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Izate di Monobazo XII Puntata(IV parte) de " L'eterno e il regno"

San Benedetto del Tronto | Continua il racconto "Leterno e il Regno" del Professor Angelo Filipponi.

di Angelo Filipponi

Con Izate di Monobazo inizia la IV parte del romanzo, incentrato in Adiabene regione del Kurdistan, situata oltre il Tigri, dove regna Monobazo con la moglie e sorella regina Elena (la cui tomba si può vedere nella Valle dei re a Gerusalemme), madre di Izate e di Monobazo iunior, il cui castello è stato ritrovato da dr. Doron Ben Ami nel 2007, nella cittadella di Davide. Nella IV parte si racconta la storia di Izate, della sua conversione al giudaismo e della sua adesione al Regno dei Cieli.

 Anno 784 di Roma,-Consoli Tiberio e Seiano -anno 31

Tiberio ... faceva istituire tutti i processi davanti al senato, cosi che fosse lui stesso libero da responsabilità e affinché il senato fosse a pronunciare una condanna contro qualcuno dei propri componenti, che si fosse reso colpevole di un ingiustizia. Così la gente, che ora si stava proponendo la morte da sé, si rese perfettamente conto del fatto che il responsabile di quelle loro prime rovine era Seiano, non meno di quanto lo fosse Tiberio .. In questo modo Tiberio non risparmiava nessuno, anzi faceva in modo che tutti si annientassero a vicenda: nessuno aveva un amico sicuro di cui fidarsi, ma il colpevole e l'innocente, il sospettato e l'insospettabile venivano tenuti alle stessa stregua se entravano a far parte dell'inchiesta sulle accuse, che avevano coinvolto Seiano.

Dione Cassio, Storia Romana, LVIII, 14

Tiberio non si preoccupa dei Frisi, dissimula le perdite subite e non affida il comando a nessuno, mentre il senato non si preoccupa delle difficili situazioni delle regioni più lontane perché ogni senatore teme.

Tacito, Annales. IV 74

Fece lo stesso con Lucio Lamia che tratteneva a Roma anche se lo aveva assegnato alla Siria, già da parecchio tempo senza governatore. Fece lo stesso con molti altri , di cui in realtà non aveva alcun bisogno, ma che a parole fingeva di onorare.

Cassio Dione, Storia Romana. LVIII, 19, 5

 

 

Izate di Monobazo

Monobazo1 era malato.

Era vecchio, molto vecchio, e malato.

La malattia era mortale: il vecchio re lo sapeva da tempo, accettava la volontà di Haura Mazda.

Da Ahura Mazda voleva, però, il ritorno del figlio: non voleva morire senza rivederlo.

Nel suo letto regale, Monobazo il grande, circondato da una folla di servi, di medici, di indovini e profeti, riposava: era affannoso il suo respiro, a volte era un rantolo lungo, continuato.

Il re era aggrappato alla vita, come chi deve compiere l'ultimo atto solenne, la consegna di potere come estrema comunicazione tra due anime, congiunte, che devono scindersi.

Monobazo non poteva morire perché doveva dare, oltre lo scettro, l'ultimo respiro di odio contro Roma.

Il re non doveva morire perché quel figlio doveva sentire l'ultimo messaggio, che sarebbe stato il loro nuovo filo di congiunzione, doveva tradursi in politica: noi siamo Parti, noi siamo liberi.

Se il rantolo cessava, un nome risuonava nella stanza: Izate! Izate!

La coscienza ormai era di un istante, a barlumi: quell'istante di luce gli illuminava il volto, disfatto dalla malattia e deformato dalla vecchiaia e gli faceva pronunciare Izate.

La moglie Elena 2 aveva convocato Anania 3, il terapeuta egizio, consigliere del marito, da lei imposto per la sua profezia e virtù e gli aveva chiesto: Rivedrà suo figlio? Lo rivedrà?

Il giudeo aveva come tutti i contemplativi il dono della profezia: certo signora,certo. Presto tornerà e il re rivedrà Izate: questo dice YHWH e la sua parola è vera.

Come se il re avesse sentito le parole di Anania, sembrava rasserenarsi e il respiro diventava meno duro, quasi si addolciva.

Elena raccontava alle amiche, che erano accanto, del periodo in cui era incinta di Izate e diceva: una notte il re, dormendo, con la mano, pesante, mi gravava, senza accorgersene, il pancione ed io fui svegliata e dal peso della mano aperta e da una voce potente, che comandava: "Monobazo, togli la mano dal ventre della donna: mi è caro il bambino che è in lei, non fargli male: è un eletto che avrà inizio e fine felicissima".

Perciò lo chiamammo Izate che nella nostra lingua significa "eletto".

La regina rievocava anche la predilezione che Monobazo aveva per quel figlio: eppure era il mio secondogenito e il trentesimo  tra i figli, avuti da mogli legittime, senza contare quelli avuti da concubine: aveva voluto che a cinque anni già fosse presente ai giudizi, da lui pronunciati, desideroso di insegnargli la giustizia.

"Arta,3 diceva il re al figlio, deve esser la tua divinità; ad Arta devi conformarti, con Arta devi vivere".

Aveva convocato i migliori magi e li aveva esaminati personalmente per scegliere il più integro e il più santo, che guidasse suo figlio , vivendo accanto, nella giustizia e vi aveva aggiunto il più santo dei terapeuti di Egitto, fatto venire dal sommo sacerdote di Gerusalemme, celebrato dai giudei del suo regno, in modo che Izate avesse l'educazione più santa in Palahvi e in Aramaico; solo dopo i sedici anni quando già era entrato tra i giovani, fu educato in lingua latina e greca, ma fece uccidere i due maestri perché non erano puri di cuore, quando ad un suo esame, vide che gli erano stati inoculati i germi della cultura romano- ellenistica.

Le altre donne, altre mogli e concubine, ricordavano con una punta di invidia le attenzioni riservate ad Izate e i gesti di amore del padre di fronte agli altri figli, che naturalmente erano gelosi ed invidiosi.

Per fortuna, fece una concubina di lingua lunga, Izate era un bambino assennato e non approfittava: Monobazo non aveva occhi, né orecchie se non per quel figlio.

Arrivò un messaggero che consegnò una lettera ad Elena, che nervosamente l'aprì e lesse: "Io Izate sono a Zeugma, fra due giorni sarò a casa!"

Tutte le donne si congratularono e piansero di gioia.

Ora le donne erano convinte che il re sarebbe stato Izate: erano cessati le ripicche, i dispetti, le lotte gli intrighi di corte: ormai la vincitrice era Lei, la moglie e sorella. Ognuna di loro si era impegnata nel tentativo di piacere al marito, di imporre con tutta la sapienza femminile, con tutte le arti della sensualità, il proprio figlio.

Nessuno colpo era vietato: se si era vinta per sensualità, si cercava di superare con l'intelligenza o con il raggiro, con le amicizie, col gruppo, formando un fronte interno contro la favorita: era stata una guerra feroce, condotta dalle donne non solo a letto, ma anche tramite eunuchi, pedagoghi e sacerdoti.

Elena aveva trionfato.

La sua grazia fanciullesca aveva vinto la bellezza sensuale, procace, giunonica delle concorrenti, seppure splendide, nobili, ricche, figlie di re: la stretta parentela di sangue era un legame obbligato nelle monarchie orientali iraniche: l'essere sorella germana era un vantaggio immenso nella linea di successione al trono: Ahura Mazdah lo prescriveva e Zarathustra l'aveva ribadito.

Elena aveva vinto: il suo trionfo coniugale era, però, Izate.

Elena sorrideva: la predilezione per Izate era ormai una mania ed era diventata quasi insopportabile; era troppo visibile, apparentemente indegna di un re giusto, che doverosamente doveva essere padre di tutti i suoi numerosi figli e marito verso tutte le sue donne, secondo le leggi di Haura Mazda.

Ogni giorno nella reggia c'era un atto di amore per Elena, favorita a letto, onorata di giorno davanti a tutti i sudditi e a legazioni straniere, come unica regina: ogni istante era colmo di un gesto di amore per suo figlio, unico figlio.

Anania aveva contribuito molto al successo di Elena e di Izate, con la sua santità e col suo seguito di giudei.

Questi costituivano quasi una metà di adiabeni, eredi di quel gruppo di deportati da Sargon5 fusosi con l'altro deportato da Nabucodonosor6, non rimpatriato da Ciro7.

Era una comunità agricola, rimasta pura dai contatti con la civiltà ellenistica, perché montanara , lontana dalle vie di commercio internazionale, legata alla tradizione mosaica, condizionata solo marginalmente dai culti mazdaici e zaratustriani.

Era la parte più ricca dell'Adiabene perché anche abile nell'artigianato e nel commercio interno, connessa con i confratelli giudei mesopotamici e babilonesi.

La comunità era compatta nella sua fede, aveva rapporti annuali con Gerusalemme, verso cui tendeva, attirata dalla sacrosantità del tempio e dai confratelli della madrepatria: essa aveva perfino una sinagoga in città e un cimitero sul monte degli Ulivi.

Anania aveva mostrato la sua superiore santità mediante l'esplicazione dei sogni e la lettura di segni astrali, evidenziando la netta supremazia della cultura egizio-giudaica su quella magico-caldaica: Monobazo, nonostante la sua fede mazdaica, era preso dalla profezia terapeutica e dall'interpretazione esatta dei fenomeni.

La sua predilezione per Elena e il suo amore per Izate erano spie di una sua debolezza per il sacerdozio giudaico.

Perciò lo scontro tra le donne di corte per la designazione dell'erede al trono comportava anche una guerra ideologica e religiosa.

La guerra sul piano confessionale aveva una carica politica e risvolti economici.

I magi e l'aristocrazia tendevano ad una apertura verso l'Armenia, come inizio reale di una relazione con Roma, quindi di una ellenizzazione.

Essi avevano accettato il pensiero stoico vivi secondo natura e ragione ma lo avevano congiunto con la loro tradizione: seguivano, quindi, la natura studiando l'astronomia, leggendo il destino umano astrologicamente ed interpretavano i segni ed indicavano il volere divino, in modo che ogni uomo accettando il proprio destino si conformasse alla volontà divina.

Era la nuova religione, propagandata d'altra parte da Tiberio stesso in occidente, al fine di uniformare teurgicamente l'impero: i magi, quindi, avevano l'appoggio romano.

I giudei ed Anania, conservatori, aspiravano a mantenersi nella confederazione parta, di cui erano l'estremo popolo nord occidentale, e desideravano vincolarsi con i fratelli babilonesi guardando a Ctesifonte come loro centro e considerando il re dei re come loro sommo sovrano.

Monobazo era cresciuto in questa idea ed aveva mantenuto per tutta la vita con qualche necessaria flessione, questa politica filo-parta.

Certo egli non aveva condiviso la dipendenza o meglio i formali atti di ossequio del re dei re agli imperatori romani.

Fraate, dopo la morte di Obode e di Pacoro, aveva fatto trattato di pace con Roma, ma il foedus era iniquo e il re dei re, sostanzialmente invitto, avendo vinto il triumviro Antonio, aveva fatto omaggio di sottomissione inviando, alcuni anni dopo Azio, come ostaggi, all'imperatore romano, i propri figli e l'aveva imposto anche ai reguli, piccoli re della confederazione parta.

Da un cinquantennio figli di re erano inviati, educati anche militarmente a Roma ed imposti poi come re tra i parti e nei regni confederati con l'aiuto dei milites.

E da un settantennio si verificavano guerre civili nella confederazione parta: ai romani che imponevano re ellenizzati e romanizzati, l'elemento locale conservatore opponeva un re, che normalmente concentrava la simpatia di tutti i partigiani, che insorgevano e nazionalisticamente lottavano per scacciare e i romani e il re romanizzato.

Roma dividit et imperat mugugnava barbaramente Monobazo ad Anania.

I sacerdoti, magi, per avere la supremazia, pur essendo poco religiosi, cercavano di riunire il popolo in senso mazdaico per imporre al re la loro politica e mostravano il permissivismo religioso romano nell'imperium e la fioritura dei culti locali.

Il mago adiabene era zaotar cioè sacrificatore e cantore e voleva riportare il culto secondo le forme indicate da Zarathustra8.

Questi era stato un santo che, come sostanza celeste preesistente, era nato nel mezzo della storia e al centro del mondo, aveva predicato la giustizia, osteggiato dai ricchi proprietari di terre e dai sacerdoti del culto.

Il mazdeismo, riformato da Zarathustra, era la religione ufficiale dell'Adiabene, una grande regione che comprendeva anche l'Assiria, chiamata con termine macedone Migdonia, posta tra il Tigri e i due affluenti Lico e piccolo Zab, costituita da una vasta pianura e da territori a nord della Gordiene e ad ovest, al di là del Tigri, della Mesopotamia, mentre ad est inglobava la zona montuosa della Media Atropatene.

Il mazdeismo era anche la religione di tutta la confederazione partica ed includeva anche territori come la Battriana e raggiungeva perfino l'Indo.

I fedeli credevano che lo spirito di Ahura Mazdah, nella sua unicità accompagnato dalle sue potenze avesse creato le cose in un mare di luce, ed anche gli Spenta gemelli, del bene e del male: l'uno, Spenta Mainyu era naturalmente benevolo, l'altro, Angra Mainyu maligno.

In questa lotta eterna Ahura determinava la sua vittoria su Arhiman e i dev, demoni, facendo trionfare il bene sul male, il giusto sull'ingiusto: il fedele nella sua scelta del bene imitava il dio, pur

restando sostanzialmente libero nella sua scelta.

I magi si chiamavano ultimi discepoli del profeta e seguaci di Ahura Mazda, perciò erano fedeli al pensiero zarathustriano, nella scelta del bene.

Questo messaggio, inviato a pastori dominati da Kavi (capi), da karavan (sacerdoti), da usig, (sacrificatori), in nome di Ahura Mazda, era stato mal recepito ed era osteggiato dal re perché sottendeva una politica a lui contraria.

Essi quindi, perseguitati, erano fuggiti, in maggioranza verso i monti dell'Armenia o verso la zona boscosa della Media.

Come Zarathustra, anche lui costretto alla fuga, al suo ritorno, circondato da amici (frya), da poveri (drigu), da saggi (vidava), da confederati (urvadha) aveva fatto trionfare la giustizia, aveva punito i malvagi e innalzato i virtuosi, così ora i magi credevano giunto il momento, opportuno per la nuova instaurazione religiosa e politica.

Molti dei magi, esiliati, dunque, erano ritornati, durante la malattia di Monobazo ed ora predicavano Come ci libereremo dal male?... Come consegneremo il malvagio nelle mani della giustizia?... Come le nostra parola sarà efficace?.. Quando la nostra anima sarà colmata di gioia?.. Quale pena è prevista per chi procura ksdhatra (potere), a chi opera ingiustamente?... Il giusto finalmente vincerà fin da ora, o Signore!

Essi ripresentavano la venuta del salvatore Zaratustra, come inizio di un nuovo processo di rigenerazione come affermazione del bene sul male, di Ahura Mazda su Arhiman: perciò essi ritenevano di saper trovare la via della giustizia mediante l'iniziazione, che portava il saggio all'estasi e spingeva il reprobo a mostrare la sua inclinazione maligna e quindi ad aumentare la sua malvagia azione.

I magi, perciò, convinti di avere la funzione di individuazione e il compito di computa dei buoni, si erano preparati per la lotta contro i malvagi, destinati ad esser distrutti dalla luce: essi includevano i giudei tra i malvagi.

Questi, dunque, attendevano Izate, l'erede, ma affilavano le armi contro di lui, cercando di coinvolgere un altro figlio del re e di aver l'appoggio militare romano.

Tutta la loro predicazione tendeva a unire i popolani ai nobili, proprietari terrieri e al clero per una lotta contro il giudaismo e contro la politica filoparta, convinti che la luce era dalla parte del progresso e della ellenizzazione.

Elena era quindi pensierosa: ella, come il marito, attendeva con ansia il suo Izate.

Raccontava allora, desiderosa di sfogare la sua tristezza e di mitigare la sua preoccupazione, come il re decise di inviare il figlio diciottenne lontano dalla corte: temeva che qualcuno potesse nuocergli.

Comprendeva che l'invidia dei fratelli con la loro gelosia era motivata e la riconosceva come giusta: ognuno, quanto più è nobile, tanto più vuole essere amato dal proprio padre e quanto più crede di meritare una carezza, una lode, un regalo, tanto più la reclama: se non ottiene ciò che gli compete, giovanilmente compie azioni irrazionali ed irresponsabili.

Monobazo capiva ciò e lo riteneva giusto, ma lui preferiva Izate a tutti e non poteva cambiare: necessariamente era smisurato nel suo amore e a nessuno sfuggiva questa sua debolezza.

Lui sapeva di sbagliare, ma era spinto a ciò da un forza misteriosa, a cui mai sapeva opporsi.

I magi fomentavano, in nome di Ahura Mazada e della sua giustizia, l'odio dei figli verso il padre, perfino del figlio maggiore, germano, (figlio di un medesimo padre e madre) Monobazo iunior.

Allora il re a malincuore, dopo molti pensamenti e ripensamenti, decise, per evitare le critiche, di inviare il figlio prediletto a Pasino, dal re Abennerigo,9 suo cognato.

Per il re, diceva Elena, fu una sofferenza spaventosa: non volle mangiare per giorni: ogni cibo gli era veleno senza quel figlio, che gli rallegrava ogni boccone; non volle vedere danzare le donne, né sentire il loro canto: gli mancavano i movimenti, i gesti e la voce del suo Izate.

Izate, pure, soffrì molto, ma obbedì: il re, al vedere soffrire il figlio prediletto, neanche osava guardarlo né parlargli.

Il momento della definitiva separazione, poi, fu crudele, noi tutte lo ricordiamo: il re lo accompagnò fino al confini del suo regno, personalmente, e poi lo lasciò uscire dal suo territorio con tutto il suo seguito di cavalieri: il giovane non si voltò.

Con dignità, frenò e contenne la sua tristezza: diede il cenno di partenza ai compagni, imperiosamente, troppo imperiosamente.

Rimase per due anni in terra straniera.

Ma lì Izate era amato da Abennerigo, un re vicino ed alleato, come un figlio: chi è eletto rimane sempre e dovunque eletto.

Il re gli concesse in sposa sua figlia Amaco, gli assegnò una provincia da governare, gli fece riscuotere tutti i tributi.

Se la prima separazione fu dolorosa. la seconda fu per il re, perciò, mortale! Fece un'amica con una voce sgraziata, che mascherava una malcelata gelosia.

Voi tutte ricordate, proseguì Elena, che era giunto tra noi dall' Armenia il legatus G. Lentulo, con lettere di Norbano Flacco, governatore di Siria, che impose un trattato tra l'Armenia e l'Adiabene:

era un tentativo di far entrare il nostro paese nell'orbita romana e staccarlo dalla Partia, in grave crisi dinastica.

Il re, consigliato dai magi, fu costretto al trattato, anche se temeva di diventare presto una provincia romana: per evitare lo scontro con l'Armenia e quindi coi romani aveva accettato per prendere tempo e per potersi, nel frattempo, preparare militarmente.

E così i romani, boriosi e strafottenti, con passo da vincitori, erano entrati nella reggia: avevano stretto relazioni con i magi, avevano manovrato la situazione in modo che l'autorità del vecchio re fosse invalidata.

Ora Elena era pensosa, smetteva la comunicazione e rifletteva tra sé: non era il caso di esprimere

le sue considerazioni e si avvicinò al letto del moribondo e fece un gesto di amore, esaminato dalle altre donne, dai magi e da Anania, che lo interpretarono, a seconda del loro rapporto con la regina.

Elena conosceva bene la situazione. Nella corte c'erano stati contrasti fra i magi ed Anania, fra i due gruppi, che si fronteggiavano per avere il potere nel regno, in assenza dell'erede.

A Lentulo la politica di Monobazo non piaceva: aveva troppi vincoli con i parti, troppe amicizie con gli altri re della federazione, troppo odio contro Roma e soprattutto non voleva essere sottoposto, né spiato, né controllato: era un barbaro amante della sua libertà, Monobazo, abituato ad imporre tributi, non a pagarli.

I romani da tempo aspiravano ad avere socii gli Adiabeni. Già Lucullo10, che se li era trovati davanti come alleati di Tigrane, schierati all'ala sinistra dell'esercito nemico, aveva cercato di staccare il re adiabene con la promessa di territorio armeno.

Pompeo li vinse, ma non invase il loro territorio: come riconoscimento del loro valore era venuto a patti ed inviato una folta delegazione, tanto che il re sprezzantemente disse "se venite tra i monti per combattere siete pochi, se venite per un'ambasceria siete troppi".

Licinio Crasso11 stesso aveva iniziato a circuire con promesse gli adiabeni, lodati da lui come i cavalieri bifronti per il loro continuo spostarsi in sella e la loro abilità a combattere da cavallo su tutti i lati, stimati uomini liberi, non soggetti ai parti, di cui erano fratelli ed amici.

Infatti la sua sconfitta fu dovuta al suo errore di valutazione: credette alla loro non belligeranza ed avanzò fino a Carre, indisturbato.

Gli fu chiusa la strada del ritorno e fu un massacro: il condottiero, prima di morire, dovette assistere alla morte del suo stesso figlio e alla cattura delle aquile, proprio ad opera degli adiabeni.

Gaio Lentulo spesso cercava di mostrare la necessità di un'amicizia tra Roma e l'Adiabene.

Anania e i giovani, invece, affermavano che il loro avvenire era dalla parte di Artabano, il re dei re: essi dovevano fedeltà a lui, che non interferiva nei loro affari e rispettava la loro indipendenza.

Anania concludeva sempre il suo discorso sull'imperium romano: Roma significa soggezione per ogni popolo.

Lentulo riceveva lettere,che lo pressavano ad affrettare la ratifica del trattato: era vitale per Roma avere un foedus con l'Adiabene per iniziare la penetrazione commerciale, che doveva anticipare quella militare: il partito giulio aveva mostrato che la penetrazione dal nord era un buon avvio per la conquista della Partia, e lo stava imponendo in senato e all'imperatore Tiberio, ormai inaffidabile, data l'età e la lontananza dalla capitale.

Ormai tutto l'occidente agricolo, dissanguato dal ristagno economico, guardava all'oriente ricco e sperava che la conquista della Partia producesse un rimescolamento e un miglioramento sociale.

La nuova impresa militare preparata su piani già predisposti da Cesare, attuati parzialmente da Germanico, doveva essere compiutamente realizzata dai giovani nipoti di Antonia.

Elena conosceva la politica dell'imperium: era stata sempre a fianco di suo marito, in silenzio e al momento opportuno, oculata consigliera.

Lentulo si era impegnato in tutti i modi per costringere il vecchio re alla neutralità, in caso di guerra con i Parti.

Lei conosceva gli intrighi dei romani, la falsità dei magi e il formale ossequio dei nobili: lei suggeriva prudenza.

Il re faceva passare tempo: una volta non riceveva Lentulo, un ‘altra si sentiva male e non riceveva i magi e perciò rispondeva al legatus, venuto per avere risposta, di non aver potuto consultare i suoi consiglieri.

Vinto, però, dalle richieste dei magi, che mostravano la necessità di un coordinamento con gli stati satelliti di Roma ed evidenziavano un miglioramento delle condizioni popolari e un incremento di ricchezza per il commercio con gli emporoi romani, il re, alla fine, firmò il trattato che lo impegnava a dare come ostaggi suoi figli, come facevano già gli stessi re parti.

Lentulo, amareggiato per la lunga attesa, nervoso per le tante umiliazioni, scelse come primo ostaggio il figlio prediletto, il suo Izate: tutti i figli Monobazo avrebbe dato, pur di mantenere la pace, ma non Izate.

L'accordo, ormai firmato e trasmesso a Roma, invece, non si faceva realmente se non veniva dato proprio Izate, che diventava il vincolo tra i Romani e gli adiabeni.

Certo, pensava Elena, mortale fu il colpo, inferto dai romani.

La scelta di Izate da parte di Lentulo fu una mazzata su Monobazo.

Fu un dolore troppo forte: si sentì male, colpito da ictus rimase immobile, rimbambito, dopo la firma, per mesi, poi lentamente riprese per vivere una vita tronca da valetudinario sempre sull'orlo dell'infarto e della morte, assistito nel letto come un bambino.

Lentulo, con l'ordine del re, passò da Carre, città che Izate governava, e lo portò a Roma insieme a quattro suoi fratelli.

Il vecchio re aveva ceduto per il bene del suo popolo: la sua religione voleva che il re si sacrificasse e sacrificasse la cosa più preziosa per il bene del suo popolo: il re era il santo di Dio.

Monobazo odiò Lentulo personalmente e ancora di più Roma, che imponeva trattati a popoli liberi, considerati selvaggi da educare, da frenare con la forza, ignoranti da ellenizzare.

Ora non voleva morire: attendeva che il figlio ritornasse: aveva fatto scrivere al governatore di Siria, ad Areta, al senato, a Tiberio, in quell'ultimo anno, dicendo che era malato e che sentiva la vita sfuggirgli e che voleva rivedere quel figlio: desiderava che quel figlio gli chiudesse gli occhi.

Flacco aveva promesso di interessarsi, Areta aveva inviato ambasciatori al senato con le lettere di Monobazo.

Il senato non rispondeva perché era di competenza dell'imperatore, che, impegnato a reprimere la congiura di Seiano, aveva rinviato la decisione.

Poi finalmente gli era arrivata la notizia da emporoi alessandrini, poi confermata da una lettera di Tiberio, che lo informava del ritorno del figlio.

L'imperatore aveva inviato una delegazione perché fosse firmato un nuovo trattato con cui stabilire il ruolo degli adiabeni nello scacchiere mediorientale.

Monobazo fu felice della notizia, ma la felicità gli diede un altro colpo al cuore: ora era in coma, ma era duro a morire.

Il vecchio re rivide il figlio, come aveva predetto Anania: sembrò perfino riconoscerlo perché strinse la mano e morì senza poter dire una parola.

Izate aveva capito dalla stretta di mano il messaggio: le contrazioni del volto furono chiari segni del suo pensiero per un figlio che aveva respirato la sua stessa aria: quella stretta fu come un passaggio di spirito dal padre al figlio, un ultimo atto d'amore per il suo eletto, in cui voleva sopravvivere, per odiare ancora la maledetta Roma.

La moglie fu garante ed Anania il sacerdote di quel passaggio spirituale, di quella ultima muta comunicazione.

 

La conversione di Izate
La gioia per il ritorno di Izate si mutò subito in lutto per la morte di Monobazo, ma, subito dopo, esplose la felicità per la incoronazione del nuovo re.

I festeggiamenti durarono una settimana: il popolo onorava il suo re, giovane e bello, nella capitale come nelle campagne e sui monti: segnalazioni di fuoco avvertivano i paesi delle montagne più sperdute e gli abitanti mesopotamici, gordiesi e medi dell'evento: l'Eufrate e il Tigri stesso sembravano partecipare all'evento con le loro rive ora più rigogliose.

La corte, i nobili, i magi, il popolo, fuori del palazzo regale, inneggiarono al giovane re, senza distinzione di razza: Izate nel suo nome legava tutti anche gli oppositori: l'eletto dagli uomini era veramente l'eletto di Dio.

Izate era il re di Adiabene.

La regione con quel nome comprendeva l'antica Assiria, nucleo del regno, la zona montana della Gordiene, a nord, la regione mesopotamica oltre il Tigri fino a Carre, (una pianura desertica, anche se bagnata dall'Eufrate, e contemporaneamente paludosa, circondata da monti impervi, piena di caverne)e buona parte della Media Atropatene.

Arbela 12 con la sua vastissima pianura era il centro del regno.

Era un luogo famoso per la vittoria di Alessandro Magno su Dario e per le imponenti rovine di Ninive.

Arbela era la capitale: una città che univa le popolazioni più diverse, che abitavano la parte nuova ed avevano quasi accantonato quella vecchia, ormai un ammasso di rovine.

L'Adiabene era un grande territorio, abitato da gente bellicosa, profondamente legata ai parti da generazioni, che aveva svolto, a settentrione, la funzione di guardiano della Mesopotamia contro gli invasori.

La sua popolazione era gelosa della propria indipendenza e poco aperta verso i vicini.

Da un decennio, però, gli adiabeni erano orientati maggiormente in direzione di Babilonia, grazie alla minoranza giudaica, che aveva intensificato le relazioni con i confratelli babilonesi.

Con i re di Armenia già ellenizzati e orbitanti nell'area romana, Monobazo era stato sempre ostile anche se precedentemente i suoi antenati avevano combattuto a fianco degli armeni contro le invasioni straniere, specie romane.

Ora tutto il territorio era in pace: tutti veneravano l'eletto di Dio.

I Magi avevano incoronato Izate re secondo il rito zarathustriano.

Il re aveva letto la formula sacra con cui si vincolava al Dio e alla sua gente, divenendo effettivamente l'eletto: un grande dio è Ahura Mazdah, che creò questa terra, che creò quel cielo, che creò l'uomo, che creò la felicità per l'uomo, che creò Monobazo mio padre, unico signore di molti. Ahura Mazdah mi sceglie come unico uomo su questa terra ed elegge me re perché sono giusto. Io venero Ahura Mazdah.

I magi poi gli misero il diadema sul capo, gli consegnarono il sigillo del padre e  "lo  scudo del sole", il sampsera, simbolo di sovranità.

Il popolo lo acclamò re, figlio di Ahura Mazdah, amico della verità e nemico della menzogna e subito fu benedetto dai magi.

Aveva subito ricevuto le delegazioni degli altri stati parti confederati: erano venuti ad onorarlo il satrapo di Mesopotamia e di Media Atropatene, ed anche il re di Armenia, e c'erano anche i romani; erano giunti ambasciatori da Elimais, dal Regno di Persis e dalla Partia.

Ora Izate regnava in pace sul suo popolo.

C'erano pronti i romani, presenti all'elezione, col nuovo legatus, G.Licinio Muciano13, incaricato del rinnovo del contratto: erano stati perfino invitati alla festa dell'incoronazione.

E' tempo di gioia e di ballo e non si può trattare di affari, aveva notificato Anania, freddamente.

I Romani erano ritornati dopo la settimana di feste, ma Anania si era loro presentato ed aveva detto che dopo l'incoronazione si entrava nel lutto per la morte di Monobazo e bisognava attendere la fine del periodo di due anni, prima di stilare il trattato, secondo l'uso adiabene: essi, comunque, erano ospiti graditi nel regno.

A dire il vero, Anania era convinto che nel frattempo Artabano, cacciato da Ctesifonte da un gruppo di nobili filoromani, riuscisse a recuperare il potere e a riformare la confederazione parta e a stringere i re federati con maggiori vincoli.

In quel clima di festa per l'elezione del nuovo re, il regno sembrava unito e le differenze tra le due etnie sembravano superate: Izate era di gradimento a tutti; ai pahlavici e agli aramaici, ai fautori della religione tradizionale e a quelli ebraici. Era l'eletto di Ahura Mazdah e di JHWH.

I magi, essendo gli elettori, credevano di controllare il regno, data anche la giovane età del re, ma Anania era il vero artefice della politica adiabene, come se lui fosse la continuità tra il vecchio re e il nuovo.

Il regno, comunque, era pacifico.

La pace durò poco.

I magi si accorsero che essi contavano poco, come nel periodo di reggenza della regina, e, perciò, cominciarono a legarsi alla legazione romana, che li collegava con l'Armenia e con i mercanti egizi e l'alabarca, ed insieme alla aristocrazia aumentavano i rapporti con le città ellenizzate.

I nobili cominciavano ad importare dall'Armenia e dalle città dell'Eufrate stoffe, preziosi, profumi

dapprima per le loro donne, poi tutta la comunità pahlavica cercava di esportare i prodotti delle compagne, iniziando una piccola attività commerciale, specie di tappeti: era una difesa contro i mercanti giudaici, che detenevano il mercato interno e che si aprivano verso quello della confederazione, arrivando perfino in Cina, attraverso la Battriana.

Il re, invece, aveva una propensione verso l'elemento popolare povero, che, però, era vincolato e condizionato dal clero, di cui era servo, e tendeva a liberarlo, regalando i fondi agricoli montani regi ed organizzandoli in comunità, obbligava perfino i magi e la nobiltà ad adottare la stessa strategia: era un modo di dare possibilità di reale sostentamento ai più poveri, spinti ad autoregolarsi e autogovernarsi comunitariamente.

Questo comportamento copriva una crisi interiore del re.

Da tempo sentiva l'esigenza di una vita religiosa giudaica: sentiva l'urgenza di fare del bene, di essere un re giusto, secondo la giustizia di Anania e di Jehoshua, come amore per il prossimo e servizio, come rinuncia dei propri beni.

Il ricordo delle parole di Jehoshua lo incitava ad approfondire e a capire la torah, trascurata nel periodo romano.

Anania, già potente a corte ,divenne il vero arbitro e i magi ne furono ancora più gelosi.

Era sempre con il re, che praticamente aveva escluso i magi dal consiglio regale, anche se li convocava regolarmente.

Il re, al momento della valutazione, si rinchiudeva col terapeuta e decideva unilateralmente.

A livello privato raramente lo zaotar di Adiabene veniva ricevuto e solo in occasione di grandi feste, come quella della sacra arca.

Siccome era imminente, il mago era stato convocato ed il re si era informato sui preparativi e sulle cerimonie, organizzate per la grande festa.

La festa dell'arca era una festa che univa i due popoli, di fede diversa: ambedue avevano una propria lettura di un avvenimento remoto, sacro alle due comunità.

Nella zona di Carre 14, in una profonda gola, tra due alti monti, impervi, dirupati, pieni di grotte e di caverne, su uno sperone roccioso, incassato tra due pareti montuosi a perpendicolo, c'erano i resti d'un barcone,notevole per dimensioni, ancora in buono stato, adagiato su un fianco.

Le cime dei due monti erano quasi eguali, spelate ambedue, ma dai piedi fino sotto le vette una densa vegetazione copriva le dorsali.

Ad uno si accedeva dalle strade, che venivano da Carre e da sud, mentre si raggiungeva l'altro mediante sentieri montani, da nord .

Una folla di giudei provenienti da sud e sud-est veniva per andare a vedere la barca di Noè, una moltitudine di adiabeni del nord andava per vedere la barca di Thraetaona.

I due popoli leggevano quei resti in due modi diversi, ma li riferivano ambedue ad una stessa tradizione comune: nel sud c'era stato un diluvio che aveva sommerso tutta la regione facendo morire tutti gli abitanti: una sola famiglia si era salvata.

Il modo, come la famiglia si era salvata, differiva: diversa era la tradizione che nei secoli aveva elaborato leggende con nomi diversi di eroi, santificati dalla fede popolare.

Al di là dei nomi, contestati dalle due parti, la festa era un patrimonio comune.

I sacerdoti delle due confessioni avevano variamente arricchita la storia di significati morali: i re di Adiabene avevano in comune con i satrapi delle zone mesopotamiche e Babilonesi e mede quel luogo, protetto da trattati e da costituzioni, che regolavano gli incontri nel corso delle cerimonie, che vi si svolgevano: quel luogo era quindi sacro per più popoli e fungeva da tempio di raccolta, da centro di socializzazione, di comunicazione.

Gli adiabeni, in occasione di quella festa sacra, si ricompattavano ancora di più perché promiscuamente andavano in quel luogo, pur cantando canti diversi, pur vestiti differentemente e pur parlando ognuno il proprio idioma.

Anche la corte si muoveva per quella festività primaverile: una processione partiva da Arbela e seguendo i percorsi segnati dalla tradizione, giungeva dopo una settimana nel luogo santo.

Col re si muoveva anche una folla di sudditi, che aumentava, strada facendo: la presenza del re era garanzia di ordine ed anche di un viaggio sicuro e spesso ricco di doni.

I palahvici raccontavano la storia di Thraetaona, che combatteva contro il dragone Azi Dahaka, che come usurpatore straniero aveva invaso il paese sommergendolo con le acque dei suoi fiumi e dell'oceano, dopo aver catturato e sposato le due sorelle del re Yima Xsaeta.

Thraetaona, partendo dal sud, aveva inseguito l'usurpatore con la barca, dove aveva riunito tutti gli animali che era riuscito a salvare, coppia a coppia e dopo molte peripezie, aveva vinto, ucciso il nemico, a cui aveva sottratto le due principesse, ma il dragone, morendo inghiottì tutta l'acqua, succhiandola negli ultimi respiri di vita e la barca rimase incastrata per sempre tra i due monti.

Era un bel racconto poetico e ricco di spiritualità.

I magi assicuravano che tutto era vero e che la storia era nelle Gathe15.

I sacerdoti giudaici raccontavano anch'essi una bella storia, dicevano che l'arca era di Noè, la cui storia essi leggevano in Genesi, uno dei libri sacri, scritti da Mosè, loro legislatore.

Ed Anania raccontava al re la storia, leggendola direttamente, mentre erano portati verso Carre: " E l'uomo cominciò a moltiplicarsi sulla faccia della terra... Ed YHWH vide che la malvagità dell'uomo sulla terra era grande e che ogni aspirazione dei pensieri del suo cuore era soltanto malvagità. E YHWH si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò nel suo cuore. Ed YHWH disse: "farò scomparire dalla faccia dalla terra l'uomo che creai, dall'uomo fino all'animale, fino allo strisciante e fino all'uccello del cielo, perché mi sono pentito di averli creati".

Noè invece trovò grazia agli occhi di Dio. Questa è la storia di Noè: Noè uomo giusto fu perfetto tra le generazioni in cui visse. Noè camminò con Elohim e generò tre figli: Sem, Cam, Jafeth.

Allora Elohim disse a Noè:" fatti un'arca di legni resinosi: fa l'arca a cuccette, calafata di fuori e di dentro con bitume. E la farai in questo modo: trecento cubiti sarà la lunghezza dell'arca: cinquanta cubiti la sua larghezza e trenta cubiti la sua altezza. Farai una finestra all'arca e dal di sopra la completerai ad un cubito. E porrai da un lato di essa la porta; farai i piani: quelli che sono al di sotto, i secondi e i terzi. Tu entrerai nell'arca tu e i tuoi figli e tua moglie e le mogli dei tuoi figli con te. E di ogni essere vivente e di ogni carne, ne farai entrare nell'arca una coppia perché si conservino in vita con te. Saranno maschio e femmina. E tu prendi con te di ogni cibo per mangiare e l'ammasserai presso di te e servirà a te e ad essi di nutrimento".

E Noé entrò nell'arca dopo aver fatto quanto il signore gli aveva ordinato, diceva sintetizzando ora Anania.

E il diluvio fu sulla terra, quaranta giorni. E le acque aumentarono e sollevarono l'arca: e si alzò al di sopra della terra.

E le acque divennero profonde ed ingrossarono di molto sulla terra. E l'arca navigava sulla superficie delle acque. E le acque divennero profondissime sulla terra e ricoprirono tutte le alte montagne che sono sotto il cielo.

Le acque si innalzarono quindici cubiti al di sopra e ricoprirono i monti. E perì ogni carne che si muoveva sulla terra, dei volatili, degli animali domestici e di tutti gli striscianti sulla terra ed ogni uomo. E rimase superstite solo Noé e quelli che erano con lui nell'arca. E stagnarono le acque sulla terra centocinquanta giorni.

Elohim, però, si ricordò di Noè e di tutti gli animali domestici, che erano sull'arca con lui. E fece passare un vento sulle acque e le acque si abbassarono, si chiusero le fonti dell'abisso e le cateratte del cielo e la pioggia del cielo cessò.

E le acque si ritirarono e Noè e i suoi figli uscirono con gli animali dalla barca, per ordine di Dio, che fece con loro la nuova alleanza".

Il racconto, giudaico, era suggestivo, davvero.

Ora, da ogni parte, confluivano verso l'arca sacra i pellegrini.

Anche il nuovo satrapo di Babilonia, Asineo16 veniva portato col fratello Anileo verso la sacra Arca e lo seguiva una folla di sudditi giudaici e babilonesi.

Erano con lui anche Melazar e Yakob, due esseni, che erano stati accolti nei dintorni di Carre dal satrapo, che li aveva rifocillati ed onorati.

Questi dissero che dovevano raggiungere Izate, il re di Adiabene: erano riconoscenti e raccontavano che erano inviati da Jehoshua, della comunità di Caphernahum.

Essi narravano i miracoli del loro maestro, fratello di Yakob, parlavano di un nuovo patto tra Dio e il suo popolo, di un Regno dei cieli vicino e della necessità di collegare i fratelli giudei tra loro.

Davano per sicura la fine dell'imperium romano e come vicino l'inizio del Malkut ha shemaim.

Il satrapo, un omino dagli occhi vivacissimi, un frugoletto birbo seguiva con interesse le meraviglie raccontate dai due esseni, non perdeva una parola: il nome esseno era santo anche in Babilonia.

La notizia della resurrezione di Esther, poi, aveva fatto il giro del mondo: i due erano testimoni e, perciò, lui stava con le orecchie dritte, come un cagnolino, che cercava di afferrare un osso lanciato.

Il satrapo si confidava di tanto in tanto con suo fratello, un bel giovane, aitante, che ascoltava anche lui meravigliato.

E questi si confidava con un liberto romano, coetaneo, di nome Felice17 , un familiaris di Antonia, che professava di essere zelante della fede e che credeva ad ogni cosa.

I due sovrani si incontrarono, quando fecero accampamento non molto lontano dal luogo sacro.

Asineo inviò suo fratello da Izate per rendergli omaggio e per chiedere se lui poteva andare ad onorarlo con doni.

Izate aveva sentito parlare delle imprese compiute dai due giovani ebrei, che avevano vinto eserciti col favore del loro Dio ed era curioso di conoscerli.

Perciò accettò volentieri l'incontro: ora che li aveva davanti, vedeva chiaramente come la mano di JHWH li proteggesse: essi erano figli di un am ha aretz, di scarso valore, specie il maggiore, un nanerottolo, un cosetto, dalle mani callose, abituato a lavorare la stoffa per costruire vele a Neherda; il loro dio, eppure, si era servito di loro per annientare i nemici del suo popolo.

Nel vedere la minuscola statura di Asineo si convinse ancora di più della protezione di Dio e della sua infinita potenza.

Asineo era proprio un ometto sveglio, vivacissimo, simpatico e spassoso: lo rallegrava con le sue battute e col suo umore festoso, mentre il fratello, pur popolano, aveva una sua dignità certamente naturale, adeguata all'aspetto gradevole e alla giovinezza.

Asineo, nella tenda del re, raccontò la sua storia, mostrando come Dio lo avesse liberato dai pericoli e dai nemici, soffermandosi in ringraziamenti a Dio, che si era ricordato della sofferenza del suo popolo.

Fece vedere che, da umile lavoratore, Dio lo aveva innalzato alla satrapia di Babilonia e l'aveva fatto trionfare sui nemici, che lo avevano attaccato a tradimento di Sabato, sapendo che un giudeo è da legge obbligato a rispettare il giorno festivo.

Raccontava di Ariabarzane che, invidioso della sua potenza, era venuto a sterminare i giudei, facendo finta di andare contro altri popoli.

Il satrapo fece il cammino per vie nascoste e venne in luogo rigoglioso di boschi e lì si nascose ed attese l'arrivo del giorno festivo.

Aveva deciso di attaccare di Sabato, sicuro di far prigionieri gli inermi giudei, impegnati nella preghiera, dopo che si era riposato del lungo cammino.

Il signore, disse, con una smorfietta, Asineo, mi ispirò: io non dovevo nell'occasione obbedire alla legge, dovevo salvare da morte il popolo dei giusti; io non dovevo stare con le mani nella cintola, mentre i nemici ci accerchiavano ed erano già pronti al massacro.

Ed alzandosi su, come per mostrare la potenza di Dio, divertì il giovane re, che sorrise.

Il satrapo allora, tutto gongolante, aggiunse:

Io che me ne ero accorto, corsi dai sacerdoti riuniti già in preghiera la sera prima.

A loro, che neanche mi guardavano e che disdegnavano la mia stessa parola, dissi: il nemico è vicino, domani sicuramente ci assalirà: prendiamo le armi ed attacchiamo questa notte, mentre essi dormono e facciamo pagare il fio della loro empietà.

Il satrapo mostrò lo stupore dei sacerdoti:

I sacerdoti mi risposero:"tu, uomo, pensi di salvare il popolo dei santi: solo JHWH, nostro Dio, è salvezza! Va via, peccatore!"

Asineo raccontò che stava per andarsene quando il più saggio dei sacerdoti si alzò e disse: " fratelli, è Dio che parla per la voce di questo umile uomo, seguiamolo: questa è la volontà di JHWH!". E così profanammo il Sabato per la salvezza del popolo di Dio ed attaccammo di notte, verso la terza vigilia.

La narrazione di Asineo seguitò:

Io esortai i fratelli a battersi per la salvezza dei nostri figli e per la nostra fede: mi seguirono tutti e mostrarono un grande valore: Dio diede in nostro potere i nemici empi, che volevano sterminare la nostra gente ed attaccare gli inermi: essi, mezzo addormentati, erano sorpresi dall'attacco e al buio, vedendo a fuoco il loro campo, cadevano colpiti da frecce o uccisi dalle nostre lance; alcuni vedendo noi giudei, di Sabato, avanzare compatti si spaventarono e fuggirono, la maggior parte si arrese

Ed enfaticamente così terminò Il suo racconto : il signore diede in nostro potere anche il satrapo e salvò il suo popolo.

Dopo il racconto, parlarono a lungo e simpatizzarono Izate ed Asineo: in effetti quell'incontro cimentò un'amicizia e si fece un trattato tra la Babilonia e l'Adiabene, da ratificare quando ci sarebbe stato il re dei re, garante di ogni patto tra federati.

La festa della sacra arca terminò con una grande cerimonia religiosa: da una parte i giudei recitarono i loro salmi e da un altra i pahlavici cantarono i loro inni: due diverse benedizioni sancirono la fine della festa.

Al ritorno dal pellegrinaggio Izate chiese ad Anania di potersi circoncidere perché voleva essere un vero giudeo.

Dio è col suo popolo ed io voglio essere uno giudeo e seguire la Legge, disse, decisamente.

Anania, sorpreso, prese tempo e lo invitò a prepararsi, a leggere e a studiare, prima di ricevere il sigillo di Dio.

Il terapeuta informò la madre, che subito si presentò al figlio e disse:

non farlo, figlio mio; mai un adiabene accetterà che il suo re segua un altro Dio: egli si sentirà svincolato dall'obbedienza e dalla fedeltà: tu hai avuto autorità da Ahura, ricorda!


Anania
Il timore, che i popoli di fede zoroastriana potessero ribellarsi, aveva suggerito ad Elena e ad Anania di rimandare la circoncisione di Izate.

Anania, quella sera, era tornato nella sua casupola, lontana da Arbela, quasi cinque stadi, vicino al fiume Bumelo, costruita da lui con le macerie delle case di Ninive: la sua capanna era nel mezzo quasi della antica città, come testimonianza di una vita precaria, di un'esistenza voluta da Dio, propria di un terapeuta, che vive per contemplare Dio e commentare la sua legge, eremiticamente.

Aveva meditato quella notte sulla vanità della gloria umana, sulla nullità di sé e dell'uomo, delle sue costruzioni terrene, contemplando il cielo, ammirando l'immensità del creato, cercando Dio.

La sapienza giudaica e quella caldaica si fondevano in Anania: il cielo non aveva segreti per il terapeuta : dal cielo gli venivano i messaggi che lui sapeva ben decifrare e leggere esattamente: tutto ciò che avviene sulla terra è già scritto nel cielo: la storia stessa dell'uomo è segnata chiaramente nei fenomeni celesti.

Anania era l'erede di grandi scuole sacerdotali che nel corso dei secoli, ogni giorno avevano scrutato ogni parte del cielo, catalogato ogni segno al suo apparire e al suo tramontare, registrato ogni minima variazione e l'aveva seguita con attenzione.

Da queste scuole veniva la conoscenza vera del destino individuale e collettivo dei popoli: Anania vedendo specie le mutazioni del corso delle stelle, studiando i fenomeni insoliti, come manifestazione diretta di Dio,traeva le sue conclusioni come messaggio da riferire al proprio signore, quasi fosse un messaggio cifrato, un codice segreto, di cui il solo lui era il vero garante.

E da tutti quello sfavillio sapeva dedurre non solo le leggi eterne, ma anche i fatti storici imminenti e preventivamente sapeva consigliare una strategia operativa da cui dipendeva la vita degli uomini e da cui derivava il buon governo del sovrano stesso. Quella sera meditava anche su se stesso e sul suo sistema di vita avendo come confessore la sua stessa coscienza.

Rifletteva: Che è rimasto del giusto contemplativo di Alessandria?

Solo l'apparenza. Una voce interiore subito rispondeva.

Ed Anania confessava: è vero.

Io sembro ancora un contemplativo perché sono apparentemente separato dagli altri, ma la mia giornata è in mezzo agli altri: io dico di lavorare per il bene degli altri.

E' vero? Si sentiva rispondere.

Io vivo da politico, da gran vizir, non da terapeuta. Io, superbo, incarno il potere, il mio consiglio è legge: sono felice se esso è esecutivo, sono beato nel vedere la legge applicata dai sudditi: mi sento un legislatore.

E' bello essere potente! Faccio un'azione giusta perché ostacolo i nemici del mio Dio: i magi farebbero leggi contro il mio popolo! Si difendeva.

Il tuo popolo? Si sentiva apostrofare.

Tu hai un tuo popolo, Anania? Si sentiva dire.

La voce interiore lo spingeva alla risposta e alla confessione del peccato di superbia e subito aggiungeva:farebbero leggi contro la mia regina?

La tua regina?

Tu ami la regina? Si sentiva accusare.

No! Non è vero: io sono casto, io proteggo la regina tra le belve ed io salvo il trono dai nemici.

Io..Io.. sempre io... Anania!

Anania, riflettendo, comprendeva che davvero lui era superbo ed amava la gloria, amava il potere, pur rifiutando le mollezze, il cibo, il denaro ed ogni forma aulica e soprattutto nutriva un amore paterno,coniugale, filiale, fraterno, di difficile lettura e comprensione, poiché l'animo umano è infinitamente complicato nelle sue affezioni, nelle sue molteplici fibre intricate, nelle connessioni inesplorabili affettive e nelle contorsioni sentimentali.

Che è rimasto del contemplativo alessandrino zelante di fede, giunto 10 anni fa? Si chiedeva.

Niente. Si rispondeva.

Io vivevo per YHWH: lui mi invasava ed io estaticamente agivo commentavo e guarivo gli altri. Ora sono un politico, un dioichetes, un vizir, che puramente ama la regina e che protegge il figlio: Dio non è la mia fiducia, non è la mia fortezza, la mia speranza! Io mi sostituisco a Dio!

Sono stato capace per la ragione di stato e per amore di Elena di consigliare un giovane zelante di attendere di unirsi a Dio, di farsi circoncidere!

Io, terapeuta, dovevo subito far circoncidere e pensare: "Dio provvede! Dio spazzerà i magi e i loro intrighi, Dio disperderà ogni congiura e sedizione popolare, Dio proteggerà la regina!"

Essi devono sperare in me e non in Dio?

Io, uomo, con mezzi umani faccio politica! Miserabile! E' Dio che fa la storia, che agisce, che protegge i suoi santi. Io devo fare la volontà di Izate e quella di Dio, non la mia: io sono niente!

Io sono solo un peccatore.

Da quel momento la sua azione non fu la stessa: certo andava, come sempre, alla prima ora a corte e rimaneva al suo posto fino alla dodicesima, chiuso nel suo studio in lettura dei sacri rotoli: interveniva solo in casi di emergenza.

Elena in quei giorni lo pregava di dissuadere il figlio dalla circoncisione e lui un giorno la folgorò: tu devi consentire alla circoncisione, altrimenti...altrimenti Dio ti fulminerà aggiunse frettolosamente, facendosi forza

La frase era uscita con irruenza e come una minaccia.

Aveva visto nel Sole e nelle variazioni della Luna minacce oscure per la regina, come macchie pericolose solari.

Ora, però, aveva osato apostrofare e minacciare la regina!

Perciò, subito abbassò gli occhi e si pentì della minaccia: la guardò in volto, la vide sconvolta e soggiunse: mia regina, lo dico per il bene tuo e di Izate.

Dio lo vuole! Si scusò e precisò: Dio vuole che Izate sia circonciso.

La regina Elena capì, non si offese e, preoccupata, tornava ogni giorno: lei era diventata giudea da anni e venerava Anania come un padre, anche lei con quei sentimenti intrecciati, strani, contorti, insondabili, di cui solo l'animo umano è capace.

Ella non sapeva stare senza il consiglio del suo padre-fratello, del suo confessore, del suo consigliere privato: aveva bisogno della sua comunicazione, di sfogare la sua anima, sola, i suoi notturni travagli le sue ansie prima di moglie ed ora di madre e di regina, preoccupata degli intrighi di corte, timorosa del potere dei Magi crescente.

Lei incalzava e chiedeva se c'era una soluzione nei sacri testi, se era una prevista una scappatoia. Anania studiava la Bibbia e il cielo e un giorno, dopo aver letto i suoi scritti su risultanze di tante analisi celesti, così la soddisfece: il re avrebbe osservato tutti i comandamenti e i divieti, 613 prescrizioni e così avrebbe potuto adorare Dio, senza la circoncisione: Dio, certamente, lo avrebbe perdonato perché lo faceva per necessità e per paura dei sudditi.

La regina era soddisfatta, raggiante ed appariva meravigliosa ad Anania; Izate era felice di essere giudeo e si sottopose ai 613 precetti (365 negativi,corrispondenti ai giorni dell'anno; e 248 positivi corrispondenti al numero delle parti del corpo).

A corte c'erano ora i due esseni, Melazar e Yaqob, che erano zelantissimi della fede e che, stando con i giudei mesopotamici e con quelli babilonesi, gordieni ed adiabeni, non si stancavano mai di correggere, di punire, di riportare sulla retta via quelle anime contaminate dalle altre fedi: erano inflessibili nell'applicazione della legge e lasciavano stupiti i correligionari.

Essi volevano riformare, ma si rendevano conto quanto fosse differente la vita giudaica tra le varie popolazioni, costrette a vivere in mezzo ai barbari goyim.

Essi diedero regole precise e poi attendevano l'applicazione pratica, ma capivano che non era possibile cambiare un sistema ormai radicato da secoli: capivano ma non sapevano né potevano mediare, data la loro formazione palestinese.

Essi erano solo esecutori passivi, inflessibili, moralmente giusti.

Anania conoscendo la loro fede, rigida, d'accordo con Elena li aveva tenuti a corte, ma aveva impedito con scuse la comunicazione con il re, fino ad allora.

Anania comprendeva che il loro zelo era quello dei giusti e che lui, da dieci anni in mezzo ai giudei adiabeni e ai barbari, aveva perso l'integrità e lentamente era giunto ad accomodamenti, a mediazioni, necessarie per la pacifica convivenza e praticamente si era adattato: i due esseni invece erano l'esempio del vero giudaismo.

Entrò, allora, veramente in crisi, cosa naturale per uno spirito puro e veramente santo: non si fece vedere a corte per una settimana: faceva penitenza, si disse.

Egli pregò, si fustigò, si purificò e rimase senza cibo ed acqua, come il capo terapeuta egizio: fu una sofferenza indicibile perché era disabituato alla vera penitenza: aveva fatto quello che voleva imporsi non quello che doveva imporsi:lui era il metro di santità per se stesso e per gli altri.

Quando tornò a corte, smagrito e pallidissimo, sembrava che si fosse allungato, stirato.

Elena della sua bella faccia barbuta vide solo solchi sulle guance e rughe sulla fronte e due occhi scavati, incavati nelle orbite: sembrava invecchiato di 1O anni.

Anania ebbe lo spirito di comandare di introdurre Melazar e Jaqob dal Re.

I due trovarono il re in lettura: Il re stava leggendo la legge.

Melazar subito lo apostrofò: tu, o re, non agisci secondo la legge di Mosé e perciò fai chiaramente ingiuria a Dio: tu non solo devi leggere,ma devi fondamentalmente fare ciò che è comandato: tu non puoi essere considerato uomo che segue la legge per tutto il tempo che stai senza circoncisione. E se ancora non hai letto la legge per sapere per quale motivo si faccia ciò, leggilo ora con me. Leggi Genesi 17,10-12: questo è il mio patto che osserverete tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso tra voi ogni maschio. Circonciderete la carne dei vostri prepuzi e sarà il segno del patto tra me e voi.

Il re rimase sorpreso dalle parole di Melazar, parole dure, forti.

Guardò Melazzar che lo fissò e lo costrinse ad abbassare gli occhi e a chiedere: Cosa devo fare allora?

Fare secondo la legge! Disse imperioso l'esseno.

Obbedire alla legge!

Seguire il rito!

Melazzar comandava la stessa cosa, ma la triplicava come concetto, aumentando, con il tono di voce, la sua autorità. Poi l'esseno, soddisfatto del potere conseguito, divenne confidenziale e in privato gli narrò i fatti di Galilea, gli portò i saluti di Jehoshua, tramite suo fratello Jakob.

Melazzar ed Jakob raccontavano enfaticamente le fantastiche cose accadute in Galilea, narravano come il maestro avesse risuscitato la figlia del capo sinagoga Jahir e parlavano della formazione di una comunità, che non pagava le tasse ai romani, che ora era appoggiata anche da Erode e che gestiva il suo denaro tramite un ex pubblicano convertito e confidavano che stava per iniziare la marcia verso Yerushalaim, certi della vittoria.

Dio è con noi ! aveva chiuso Melazzar

La fama del maestro taumaturgo, profeta, che predicava che il Regno dei cieli era vicino, ormai si stava diffondendo in tutto il mondo parto, grazie ai fratelli giudei.

Jehoshua, io l'ho conosciuto ad Alessandria, forse lo sapete, disse, euforico, Izate, io ho ancora in mente e in cuore il suo messaggio della pecorella smarrita e del figliol prodigo: io farò quel che voi dite e farò quanto il nabi desidera. Il mio regno è suo e il mio esercito andrà dove lui vorrà, concluse, li licenzio ed aggiunse: i miei cavalieri sono suoi e pronti ai suoi ordini!

Il re volle accelerare i tempi della sua conversione, cambiare il culto del suo regno, pur sapendo che sarebbe andato incontro ad una reazione dei Magi e della nobiltà adiabene.

Approfittò del trasferimento di Capitale da Arbela ad Antiochia Nisibi, da lui dotata di un nuovo palazzo regale, per andarvi per ora in via provvisoria e con un piccolo seguito di giudei, limitando il numero dei magi, i più lasciati ad Arbela ed altri rinviati nei loro paesi di origine come normali zaotar. Decise, perciò, di chiamare un medico, giudeo, come assistente di Melazzar, che eseguisse la circoncisione: volle poi che il tesoro regio e ogni ufficio amministrativo fosse trasferito nella nuova capitale e fece propagandare anche la sua conversione al giudaismo.

Anania ed Elena predisponevano i piani di difesa in caso di insurrezione: furono aumentati gli stipendi ai militari in proporzione agli incarichi e ai gradi.

Si era inoltre costituita una nuova corte ad Antiochia, dove dominava l'elemento giudaico.

A corte la notizia serpeggiò subito e la regina Elena ed Anania temevano che il popolo insorgesse e che cacciasse il re: i sudditi non potevano sopportare che regnasse su di loro un uomo, che venerava un dio straniero, ed avrebbero rivolto l'ira su di loro, responsabili della conversione.

Erano, però, abbastanza tranquilli sapendo dell'accordo coi militari, comprati con i sostanziosi aumenti e col bonifico di cinquecento denari, dati ad ogni soldato, che avesse confermato la fedeltà al re.

13/01/2010





        
  



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