dai!"
Mia zia, Ester, sempre elegantissima che spronava a studiare:
" Che ancora no ti se bon a far de conto, ciò"
Mioddio! (E mi ero anche accorto che non sentivo mia madre nel medesimo momento che capivo anche perché: lei non era veneziana; no, non la potevo sentire).
Mi ero ripreso, svanite le voci, ritrovandomi immobile davanti al portoncino di casa. Che non avevo aperto, anzi, avevo fatto una cosa che aveva sorpreso me per primo: mi ero messo a battere col batacchio del leoncino di bronzo, colpi forti, forti e ritmati, non riuscivo a fermarmi.
" No ghe xe nisun drento, sior" mi aveva detto il vecchio ricomparso non so da dove, dalla nebbia.
" Come dite?" gli avevo chiesto, sobbalzando.
" Casa voda, sior, voda. La xe anca in vendita , vien tanta zente a vedar..."
" Lo so, lo so , sior Toni" gli avevo detto.
" Gavè dito el me nome, sior?" mi aveva chiesto guardandomi fisso, avvicinando la testa alla mia.
" Sior Toni, mi son Franco, Franco De Anna, non mi avete nemmeno conosciuto!"
" Ostrega! Franco. Franco! Va ramengo, Toni! Xe Franco!"
Io ed il vecchio ci eravamo strette le mani, forte, senza più parlare, e lui non mi aveva chiesto perché e io non gli avevo detto perché vendevamo: abitava anche lui nella calle, mi conosceva praticamente da quand'ero nato.
Avevo deciso improvvisamente di non entrare in casa ma poi lo avevo comunque fatto: Toni mi aveva accompagnato. Avevo fatto bene: quando uscii avevo preso con me una piccola sanguigna veneziana di fine settecento e un acquerello del 1940 su toni grigi che rappresentava donne sulla riva del mare di Chioggia (ce l'ho ancora, sembrano donne di Santomartire in attesa dei loro uomini, pescatori...).
Nello studio notarile erano tutti nervosi.
" E' in forte ritardo, dottore" mi disse seccato il notaio.
" Lo so "
Il compratore, rappresentante di una grande agenzia cittadina, spocchiosamente si rivolse al notaio:
" Notaio dica a questo signore che non si fa così, almeno si avverte la controparte, se si ha un po' di educazione!"
Mi rivolsi anch'io al notaio:
" Notaio, dica a controparte che sono, sì, un ineducato. E ch'el vada in mona!"
Il notaio, non sapendo che pesci prendere, preferì sorvolare:
"Inizio a leggere l'atto. Sediamoci attorno al tavolo, alle vostre spalle, prego"
Vendetti la casa, la mia casa: firmai, avevo la delega di tutti i parenti proprietari. Firmando, la mano mi tremava.
" Beh" disse il notaio quando finì la pratica" adesso il dottor De Anna ci deve proprio dire il motivo del suo ritardo: non ci lascerà con la curiosità dottore!"
" Va bene" dissi mentre il nervosismo che avevo non tendeva minimamente a diminuire " posso anche dirvelo, adesso".
" E dunque, cos'è stato che l'ha fatta tardare così tanto?" chiese il notaio scandendo volutamente le parole.
Risposi piano, scandendo anch'io:
" Fantasmi!"
Non mi salutarono neppure quando uscii.
Prendendo il vaporetto, a Rialto, vidi che avevano già appeso il cartello (ne avevano esposto uno ad ogni fermata di vaporetto sul Canal Grande, mi disse poi un amico che non ha lasciato mai la Città): una locandina con l'intestazione dell'agenzia a cui avevo ceduta la mia casa.
Sotto l'intestazione c'era scritto che in uno dei più caratteristici sestrieri di Venezia, si vendeva una casa di civile abitazione su quattro piani sita in Calle de' Pometti, servita da un ingresso privato e uno di servizio, androne, salotto, cucina, tre camere da letto, due bagni, soffitta.
Nel prezzo dell'immobile veniva compresa anche una piccola barca, ormeggiata nel rio a venti metri, un ‘caicio'. La casa era quasi in fronte all'antica Trattoria Montin celebrata nel film ‘Anonimo Veneziano'.
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01/04/2010
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