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L'eterno e il regno di Angelo Filipponi

San Benedetto del Tronto | Il primo capitolo del nuovo romanzo storico del noto studioso.

di Redazione

I PARTE

Prefazione alla I Parte

Anno 779 dalla fondazione di Roma - Consoli Gn. Lentulo Getulico e C. Calvisio Sabino - 26 d.C.
Tiberio partì da Roma e non tornò più anche se, di tanto in tanto, andava dicendo di volervi tornare e faceva promesse.
Dione Cassio, Storia Romana, LVIII,1


Tiberio...si ritirò in Campania e tutti pensavano e dicevano che non sarebbe più tornato e che anzi sarebbe morto presto.
Svetonio, Tiberio, 39

Cesare, consacrati i templi della Campania, sebbene avesse proibito con un editto di interrompere il suo riposo e , posti soldati di guardia per impedire l'affollarsi dei cittadini, prese egualmente in odio i municipi, le colonie e tutte le località del continente; e andò a rifugiarsi nell'isola di Capri, separata da un braccio di mare, largo tre miglia dall'estremità del promontorio di Sorrento.

Io avrei creduto che quella solitudine gli fosse piaciuta specialmente perché il mare all'intorno è senza porti e a mala pena può offrire riparo a piccole imbarcazioni né alcuno vi potrebbe approdare senza essere visto dalle sentinelle. Durante l'inverno, la temperatura è mite, grazie ad un monte, che fa da schermo contro i venti troppo forti; l'estate è gradevolissima perché l'isola è volta allo spirare del favonio ed è circondata da mare aperto.

Essa dominava un ampissimo golfo. Prima che l'eruzione del Vesuvio sconvolgesse l'aspetto del luogo.... allora Tiberio l'aveva compresa tutta entro l'ambito e sotto i nomi di dodici ville grandiose (dedicate agli dei, una per ogni mese dell'anno); e con quanta assiduità era stato dedito un tempo agli affari pubblici, con altrettanta si abbandonava ora a dissolutezze segrete e ad un malefico ozio.
Tacito, Annales, IV, 67

Nel suo ritiro di Capri fece anche arredare con divani un locale apposito, quale sede delle sue libidini segrete; lì dentro, dopo essersi procurato da ogni luogo gruppi di ragazzi e di ragazze e di invertiti, insieme a quegli inventori di accoppiamenti mostruosi, che egli stesso aveva chiamato "spintrie", li faceva unire in triplice catena e li costringeva a prostituirsi fra loro in ogni modo, davanti a lui, per rianimare, con il loro spettacolo, la sua virilità , che era in declino.
Dopo aver disposto, in vari luoghi, camere da letto, le aveva adornate con dipinti e con statue molto lascive e vi aveva messo i libri di Elefantide (un poetessa erotica greca), affinché a nessuno nel dare la sua opera, mancasse il modello della posizione, che lui ordinava di assumere.

Aveva anche fatto predisporre nei giardini e nei boschetti, luoghi dedicati a Venere, e vi teneva giovani e fanciulle travestiti da satiri e da ninfe, che vi si prostituivano negli antri e nelle grotte. Il popolo, perciò, facendo apertamente un gioco di parole con il nome dell'isola e quello dei satiri, lo chiamava "il Caprino"
Svetonio, Tiberio, 43

Tiberio Cesare ha come ineguagliabile aiutante delle funzioni imperiali in ogni campo, Elio Seiano, nato da un eminente personaggio dell'ordine equestre, legato dal lato materno ad illustri ed antiche famiglie, insigni per cariche pubbliche, con fratelli e cugini ed uno zio materno di ordine consolare, abilissimo per laboriosità e per lealtà, dotato di complessione fisica, adeguata al vigore dello spirito, uomo di serietà piacevolissima e di una giovialità di altri tempi molto simile nel gesto a chi non è occupato negli affari, non abituato ad avanzare pretese e perciò capace di ottenere tutto, incline a giudicare se stesso inferiore della stima tributatagli dagli altri, calmo nell'espressione del volto, nella quotidianità di vita , insonne nell'animo.
Già da tempo la stima della cittadinanza gareggia con il giudizio del principe circa le virtù di Seiano.
Velleio Patercolo, Storia Romana II,127,(3-4)128,1

Seiano, già amante di Livia, vedova di Druso, figlio di Tiberio, ha funzione di tutore dei gemelli Tiberio e Germanico ed amministra lo stato. A Fondi, mentre Tiberio è a cena, caddero dei massi e Seiano, mentre tutti fuggivano, spaventati, puntando il ginocchio e piegandosi sulla persona dell'imperatore, col viso e con le mani gli fece scudo contro la frana e in questo atteggiamento fu trovato dai soldati, accorsi in aiuto.
Tacito, Annales, IV, 59

E' inviato in Giudea , come procuratore, Ponzio Pilato
Giuseppe Flavio, Storia Giudaica, II,9,2 e Antichità Giudaiche, XVIII, 35


Il tetrarca Erode fonda la città di Tiberiade, in onore di Tiberio, presso il lago di Gennesareth, non lontano dalla sorgente calda di Emmaus.
Flavio, Ant. Giud, XVIII, 36

E' governatore di Siria Pomponio Flacco , amico Tiberio e suo compagno di bevute
Svetonio, Tiberio,42

Anno 780 di Roma - Consoli M. Licinio e L. Calpurnio - 27 d. c.

Tiberio,richiamato immediatamente a voce di popolo, tornò sul continente e consentì a tutti di avvicinarlo...Ritornato nella sua isola, si disinteressò talmente degli uffici pubblici, che non completò nemmeno le decurie dei cavalieri e non fece mai nessun mutamento tra i tribuni militari e i comandanti di ali di cavalleria e nemmeno tra i governatori di province. Lasciò per anni la Spagna e la Siria senza legati consolari, e soprattutto con grande vergogna e pericolo dell'impero si disinteressò completamente del fatto che l'Armenia venisse occupata dai Parti, che i Daci e i Sarmati devastassero la Mesia e i Germani le Gallie.
Dione Cassio, Storia Romana, LVIII,1


Anno 781 di Roma Appio Giunio Silano e P. Silio Nerva -28 d.c.
Mentre i frisi sconfiggono i romani, Seiano a Roma alimenta i sospetti e non tiene più nascoste le insidie contro Agrippina (moglie di Germanico, figlio adottivo di Tiberio, morto nel 19) e contro Nerone (suo figlio maggiore).
Un soldato addetto alla sorveglianza ne annotava come in un diario i messaggi, le visite, gli atti compiuti in pubblico o in segreto e aveva sobillato appositamente chi li esortasse a rifugiarsi presso gli eserciti di Germania oppure ad implorare l'aiuto del senato e del popolo, abbracciando la statua del divo Augusto nel punto più frequentato del foro. Tali disegni, anche se loro li respingevano, venivano loro attribuiti come se si preparassero ad attuarli.

Dopo che fu ordito uno stratagemma per rovinare il cavaliere Tizio Sabino e dopo che fu preparata la denuncia .... in nessun altro caso Roma fu più costernata ed atterrita, ciascuno dissimulava anche coi parenti più stretti, si evitavano incontri e colloquio, ogni orecchio sia di amici che di conoscenti era sospetto, persino le cose solide ed inanimate, come il letto e le pareti venivano guardate con diffidenza .
Tacito, Annales,IV, 67

Segue la condanna di Sabino. Il condannato, mentre era condotto al supplizio con la bocca coperta dalla veste e la gola serrata, per quanto gli era possibile si sforzava di gridare che così si inaugurava l'anno, che queste vittime si sacrificavano a Seiano.
Dovunque volgesse lo sguardo, dovunque giungessero le parole, era fuga e deserto; le strade e le piazze si vuotavano, ed alcuni ritornavano poi indietro e si facevano vedere di nuovo, spaventati di fatto di aver avuto paura.
Tiberio manda una nuova lettera con cui ringrazia i senatori di aver punito un nemico dello stato ed aggiunge che la sua vita è in pericolo e che sospetta insidie dagli avversari senza indicare i nomi, ma chiaramente allude ad Agrippina e a Nerone .
Tacito, Annales IV, 70.

La paura per quanto avveniva all'interno si era impadronita degli animi e vi si cercava rimedio nell'adulazione. Così, sebbene avessero da deliberare su altre questioni, i senatori decretarono un altare alla clemenza,uno all'amicizia e statue di Cesare e di Seiano ai due lati, e con insistenti preghiere imploravano che comparissero in pubblico. Tuttavia essi non vennero in città e neppure nelle vicinanze: parve loro sufficiente lasciare l'isola e mostrarsi ai confini della Campania; lì accorsero senatori, cavalieri e gran parte della plebe, tutti ansiosi nei riguardi di Seiano al quale era più difficile l'accesso, cosi che bisognava guadagnarselo con gli intrighi e con la complicità nei suoi disegni.
Tacito,Annales, IV,74

Anno 782 di Roma -Consoli L. Rubellio Gemino e G Fufio Gemino -29d.C.

Muore ad ottantasei anni Livia, moglie di Augusto, che era stata la causa ultima del ritiro di Tiberio a Capri, dopo la morte del figlio Druso. Ella per integrità di vita familiare fu degna dei costumi antichi, più affabile di quanto parve lecito alle donne di un tempo, madre imperiosa, moglie indulgente, in perfetto accordo con l'astuzia del marito, con la simulazione del figlio. Il suo funerale fu modesto. Il suo testamento per lungo tempo fu trascurato. Fu lodata pubblicamente dal pronipote C. Cesare a causa delle divergenze con la madre e con Antonia, moglie del fratello, ed Agrippina ed i suoi figli .(specie Nerone e Druso)
Tacito, Annales,V,1

Morì anche Livia all'età di ottantasei anni
Dione Cassio, Storia Romana, LVIII,2

Seiano, nel frattempo, stava accrescendo sempre più la sua influenza: fu votato che il suo compleanno fosse pubblicamente festeggiato; neanche si sarebbero potuto contare le innumerevoli statue che il senato, l'ordine equestre le tribù e i cittadini più in vista gli avevano innalzato.
Ambascerie separate venivano inviate dal senato a lui e a Tiberio , dai cavalieri e dal popolo, che sceglieva i suoi delegati fra i tribuni e gli edili plebei e in onore di entrambi indistintamente, non solo innalzavano preghiere e votavano sacrifici ma giuravano anche sulla loro Fortuna.
Dione Cassio, Storia Romana, LVIII, 2,7

Erode Agrippa è agoranomos di Tiberiade
Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XVIII, 149

LA BEFFA

Erode Agrippa 1era partito da Roma improvvisamente: la sua non era stata una partenza, ma una fuga. Dopo l'ultimo burrascoso incontro con Pallante2, che aveva minacciato di ricorrere all'imperatore, se non pagava i debiti, egli aveva deciso la fuga.
Una decisione netta, presa da solo, irrevocabile. La sua vita a Roma non era più possibile.
Aveva deciso di uscire dal teatro di Roma come un attore, in trionfo. La fuga avrebbe fatto parlare a lungo, tutti, la corte, l'aristocrazia, i cavalieri, i liberti: anche nel male egli era un figlio di re.
Aveva deciso di invitare ancora i suoi clientes3, i suoi amici e i suoi stessi creditori, nella sua bella casa alle Carinae, ipotecata, ormai divorata dai debiti: aveva invitato tutta la Roma bene con la solita magnificenza, curata anche nei dettagli delle pergamene di invito, recapitate con anticipo da due corrieri, ben vestiti; il suo invito ancora aveva valore: il nipote di Erode, come sempre, era il più liberale, inferiore a nessuno, neppure ai nipoti dell'imperatore.

Erano arrivati per primi i clientes, poi i creditori, gli equestri, i senatori ed infine i membri della famiglia regale, e si erano disposti nella grande sala in relazione al loro rango e alla loro amicizia: Ti. Claudio Nerone4 era stato posto alla sua destra e alla sua sinistra, Appio Giunio Silano5.
Una sola persona mancava: Elio Seiano6, che però aveva mandato una lettera cortesissima con cui si scusava di non poter partecipare perché gravi impegni di stato lo costringevano al lavoro per il bene della comunità.

Il pranzo era pronto ed egli si era presentato, circondato da giovani donne, vestite all'alessandrina, con corte gonne e con soli reggi seni, la passione di Claudio.
Il pranzo era iniziato con la solita coreografia di coppieri bambini che servivano vino e birra, di camerieri giovinetti con tuniche bianche, cinti di una fascia celeste, dai volti angelici e dalle teste ben rapate a circonferenza, accaparrati dai commensali, che se li covavano con gli occhi, smaniosi di abbracci e baci, vogliosi di toccarli sotto la tunica, più corta davanti.

Tra la prima portata di antipasti greci e la seconda di promulsides (antipasti appetitosi) antiocheni, erano entrati prestigiatori, che avevano fatto giochi di metamorfosi, facendo uscire uccelli da un catino di acqua, cambiando lintea (fazzoletti) in bianchi conigli e creando immagini ipnotiche di scene mitologiche, favorendo una atmosfera magica, serena, rotta sola da qualche tintinnio delle posate argentee.

Dopo la terza mensa, costituita da un pasticcio di mais, ripieno di formaggi e di ricotte, con asparagi, lodata da tutti i commensali, che esaltavano le raffinatezze efesine, tra la quarta e la quinta portata erano entrati quattro ercoli, muscolosi, che tenevano ciascuno un palo di un paio di metri, che disposti al centro della sala, avevano costituito un quadrato, grazie a corde, che legavano i pali, ben tirati.
Era il momento della lotta tra due gladiatori, un mirmillone, armato di elmo gallico a forma di pesce con piccolo scudo (parma) e con spada, e un trace , armato di rete e tridente: tutti guardavano i due campioni, se li studiavano al fine di fare le scommesse, fissate da un minimo di 500 sesterzi ad un massimo di 100.000 da un banditore, che doveva raccogliere i denari e depositarli nella cassaforte della casa: subito erano fioccate le scommesse, all'apparire dei due combattenti.
Agrippa, dopo la raccolta delle scommesse, l'aveva fatte contare e depositare da Silano: 1 milione di sesterzi ed aveva disposto che due guardie custodissero la cassaforte.

Due commensali, di origine giudaica, vedendo la precisione di Agrippa, ne lodavano la funzionalità e ricordavano suo nonno Erode, anche lui amante dei giochi gladiatori.
Il più vecchio diceva che il nipote glielo ricordava per i modi, per la signorilità e raffinatezza, ma il vecchio re era stato un guerriero, spietato con i nemici, fin da adolescente, ed aveva un aspetto più duro e virile.
Rievocava perfino una campagna contro Dineo Areta IV, re degli Arabi e la ferocia con cui prese le città, scannò i figli e violentò personalmente le sue donne, nella reggia di Petra, unico edificio in mattoni.

L'altro con una barba bianca e col taffetano farisaico, interloquiva poco, e quando lo faceva, mostrava la sua contrarietà verso il re, sacrilego, distruttore di famiglie, uccisore dei figli, mostrava la sua propensione verso la linea asmonea., ma conosceva bene i fatti ed aggiungeva i suoi sebasteni, nel frattempo, rapinavano tutte le case scavate e scolpite nella roccia.
Ed inoltre il vecchio rievocava la morte di Aristobulo ed Alessandro7, fatti strozzare perché gli rimproveravano di aver fatto morire la madre Mariamne e lo zio, adolescente sommo sacerdote, a Gerico, mentre faceva il bagno, da due galati.
I due si infuriavano e litigavano sulla toledoth (narrazione storica), infastidendo il cliente, che pensava solo a mangiare (e che ogni tanto alzava una mano per riabbassarla subito, come per scansare un moscone, che gli si posava sul piatto) e che ora invece invitava i giudei a guardare i muscoli del mirmillone e la sua faccia truce: due segni della sua potenza.

Mentre tutti erano intenti ai preliminari e a guardare le tipologie dei due gladiatori, che venivano unti e preparati per il combattimento, Agrippa sussurrava qualcosa a Claudio, che i commensali leggevano come un invito a provare le delizie della sua etaira (compagna) ed usciva, quasi di nascosto.
Il combattimento subito cominciava e si rivelava esaltante per la destrezza dell'uno e per la potenza dell'altro.
Il mirmillone, un omone della Germania, di una forza taurina, aveva immediatamente ferito ad un braccio l' avversario, più piccolo, ma guizzante come un pesce nella vasca.

Il mirmillone aveva già spezzato il tridente del trace e già era per sferrare il colpo decisivo, quando questi, seppure ferito anche ad una coscia, da terra faceva uno scatto verso sinistra e si rigirava con una capriola che lo portava nella parte opposta e da lì roteava la rete, la lanciava e tirava di colpo.
Le maglie si serravano e il germano era ora un pesciolino, furioso, impotente in balia dell'avversario, che si era rialzato: ora lo disarmava e gettava a terra,deciso a colpire a morte.

Il trace si volgeva verso il padrone di casa: vedeva solo Claudio intento a baciare i seni di una donna. Tutti si accorgevano, solo allora, che Agrippa non c'era più.
Il trace attendeva col moncone di tridente alzato: ancora di più il germano, che ora chiudeva gli occhi, rassegnato a morire, componendo la faccia truce, spianando la fronte, quasi sereno.
C'era imbarazzo nella sala: Claudio vedeva gli occhi di tutti su di sé, smanacciava l'amichetta, si ricomponeva ed ieratico alzava il pollice in sù, sostituendo il padrone di casa.

I commensali seguitavano a mangiare, i servi portavano via i pali; il germano, ancora incredulo,
aiutava il trace, ferito e dolorante; i due giudei riprendevano a discutere, e Silano andava a prendere i soldi delle scommesse per far pagare le vincite.
I creditori si erano guardati, incerti e dubbiosi, quando Claudio si era sostituito al padrone di casa: nessuno, però, aveva avuto qualche sospetto: era quasi una regola che l'invitato di maggior rilievo prendesse la decisione, in assenza del padrone.
Solo qualche senatore, che non aveva puntato, aveva forse subodorato l'inganno ed ora era guardingo.

Il ritorno improvviso di Silano, la sua faccia costernata, le sue parole: "non c'è la cassaforte, bisogna avvertire Agrippa", allarmavano i clienti, i creditori, specialmente, e tutti i giocatori, che chiedevano di essere risarciti, specie i vincitori.
Claudio diceva che Agrippa sarebbe tornato subito e che avrebbe onorato, secondo legge, regalmente, i suoi obblighi: "sedete, mangiate pure, aspettate con calma", aggiungeva sereno.
Claudio era un buon uomo e nessuno dubita di un buon uomo, specie se è un saggio, che vive sulle nuvole, che pensa solo alle donne, che è un minchione pacioso e tranquillo, considerato il deficiente della famiglia: tutti sapevano che Antonia 8, sua madre, aveva detto ad Augusto : "povero Claudio è uno scherzo della natura".

Le parole, però, erano parole: lui era un membro della famiglia imperiale.
Dopo tutto era il nipote di Tiberio, il figlio di Antonia, il fratello di Germanico, che parlava: tutti si fidavano e seguitavano a mangiare.
Agrippa, però, non si vedeva: cominciava a serpeggiare il sospetto in tutti. Scoppiava il putiferio quando un creditore sapeva dal suo amichetto che Agrippa non si trovava e che i servi lo andavano cercando per la casa e che non si vedevano neppure le guardie.

La sorpresa ora non era più nei volti dei commensali: s'insinuava, si radicava, si fissava la certezza che il pigmalione era fuggito: i pospasti, opera di pasticcieri campani, raffinati, erano sulla tavola: nessuno li degnava di uno sguardo; solo qualche cliente, sempre affamato, non sapeva scostarsi dalla tavola; tutti erano in piedi e pressavano Claudio e Silano, che cascavano dalle nuvole, che si dicevano estranei, che erano allibiti.

La certezza, comunque, veniva dallo stalliere, che, portato di peso in mezzo alla sala confessava " ha preso il suo cavallo ed è partito verso est con le sue guardie".
"Quando?" urlavano paonazzi i creditori, percotendo il povero servo, sfogando la loro rabbia sull'infelice, che faceva appena in tempo a dire "da un'ora", prima di essere ucciso da una pugnalata di Pallante, che lo immolava alla sua rabbia per la perdita di 2000000 di sesterzi, prestati in precedenza ad Agrippa.
Ora tutti stavano a discutere nella sala: i nobili subito se l'erano svignata, facendosi portare dai servi nelle loro case.
Anche Claudio si era allontanato: restavano solo gli interessati: i vincitori e i creditori che si accapigliavano per i denari che non c' erano, che litigavano per le priorità di pagamenti e di pignoramenti.
Io andrò dall'imperatore! urlava Pallante.
Anch'io! Anch'io! riecheggiava nella grande sala, ora quasi semivuota, ancora addobbata a festa: le colonne corinzie, i lacunari sontuosi, i quadri, i pavimenti e le fontane restavano abbandonate come testimonianze di un tempo felice, di un'epoca di ricchezza ormai finita.

LA FUGA
Agrippa era fuggito ed era diretto verso Tivoli e poi, a tappe, sarebbe arrivato a Brindisi, sempre alla chetichella, dove si sarebbe imbarcato su una nave da carico alessandrina.
Agrippa, ridendo e scherzando durante il viaggio, confidava ai suoi liberti, Marsia e Sila, che da tempo aveva meditato una tale burla e che ora, in patria, sarebbe vissuto da re, secondo il suo rango. Certo lui sapeva che i suoi creditori si sarebbero rivolti all'imperatore e a Seiano perché pagasse, perché fosse giustamente punito: ci sarebbero state petizioni, accuse, ma lui non avrebbe pagato nessuno: i porci creditori si sarebbero diviso la casa, gli schiavi, i mobili, i tori tricliniari, i quadri, le statue e perfino l'argenteria, i bicchieri e le posate: tutto avrebbero divorato, come cavallette voraci: lui non li avrebbe mai più visti e il suo debito sarebbe caduto in prescrizione entro due anni: benedetta la Giudea, maledetta la Romanitas e maledetta Roma, la sua seconda patria: sentiva, però, in fondo al cuore come un rimorso, ed avvertiva una voce che lo definiva giudeo corrotto e degenere.
Non lasciava nessuno a Roma, nessuno che amava, né donna, né uomo, né parenti, né correligionari fedeli: nessuno aveva sentito amico in quegli anni, nessuno.
Mentre cavalcava la rabbia si stemperava ed allora si insinuava il dubbio che forse a Roma aveva lasciato qualcuno.

Forse qualcuno aveva da ricordare, qualcuno che gli era stato veramente amico, qualcuno, effettivamente speciale: uno, morto, e uno, vivo, ambedue creature sublimi.
Con tristezza ricordò il volto caro di Druso, figlio di Tiberio e in un baleno ne rievocò le imprese .
Con un sorriso di gratitudine pensò a Claudio: ricordò con affetto Claudio, solo Claudio, a cui doveva la riuscita di quella fuga, al suo fratello di latte, all'amico di infanzia, all'unico romano a cui doveva qualcosa, ad un uomo apparentemente scemo, ma acuto come nessuno, sensibile come una giovinetta, poetico come Virgilio, storico come Livio, un uomo, di cui Roma non era degna.
Roma lo costringeva a recitare la parte della stupidus, pur di vivere!
Roma, caput mundi, non era più vivibile per nessuno e tanto meno per un Giudeo: ora si meravigliava come i pii correligionari, specie i farisei della Velia, potessero respirare ancora l'aria della babilonia infernale.

Oh come ammirava i Terapeuti, quei santi 1000 uomini contemplativi , che studiavano i sacri testi , li commentavano e vivevano di Tzedaqàh 9, sullo sponde del lago Mareotide!
Agrippa era fuggito, lungo l'Appia ed era diretto a Brindisi: da volpone aveva preparato tutto.
Ed ora, mentre con due suoi liberti galoppava verso il mare, se la rideva dei suoi creditori e si toccava ancora i denari loro, che portava con sé: il milione di Pallante, avanzato dalle spese per la cena e il milione delle scommesse.
Si era imbarcato facilmente ed aveva trovato perfino la cuccetta, quella del comandante della nave da carico, che l'aveva onorato grazie a 2000 sesterzi pagati per sé e i suoi liberti, i fidi Marsia e Sila.

Avevano fatto una buona navigazione fino ad Apollonia, da lì avevano costeggiato l'Acarnania ed erano arrivati a Corinto e poi, costeggiando l'Elide e tutto il Peloponneso, si erano diretti, dopo un riposo di un giorno a Citera, verso Creta per un'altra sosta, prima di giungere a Rodi; avevano dopo un riposo di due giorni in Licia, proseguito, costeggiando, fino ad arrivare a Cesarea.
Le navi alessandrine erano famose perché tenevano anche il corso diritto, perché avevano una ciurma di rematori veramente potente e soprattutto si riconoscevano per le vele.
Prima di approdare in Giudea, dal mare aveva guardato la bellezza della città, edificata da suo nonno sull'antica Torre di Stratone.
Ora ai suoi occhi si presentava una città ellenistica splendida, col suo porto, che era una meraviglia.

Ancora di più ammirava suo nonno per la grandezza del costruttore.
Il nonno aveva popolato di sogni la sua infanzia in senso eroico: lui aveva ricordi vaghi di un re, coronato, circondato da guardie, da uomini vestiti di bianco e di nero: una realtà regale avvertita da un bambino di due, tre anni, che era partito, tra il pianto generale, stretto tra le braccia di sua madre, per Roma. Infelice veramente sua madre, che per salvare il marito, si era rifugiata presso l'amica Antonia, che aveva assunto la difesa, grazie ai suoi avvocati, contro Erode ed aveva salvato Aristobulo e suo fratello Alessandro10 inizialmente.
Era stata veramente amica Antonia:non solo aveva supplicato di persona Augusto ed aveva salvato dalla morte i due fratelli, ma aveva fatto riappacificare il padre coi figli! Aveva minato inoltre l'auctoritas di Erode, tanto che Augusto aveva pensato di esautorarlo inviando il proconsole Saturnino!11

Inoltre Antonia, a detta della madre, li aveva ospitati e li aveva regalmente e munificamente considerati suoi famigliari e dava la mammella a lui perché ella era priva di latte, forse per il dolore, per le pene e per l'insicurezza del domani, mentre lei ne aveva in eccedenza, dopo la nascita di Claudio!
Lui, Agrippa, era stato educato prima direttamente dalla madre Berenice, che, poi, l'aveva messo alla Velia, dove i migliori giudei inviavano i figli ed era stato formato fino a tredici anni come tutti i ragazzi giudei, secondo la legge.
In quell'ambiente la figura di Erode, il re, era celebrata continuamente dai vecchi maestri: il giorno della nascita e il giorno dell'elezione regale, venivano fatte preghiere per la sua salute, specie alla sera quando dal Hazan, dal capo della sinagoga, venivano rievocate, la protezione di Adonai, le virtù e le imprese del sovrano.

Erode era il suo orgoglio: di lui si vantava continuamente; di lui diceva di essere il nipote; a lui voleva rassomigliare; con lui si confrontava, specie quando giovinetto sognava di ripetere le sue imprese.
Erode, però, era anche il suo incubo perché la madre di tanto in tanto, specie nei primi anni romani se lo prendeva con sé e se lo portava nel suo letto e con lui rievocava suo padre Aristobulo.
E lui chiedeva di suo padre e lui si fingeva suo padre e lui si credeva suo padre.
E lei lo chiamava piccolo Aristobulo, vieni da me! o potente signore, vieni da me! e col suo fare da donna creava la figura paterna in lui e gli additava Teudione, suo nuovo marito, a lei imposto da Erode.

La notte, gli tornavano in mente il padre morto e la madre singhiozzante e si sentiva morire :allora nel sonno vedeva stagliarsi imponente, imperiosa crudele, l'immagine di un re orrendo, mostruoso che, come un belva, assaliva anche lui nell'oscurità. Ma di giorno sognava spesso di essere un comandante di eserciti, vincitore, come lui, suo nonno, che liberava Israel dai romani.

Contemporaneamente sognava di essere socius dei romani, un nuovo Cesare pacificatore, che sapeva combattere contro gli Arabi e parti, che era clemente coi vinti, spietato con tutti i nemici, ma giusto verso i greci e verso i barbari: egli si credeva quella mano grande potente danielica che abbatteva ogni cosa, si vedeva marin12 e sentiva l'alleluia13 popolare. Una notte aveva avuto un incubo.
Mentre lui viveva una sua eroica impresa e sembrava essere un dio sulla terra improvvisamente si trovò davanti un orrida faccia, nera, che vomitava bestemmie e sangue e che alitava, come un serpente, condanne su due giovani, sua carne, impietriti dal terrore.

Lui, piccolo Agrippa, cercava di difendere e come un aquilotto tentava di attaccare quel volto e di staccare la testa serpentina, ma era impotente contro quella mano orribile perché ostacolato da una voce misteriosa, che lo rilegava in un angolo oscuro e lo costringeva ad appiattirsi, cosa ormai inerte e senza forza: il sogno notturno oscurava e turbava ogni impresa sognata durante il giorno.
Egli giudeo, vestito alla giudea, era stato assegnato da Antonia come compagno di Claudio, in quanto ragazzo vispo ed allegro, che avrebbe influito positivamente sul carattere chiuso, introverso, insicuro del proprio figlio, strano, lunatico, sempre assente.

Anche Augusto, che sempre aveva deriso Claudio, aveva compreso che quel giovane, così strano, era più sgraziato di forma che scarso di intelligenza: si notavano forse troppo l'andatura cascante e quella gamba destra trascinata, che appesantivano ancora di più quell'omone che parlava anche stranamente, in dialetto ligure, con suoni gutturali, che gli lasciavano la bocca aperta, senza alcun senso di metriòtes.
Anche Augusto era convinto che quel piccolo giudeo poteva essere utile alla crescita di Claudio e che quell'amicizia doveva essere coltivata: la rozzezza di Claudio doveva essere aggraziata dalla finezza innata di Agrippa, discendente di re e sacerdoti asmonei.

Ed Antonia aveva caro quel ragazzo giudeo e Claudio ancora di più perché gli risolveva con furbizia tutti i problemi , anche quelli scolastici ed in quanto giudeo ,obbligato alla castità fino a 20 anni, gli portava sempre donne, senza sfiorarle.
Il rapporto di amicizia con Claudio, la frequentazione della corte, i contatti con la società ellenizzata, lentamente avevano deviato il giovane giudeo verso il culto della civiltà romana, come cultura propria.

E così aveva rilegato la sua formazione giudaica in un angolo buio della sua anima, altrimenti egli appariva come uno stupidus di fronte ai giovani aristocratici romani ed era solo un curtus iudaeus14: il suo giudaismo veniva sopito e veniva innalzato l'orgoglio di essere romano.
Anche in questo Erode era il suo modello: egli era stato l'amico più caro di Augusto, dopo Marco Agrippa e l'amico di Agrippa più caro, dopo Augusto.
Egli perciò seguiva le orme di suo nonno nelle amicizie coi romani: poteva vantarsi che l'amicizia della sua famiglia con la gens Giulio-claudia era più antica di quella di ogni altra gens romana: il suo stesso nome M. Iulius Herodes Agrippa proclamava quella amicizia e testimoniava quel vincolo tra gli erodiani e la famiglia imperiale.
Agrippa aveva, dunque, avuto un amore devoto verso Erode, instillatogli da Berenice, che rievocava lo splendore della corte, la ricchezza di sua madre Salome, il potere della sua stirpe in Idumea, la saga delle imprese giovanili, cantate dai cantori idumei e le tante celebrazioni dei romani.

Il giovinetto con gli anni alimentava, però, il suo odio, conoscendo particolari sulla morte della nonna, del padre, entrando in merito ai contrasti, avvenuti nella corte e diventava spietato nella condanna di suo nonno, tiranno spergiuro e sanguinario.
Lui era stato il re che aveva determinato la fine della libertà dei giudei ed aveva accettato il titolo regale dai romani, diviso il potere spirituale da quello temporale, era stata la serpe che aveva distrutto la stirpe asmonea, simbolo di fede e di giudaismo e soprattutto aveva ucciso suo padre, sua nonna, la bellissima Mariamne.15

Egli ora amava il patrigno, come un figlio, lo stimava, lo rispettava, ma il suo amore era quello dell'orfano, che quando ama, ama perché sente la mancanza della carezza paterna, ama perché ode un rimprovero, ama perché vede una mano che punisce un figlio: amava Teudione perché gli mancava Aristobulo e non lo trovava in nessuno volto, se non in se stesso.
Tutto questo andava pensando Agrippa e rivedeva tutta la sua vita passata di fronte alle bianche mura di Cesarea Marittima.

I rancori e la devozione verso il nonno suscitavano contraddittoriamente nel giovane che ammirava la città che gli veniva incontro, esaltazione e tristezza. Stando sulla poppa, da solo, piangeva: erano lacrime che gli sembravano di purificazione per lui stesso, per la sua stirpe materna e per quella paterna, così connesse e intrecciate con infiniti nodi, mediante legami di sangue. La città appariva bianca per il marmo, con palazzi immensi e architettonicamente ben proporzionati, secondo la pianta ellenistica, ben fusa con l'impostazione generale a castra, in senso ortogonale.
Il porto ora gli appariva in tutta la sua bellezza, più grande e maestoso di quello del Pireo, bello come quello di Alessandria. Gli appariva soprattutto utile: nella zona, battuta dall'africo, non c'erano ripari o possibilità di approdo, in tutta la costa, fino all'Egitto.

I vecchi raccontavano che Erode aveva ordinato di gettare in acqua pietre per diciotto braccia, lunghe 25 piedi, alte non meno di 18 e larghe 9: il gran re l'aveva voluto suddiviso in tre bacini, racchiuso da un molo, sul quale erano disposti i magazzini per le merci, di cui quello più vicino al foro, che si affacciava sul mare, era chiamato Sebastos, in onore di Augusto: innumerevoli magazzini (horrea) erano allineati non solo lungo il fronte del porto, ma anche sui due moli.
Un alto faro era posto sul molo sud lungo 400 cubiti, che, all'estremità, formava un arco.
L'altro molo era della stessa lunghezza e parallelo al primo, che si estendeva solo in linea retta, e poi si collegava, mediante mura di fortificazioni alla città che finivano con due imponenti bastioni, tra cui era serrata una saracinesca , scorrevole , da cui si poteva far defluire i detriti dal porto.
In questo modo Erode aveva formato due porti, uno interno ad angolo retto ed uno per la navigazione esterna, racchiuso tra i due moli. Sulle punte, aveva fatto costruire la statua colossale della dea Roma e di Augusto, mentre, verso aquilone, sullo sfondo, al centro, imponente si stagliava la torre di Druso, fratello di Tiberio , col tempio di Cesare.

Sul porto interno aveva disposto un formidabile sistema di difesa perché sul promontorio, vicino al mare, vi era costruito il palazzo regale su una lingua di terra sporgente sul mare, parallela per un tratto al molo sud, e guardante verso la baia meridionale, da cui piccole navi partivano per trasbordare il carico da navi onerarie, ancorate al largo.
Egli ammirava la bellezza del porto di Cesarea, mentre entrava con la nave, da cui si vedevano imponenti da una parte della città il teatro e l'anfiteatro dall'altra: il primo, coi suoi tre anelli, era un gioiello di architettura classica; l'altro aveva dimensioni enormi: ambedue risplendevano per le insegne romane, dorate, per le statue di Tiberio e di Livia16, alternate a quelle di Erode, dei suoi figli, e perfino dell' amata Mariamne.

Mariamne, il fiore di Israele! Come era bella sua nonna! La sua statua ne era degna testimonianza come la sua storia , cantata dalla toledoth !
Mia nonna- rifletteva Agrippa, ammirando la colossale sua statua- fu uccisa per colpa di Doris, madre di Antipatro, e di Salome, sorella di Erode, le donne del clan idumeo, che avevano instillato nel monarca una gelosia folle nei confronti di Antonio, il triumviro prima e poi di Giuseppe, un dioichetes della corte, un parente amministratore della casa 17.

Egli ricordava l'episodio. Egli ricordava che Erode, insicuro della sua missione in Egitto, timoroso di Antonio, aveva portato, su richiesta del triumviro, il ritratto di sua moglie e dei suoi figli alla corte di Alessandria.
Cleopatra aveva visto una temibile rivale nella bella regina asmonea, che era stata ripresa dal pittore nel fiore della sua giovinezza.
Erode temeva che Cleopatra potesse persuadere Antonio a togliergli il regno e la vita per potersi appropriare delle sue terre e perciò aveva comandato al fido Giuseppe, suo cognato, di sopprimere la regina, in caso di un suo mancato ritorno.
In assenza del re, Giuseppe confortava a parole Mariamne, che aveva timori sulla fedeltà e sull'amore di suo marito, che attirato dalla metropoli sarebbe stato con altre donne, dimentico del suo amore: il fedele servo allora rivelava incautamente quanto gli era stato comandato, come suprema prova dell'amore del marito per lei.

Al ritorno, felice, dall'Egitto Erode festeggiava il rinnovato patto con Antonio e nell'intimità di un rapporto amoroso con la dolce Mariamne sfogava tutta la sua ardente natura di amatore e la sua passione amorosa: egli la chiamava con i nomi più dolci: cantava, quasi un inno all'amore e alla fedeltà coniugale secondo i termini del shir shirim 18: la donna, fredda ed impassibile lo gelò con: io sarei la tua janiki, quella che tu avevi condannata a morte, se non tornavi dall'Egitto!
Erode, già sobillato dalle donne idumee, si sentì tradito, si vide contaminato nel suo letto perché pensò che Giuseppe aveva amato la sua Mariamne.
Accecato da questo pensiero, stimò colpevole Giuseppe, condannò il caro Giuseppe, ministro sempre fedele ed ossequioso, ritenne sgualdrina sua moglie, che mai aveva conosciuto altro uomo se non lui.
Non vide altro se non tradimento, non sentì altre voci, né riuscì a calmare la ridda di contorsioni celebrali, che si addensavano nella sua testa, tutto preso dal tradimento di Mariamne, la sua Mariamne, la sua janiki: pianto, rabbia e volontà di vendetta lo accecarono.

Agrippa ora ricordava non solo l'episodio ma anche le parole, lette tante volte nella Toledoth: al re la testa martellava ed una voce maligna accusava Giuseppe "mai avrebbe svelato il suo comando a nessuno, se non ad una donna, che lo accoglieva nel suo letto, come amante; solo ad un'amante un suddito, avrebbe rivelato i mandati del suo re!"
Egli rievocò mentalmente l'ordine di strangolamento di Giuseppe, lo strozzamento di Mariamme e rivide la nonna sbalordita, incredula, con gli occhi sbarrati, con i capelli sconvolti e così piangeva:
Povera nonna! Infelice, morta per opera dell'uomo che amava e che aveva sterminato la sua famiglia! cosa mai avrà potuto pensare in quei secondi lunghissimi, in cui il suo carnefice affondava le dita sul suo esile collo, innocente!

LA GIUDEA
Appena sbarcato, Agrippa era silenzioso e per la rievocazione della nonna e per l'insicurezza del suo domani, anche se era euforico per aver toccato il suolo della sua patria, la terra dei suoi avi: la bacio ed alzò lo sguardo verso il grande acquedotto che portava l'acqua dalle sorgenti del Carmelo fino alla città..C'era una comitiva di idumei ad attenderlo: il capo con grandi passi si avvicinò alla nave.Era Teudione. Lo riconobbe subito e di corsa andò ad abbracciarlo, poi si tirò indietro e lo riverì secondo la tradizione giudaica che regolava il rapporto tra padre e figlio, col calore tipico di un giudeo. Teudione era stato avvisato preventivamente tramite lettere di un suo arrivo a Cesarea.

Era questi il fratello minore di Doris, la prima infelice moglie di Erode il grande, la nemica di sua nonna, che guidava una parte della corte contro la legittima regina asmonea e contro la sua fazione, superba della propria origine e spietata contro le altre mogli del re.Teudione egli lo aveva sentito familiare perché si sentiva molto amato da quel vecchio, erculeo, dalla barba bianca, signore di Idumea, toparco19.La sua faccia non era serena. Dopo le effusioni di un padre verso il proprio figlio, Teudione diceva che la sua fuga era stata inutile, che Capitone aveva già ordinato di dare almeno un 1.500.000 di sesterzi se non voleva guai perché era incaricato di arrestarlo in caso di rifiuto, per ordine dello stesso Imperatore.
Teudione diceva che egli aveva ottenuto che suo figlio non fosse arrestato allo sbarco ed aveva assicurato che avrebbe pagato e ribadiva con forza che non occorrevano le guardie per un figlio di re e che bastava la parola: loro erano i principi di quella terra, non servi.

Agrippa capì veramente quella frase, mai l'aveva capita, solo ora aveva un significato per lui: il mondo è romano, dovunque la iustitia è romana, non c'è luogo nell'oicoumene dove non arrivino i romani.
Bisognava pagare e sorridere , ingoiare il rospo dell'amarezza e della beffa.
Lui, giudeo-romano, è il beffato : un romano non è mai beffato: è il vincitore, sempre e comunque.
Teudione vedendolo triste ed indovinando i suoi pensieri antiromani, lo consolava dicendo : i kittim un giorno saranno cacciati e Israel dominerà dovunque: il mashiah è presente ormai.
Gli esseni parlano di un uomo che libererà il popolo e di una giustizia giudaica ormai vicina.

Raccontava poi di sua sorella Erodiade, che da Sephoris si era stabilita a Tiberiade, una città nuova sorta in Galilea. Diceva tutte queste cose per rallegrare suo figlio, stando nella sua tenda da nomade, attorniato da donne e lo invitava a riposarsi e a pensare a domani, ripetendo la massima terapeutica: domani è un altro giorno, giorno di luce, giorno di Jhwh. Teudione l'aveva portato in Idumea e lì era venuto un suo amico che magnificava le cose fatte da Erode Antipa sul Lago.

Parlava delle acque calde di Ammatunte, delle terme che il tetrarca aveva potenziato, arricchito: ora aveva edificato anche un Asclepeion, del tipo di quello di Pergamo, ma aveva imitato di più quello che Celso aveva fatto ad Ierapoli, dove le acque erano state condotte verso piscine, erano state divise in calde, tiepide e riattivanti: erano state fatte precipitare da una cascata e cadere giù con forza in un grande bacino, che le raccoglieva .E intorno alle sorgenti era stata progettata la nuova capitale, a cui era stato dato il nome di Tiberiade.
Aveva perfino invitato Ponzio Pilato, il procuratore venuto da poco come sostituto di Valerio Grato, all'inaugurazione e l'aveva onorato in tutti i modi: tutti parlavano ormai di una grande amicizia tra il romano e il tetrarca.

L'amico di Teudione aggiungeva che Antipa aveva prima di tutto costruito mura, che difendessero la città, specie ad Ovest e a Nord, mentre a Sud ed a Est aveva creato terrazzamenti difensivi.
La città poi era stata costruita su pianta greca, ad imitazione di Sebaste, costruita da suo padre: Antipa, si era servito di un architetto alessandrino,che aveva fatto un progetto veramente funzionale: da una parte tutti gli impianti sportivo-ricreativi, la biblioteca, il tempio di Zeus vicino alle sorgenti calde di Ammatunte, con l'agorà e il ginnasio, mentre da un'altra, vicino al lago, aveva lasciato le quattro casette di pescatori , ora ben ripristinate, intorno cui aveva costruito case cubiche del tipo giudaico , lasciando per ognuna un piccolo pezzo di terreno.
Nel centro di questo rione giudaico si alzava la sinagoga, che imitava la grande sinagoga di Alessandria, fatta costruire da tectones galilaici.

Le vie erano tutte tagliate ad angolo retto come i castra romani, edificate così in modo da contrastare con la città giudaica , lasciata con le sue rue e vicoli storti.
Aveva fatto due darsene per favorire l'attività peschereccia dei pescatori locali e le aveva dotate di locali per la vendita del pesce: aveva fondato la compagnia di conservazione del pesce, di cui lui stesso era il massimo azionista ed aveva dato la comproprietà alla comunità dei pescatori del lago, creando una competizione con la già affermata società conserviera di Tarichea, la città del lago più a sud.
Un altro ospite di Teudione, di nome Nahum Bar Mardocai, di Babilonia, mostrava come il re avesse popolato la città e ne approvava il sistema. Enfaticamente, secondo l'uso dei babilonesi, con grandi gesti e con toni altisonanti, maggiorati dalla voce cupa, Nahum diceva che erano stati invitati come cittadini i Galilei dei nord e quelli del sud con forti pressioni ad emigrare, data la concentrazione demografica e li aveva coinvolti con promesse di case e privilegi .
Aggiungeva che molti adiabeni erano venuti a Tiberiade con lettere di Monobazo, loro re, che attestavano la loro nobiltà.

Infatti aveva raccolto molti poveri anche al di qua e al di là del lago e richiamato anche alcuni transgiordani ed aveva dato a tutti la libertà, anche se erano schiavi.
Regalava loro sesterzi e licenze di commercianti a tutti quelli che facevano richiesta scritta personalmente. In questo modo selezionava ed in un certo senso censiva i futuri cittadini e per la manomissione degli schiavi aveva fatto anticipatamente la festa del settimo anno, creando un doppio anno sabbatico, innovando, a fin di bene, la legge, col consenso dei sacerdoti.
Soprattutto erano stati invitati i nobili perché il tetrarca riconosceva il loro titolo ed aveva loro assegnato le case migliori della città, costruite anche secondo i loro desideri.

I nobili erano però obbligati a non allontanarsi dalla città e a presentarsi ogni inizio del mese nel suo palazzo regale, a cominciare dal primo Kislev20.
Nahum seguitava pomposamente, lisciandosi la barba squadrata nera: a tutti venivano dati, una volta entrati nella città, il diritto di asilo e la cittadinanza secondo i diritti della legge patria.
Helchia e Nahum avevano parlato con molta enfasi perchè avevano deciso in cuore loro di diventare abitanti di Tiberiade: ambedue erano farisei, di nobili natali sia da parte di padre che di madre.
Il primo era parente di Agrippa dalla linea materna, mentre l'altro era famigliare di Anania, capo dei sadducei, figlio di sommi sacerdoti della famiglia Kantara, ostile agli Anano.
Agrippa aveva ascoltato attentamente, interessato, visto che doveva pagare il debito, considerata la sua condizione finanziaria e la sua situazione di esule e fuggiasco, cominciò a pensare che per ora poteva rimanere presso il suo patrigno e che in seguito si sarebbe presentato a sua sorella Erodiade: era pur sua sorella, con la quale aveva passato la puerizia e con la quale a Roma aveva fatto la vita brillante insieme al suo primo marito Erode Filippo21.

LA METANOIA

Teudione aveva pagato il milione e mezzo di sesterzi a Capitone, che aveva scritto lettere a Cesare e a Seiano per regolarizzare la situazione di Agrippa.
Nella lettera a Seiano, il procuratore era più ricco di particolari : infatti riferiva al potente ministro che Pallante doveva ritenersi soddisfatto e in caso contrario poteva rivolgersi a Silano per ulteriori risarcimenti e per il pagamento parziale dei creditori e dei vincitori delle scommesse.
Faceva inoltre le scuse pubbliche per conto di Agrippa ed aggiungeva che il giudeo non era fuggito, ma era a loro disposizione, presso le tende di Teudione.
Egli era venuto in Giudea, si era presentato spontaneamente a lui ed aveva consegnato il denaro: solo motivi improvvisi ed impellenti di famiglia lo avevano fatto partire precipitosamente dalla capitale.
Teudione riportò la ricevuta di pagamento al figlio, che non commentò, ma si lasciò sfuggire un maledetti romani rabbioso ed astioso, che era segno di un stato d'animo nuovo.

Per la legge, grazie ad Erennio Capitone, procuratore dell'ex territorio di Salome, ora della vecchia Livia, l'Augusta madre, che l'aveva ereditata dall'amica Salome, egli era ancora un civis, libero di circolare nell'impero, con tutti i suoi diritti e in Giudea era un uomo riverito e stimato.
Certo a lui, sperperatore di patrimoni, quel mezzo milione, scarso, di sesterzi, che era un cifra enorme per un qualsiasi giudeo, capace di risparmiare, valeva un'inezia: lui abituato a condurre una vita sregolata ed ancora pieno di debiti privati, non pagati a cittadini romani della capitale, a liberti giudei, anche gravitanti nell'area siriaca, come pubblicani, pensava di poter vivere ancora regalmente, ma aveva il futuro oscuro, nebuloso.

La sua stessa piccola cohors di liberti e di adulatori lo spolpava ogni giorno e quella somma si sarebbe ridotta a zero nel giro di un mese.
La fuga l'aveva prostrato, una volta finite la carica nervosa, che l'aveva sostenuto, e la euforia del ritorno in Patria.
Il versamento del denaro a Teudione e le ricevute di pagamento da parte di Capitone gli fecero l'effetto di uno schiaffo: lui, figlio di re, doveva pagare i romani; lui figlio della luce giudaica, era un servo dei romani.
Questo pensiero per la prima volta si era radicato in lui, romanizzato, e fuso con altri pensieri, sentiti dagli amici di Teudione e con altri del suo patrigno: egli aveva cominciato a capire che la Romanitas, vista a Roma significava qualcosa, vista in Giudea era un ‘altra cosa, ben diversa.
L'imperium, di cui egli era fervente assertore a Roma e per il quale aveva combattuto insieme agli amici di Germanico22, era un grandioso sistema militare, che sotto il segno della pace, aveva una valenza economica immensa per le casse dell'erario e del fisco.

L'imperium si mutava in un complesso strumento di rapina a favore dell'occidente, degli italici e di Roma, che costituivano la parte agricola, e sfruttava e succhiava i frutti del lavoro dell'oriente commerciante, industriale. In Giudea la vita reale mostrava un'altra Roma, molto diversa da quella propagandata: non la benefattrice dei popoli, non la moderatrice tra barbari e greci, non la dispensatrice di beni ed espressione di pace e di felicità per tutti: essa era la patria dei vincitori, la nemica di tutti i siriaci, la vincitrice che imponeva tasse e tributi ;i suoi cives erano uomini che speculavano anche sulla povertà del popolo e i suoi milites spietati esecutori di una iustitia ingiusta, perché tutelata da foedera iniqua.

Da qui la certezza di essere stato un cattivo giudeo, di essere stato un civis condizionato dall'imperium, di un uomo, staccato dalla pietas del suo popolo: la sua stessa lingua, abbandonata, era un segno della sua ellenizzazione, in quanto lui era perfettamente integrato nel sistema ellenistico e in quello romano.
A lui venivano in mente non le frasi bibliche in aramaico, ma le frasi di Filone in greco e quelle latine dei poeti augustei inneggianti alla funzione di Roma e del suo imperium.
La stessa cultura alessandrina, opportunistica, sintetizzata da Filone23, come eredità del sistema moderato giudaico, desunto dalla legge, sulla philia (amicizia), ora lo faceva meditare.
Un uomo non deve considerare un amico per sempre né un nemico per sempre perché le vicende umane sono tali che amicizia ed inimicizia si disfano e si creano improvvisamente nuove forme di aggregazioni impensabili, a seconda delle situazioni e degli interessi.

Ogni uomo deve maturare una politica flessibile e moderata che superi l'esplosione di pulsioni ed emotività giovanile e così gli adulti di ogni popolo, che regolano le politiche nazionali, devono essere saggi, tenendo presente la varietà in situazione, il benessere delle genti, al di là della emotiva partecipazione alle vicende.
I popoli poi fanno ora trattati di pace con quelli che un tempo erano stati e sembravano ferocissimi nemici, ed ora , all'improvviso, diventano nemici di quelli che erano stati amici fedelissimi.
Come era vero ciò che scriveva Filone, come conclusione! la vita è un'alternanza di stati , di pace e di guerra, di amore e di odio, ma niente è duraturo; e di norma la guerra prepara la pace e la pace è foriera di guerra!
Un popolo debole deve perciò saggiamente non aver grandi odi, ma sapersi mantenere moderato in ogni evenienza.

Era questa la situazione del suo popolo ed a questa doveva conformarsi.
Questo pensiero di Filone si sposava con quelli di Teudione, che, da vecchio saggio, soleva concludere contro i suoi amici che inneggiavano alla guerra contro gli esosi romani, contro i soldati che violentavano le loro donne, che distruggevano per rappresaglia le loro coltivazioni, che bisognava pensare seconda la logica dell'Ecclesiaste.

E cominciava a dire pacatamente, come se recitasse una preghiera:
Ogni cosa ha il suo tempo
e ogni faccenda il suo momento sotto il sole:
tempo di nascere e tempo di morire
tempo di piantare e tempo di svellere ciò che si pianta
tempo di ferire e tempo di guarire,
tempo di distruggere e tempo di edificare,
tempo di piangere e tempo di ridere
tempo di gemere e tempo di danzare
tempo di gettare pietre e tempo di raccoglierle;
tempo di abbracciarsi e tempo di astenersi dall'amplesso;
tempo di cercare e tempo di perdere,
tempo di conservare e tempo di buttar via
tempo di strappare e tempo di cucire
tempo di tacere e tempo di parlare,

tempo di amare e tempo di odiare
tempo di guerra e tempo di pace.


E finiva col dire che c'era sempre un tempo in cui l'uomo doveva svolgere una precisa missione, ma bisognava essere, comunque, sempre cauto perché niente era definitivo su questa terra.
E davanti ai cives che si arricchivano, tronfi di superbia nei confronti del popolo, davanti a pubblicani, che spillavano denaro non solo al ceto medio ma anche all'aristocrazia locale e davanti ai popolani, che si lamentavano davanti ai saggi idumei, che commiseravano la loro condizione, Teudione era solito esclamare: è giunto il tempo dell'attesa, il tempo in cui ogni israelita attende la venuta del santo e, quindi, è fiducioso nel signore perché solo lui conosce il destino dell'uomo privato, delle comunità e degli stati: il sapiente ancora di più attende la luce del signore e il sorgere del sole.

Ed Agrippa, sentendo il padre, ascoltando le voci idumee, girando per i villaggi, aveva capito che la Giudea ora attendeva e che la sua attesa era ormai finita : il Regno dei cieli era vicino si sussurrava da alcuni, si diceva da altri, si gridava da molti.
Tutti, comunque, in Idumea avevano questa speranza che ormai si era mutata in certezza.
E nelle passeggiate solitarie alla scoperta delle sue radici giudaiche, mentre ascoltava i canti o le preghiere dei vecchi, ripercorreva la via della conoscenza e tornava ragazzo alla scuola non di pedagoghi romani ellenizzati o di rabbini romanizzati, ma cercava di fare un nuovo apprendistato per rigenerarsi e per avere quasi una palingenesi, che doveva portarlo verso una metanoia, una radicale trasformazione.

S'insinuava in lui la coscienza della sua reale situazione di un venduto, di uno sradicato dalla sua tradizione, di un degenere.
Le stesse parole di Teudione (la nostra vita semplice farà ridere te vissuto nel lusso della capitale, i nostri pasti da beduini e la nostra tenda, però, sono la tua casa, la casa del padre, la casa di YHWH) lo turbavano.
La preghiera corale, la benedizione del pane e del vino gli avevano aperto ferite nel cuore, gli avevano scoperto la carne, facendo apparire nuda la sua anima di bambino vizioso e l'avevano costretto a confessare la sua colpa, il suo abominio davanti a tutti, in modo personale, senza l'attenuante del peccato comunitario.
I sogni della notte, ricorrenti, condensavano e quasi sintetizzavano tutte quelle giornate, dense di meditazione ed aveva ripopolato il suo cielo di nubi e di angeli e di demoni infernali: si vedeva in mezzo alle fiamme e, divorato dall'arsura, aveva sete e non poteva toccare acqua.

Gridava aiuto e nessuna voce usciva dalla sua gola riarsa e secca.
Guardava in alto e vedeva la luce come proveniente da un sole, che sfolgorava dietro una nube sfilacciata e questa nube era piena di spiriti sereni, allegri, beati che sorridevano nella loro pienezza di luce e di santità: gridava, ma la sua voce non si alzava e quasi si strozzava dentro; le sue urla non si concretizzavano in fiato, in suoni, non avevano corpo né sostanza sonora.
Gridava e finalmente il grido esplose in voce: pietà di me, e ripeteva la parole di Giobbe signore, Adonai, lava i miei peccati, liberami dal male, io sono indegno.
Un altro se stesso, forse il padre Aristobulo, forse il nonno Erode puntava il dito verso Engaddi , le rupi scoscese di Engaddi, verso il deserto di Giuda ed anche la luce sembrava illuminare il nudo deserto di Engaddi.
Teudione stesso l'aveva svegliato, preoccupato per lo stato ansioso del figlio, per la smanie notturne del giovane, per i lamenti strozzati, come soffocati, della notte, richiamato da ancelle e l'aveva vegliato, assistito.
Ora il vecchio sorrideva ed aveva qualcosa di una figura sognata, accanto a suo padre, a suo nonno, e gli sembrava che fosse proprio un'anima santa che voleva ora sapere, cosa avesse avuto la notte.
Agrippa sfogò la propria anima, il male fatto a Roma, i suoi rimorsi, la vita peccaminosa, confessò spontaneamente tutte le sue vergogne implorando il perdono del padre, il perdono di Dio, come il giorno prima aveva implorato a tutti i presenti il perdono.

Teudione disse che il padre gli indicava la via da seguire: il deserto è per ogni giudeo luogo di purificazione e il simbolo della redenzione, della strada stretta della penitenza e del rinnovamento.
Poi il patrigno si fece più serio, come se svolgesse una funzione: gli rivolse alcune domande rituali, a cui il figlio rispose.
Infine Teudione lo benedì e lo invitò a fare la professione dei santi: Vuoi di nuovo fare parte della nostra comunità giudaica? Dì la preghiera, professa con lo Shemà la tua fede.
Alla risposta affermativa di Agrippa, Teudione, commosso, aggiungeva: tu non devi rispondere, i fatti parleranno per te ed allora torna da noi; noi capi e i sacerdoti ti diremo cosa fare, in relazione alla tua età, alla tua istruzione e alla tua famiglia; per ora va in solitudine e in silenzio ascolta la voce potente di Dio, leggi il suo percorso, trova i segni del suo disegno su di te.
Va, Agrippa, il deserto ti ammaestrerà con le sue rocce, asciugherà ogni vena maligna, disseccherà ogni sorgente di male; la vampa solare brucerà e purificherà la tua carne, il sale sosterrà la tua volontà , le tue carni di goy si dissolveranno nel digiuno e nella penitenza. Va, figlio, Adonai sia con te.

Lo baciò, e rientrò nella tenda: andava ripetendo un altro passo dell'Ecclesiaste, convinto che si adattasse al suo Agrippa e sicuro di essere ispirato dal Signore:
Meglio un giovane povero e sapiente
di un re vecchio e stolto, se non ascolta consigli.
Infatti, nato povero mentre quegli regnava
egli è uscito dal carcere per salire sul trono
ed ho visto tutti i contemporanei che vanno sotto il sole
seguire questo giovane asceso al trono.
Egli è alla testa di una folla senza fine
ma quelli che vengono dopo non saranno lieti;
sì anche questo è vanità e soffio di vento.

Agrippa si vestì di sacco, si cosparse di cenere, si mise i sandali di giudeo errante, e partì.

E per quaranta giorni fu nel deserto, meditò sulla sua vita, fece il punto, decise di sposarsi, di aver famiglia e di essere un timorato di Dio: Adonai nella sua infinita sapienza e bontà l'avrebbe perdonato.
Ora era il tempo del digiuno, della penitenza: il suo corpo era bruciato dal sole, i suoi occhi accecati dalla salsedine, ma la sua anima cominciava ad intravedere la luce, a rintracciare la via della salvezza, ritrovava la legge, come aveva fatto il suo popolo, uscito dall'Egitto.
Il deserto di Engaddi era un inferno per gli occhi, per i piedi, per la bocca e per la pelle di un romanizzato: di giorno sole e sale torturavano il penitente, di notte il freddo intenso accapponava la pelle e la macerava, voci misteriose inseguivano, penetravano nelle più profonde grotte, come il vento, e gelavano il cuore.
Finalmente lo vedeva tornare Teudione, smagrito, zoppicante, semi accecato, ma felice: aveva l'anima piena di Dio, aveva il silenzio della virtù, il vuoto della purezza, la genuinità di un bimbo: era tornato ad essere il figlio del padre, l'eletto di YHWH: la santità era stata raggiunta tramite la segregazione, la separazione , il deserto.
Il suo scetticismo era riempito di fede: la sua ricerca sembrava definitivamente chiusa.

26/11/2009





        
  



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