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Cesarea Marittima XVI puntata(VI parte)

San Benedetto del Tronto | Altra puntata del Romanzo "L'eterno e il regno" del professor Angelo Filipponi

di Angelo Filipponi

Anno di Roma 797- Consoli G. Crispo e T. Statilio - anno 44

Sotto il consolato di G. Crispo, console per la seconda volta e T. Statilio anno 44, Claudio giunse a Roma dopo una assenza di sei mesi , dei quali solo sedici giorni era stato in Britannia, e riportò il trionfo.

Tra le varie procedure della celebrazione, che condusse secondo la tradizione, salì anche gli scalini del Campidoglio in ginocchio, con l'appoggio dei suoi generi, che lo sostenevano dall'una e dall'altra parte.

Ai senatori, che avevano preso parte alla campagna, insieme a lui, diede gli onori trionfali.

Poi celebrò il trionfo, assumendo per l'occasione una specie di potere consolare. Esso si tenne contemporaneamente nei due teatri e spesso si assentava dallo spettacolo, mentre altri lo sostituivano nella sua funzione di supervisore.

Aveva poi annunziato che si tenessero tutte le corse di cavalli, che si sarebbero potuto svolgere in un giorno, ma non ve ne furono più di dieci perché tra una corsa ed un'altra furono trucidati anche degli orsi; si tennero gare atletiche e dei fanciulli, appositamente fatti giungere dall'Asia, si esibirono nella danza pirrica .

Un altro festeggiamento, sempre in onore della vittoria, venne celebrato dagli artisti teatrali, su concessione del senato.

Dione Cassio, Storia Romana, LX,23

Claudio intraprese una sola spedizione militare e anche questa modesta. Avendogli il senato conferito gli ornamenti trionfali, stimando che i soli ornamenti fossero troppo poco per la maestà del principe e volendo conseguire un vero trionfo prescelse a questo scopo la Britannia, che nessuno aveva più cercato di attaccare, dopo il divo Cesare, e che era in agitazione, perché non erano stati restituiti i disertori.

Senza nessun combattimento e senza spargimento di sangue, ricevuta in pochi giorni la sottomissione da parte dell'isola, tornò a Roma, sei mesi dopo esserne partito.

Così celebrò con grande sfarzo il suo trionfo e permise ai presidi delle province e perfino a qualche esiliato, di tornare a Roma per assistervi.

E, per di più, pose sul fastigio del palazzo in mezzo alle spoglie nemiche una corona navale, accanto a quella civica, come segno dell'Oceano attraversato e quasi domato.

Svetonio, Claudio, 17

Avendo Erode Agrippa compiuto tre anni di regno in Giudea, venne nella città di Cesarea, che prima era chiamata Torre di Stratone, e lì celebrò uno spettacolo in onore di Cesare Claudio per la sua salute.

A questa festa vennero in gran numero nobili di tutta la provincia e similmente i principi.

Il secondo giorno degli spettacoli, Agrippa, vestito della stola, ricoperta tutta all'intorno di argento, lavorata in modo meraviglioso, giunse al teatro, al far del giorno.

Il sole levandosi, batteva i primi raggi sulla stola e diffondeva un chiarore argenteo tanto che il re, colpito, rifulgeva di uno splendore straordinario ed accecante, da incutere timore a chi lo guardava.

Gli adulatori, allora, dicevano parole di elogio, che a lui non sembravano davvero buone in quanto lo chiamavano Dio: sii a noi propizio: noi fino ad ora ti abbiamo temuto come uomo, ora invece vediamo che tu sei di natura superiore.

Queste parole il re non le fece troncare, né riprese le loro empie voci e poco dopo, guardandosi attorno, vide sopra la sua testa un alloco, che stava su una fune: subito capì che era causa dei suoi mali, come precedentemente gli era stato di buon augurio.(L'alloco gli era comparso quando fu imprigionato da Tiberio ed un druido, di nazionalità germanica presente, gli aveva predetto il trono; questi, però, gli aveva profetizzato anche che, quando avrebbe rivesto l'uccello, sarebbe morto).

Ebbe una fitta dolorosa al petto e subito pensò ad un dolore mortale e, guardando gli amici, disse:" io, vostro Dio, sono costretto a cambiare natura: subito sono stato punito perché alcuni bugiardi mi chiamavano Dio. Io, da voi chiamato immortale, sono ora già avviato a morte: Noi dobbiamo contentarsi della sorte avuta da Dio: siamo vissuti bene, ma abbiamo bramato fama di beatitudine".

Mentre diceva queste cose era molto straziato dal dolore.

Subito, in fretta, fu portato al palazzo regale; la notizia che il re stava per morire si divulgò all'istante.

Subito, tutti con le mogli e i figli, secondo il costume patrio, si gettarono per terra, si avvolsero nei sacchi, pregarono Dio per il re, riempiendo di pianti e di gemiti ogni luogo.

Il re, nel frattempo, era stato posto nel luogo più alto della casa e guardando in basso vide il suo popolo prostrato e non poté trattenere le lagrime.

Per molti giorni sopportò il dolore fisico, dal quale fu consumato: morì a 54 anni, il settimo del suo regno, dopo che aveva regnato 4 anni sotto Gaio Cesare, con la tetrarchia di Filippo per tre, il quarto con quella di Erode, e gli altri tre sotto Claudio, in cui finì il suo regno. Agrippa morì nel 44 d.C- Anno ebraico 3804

G. Flavio, Antichità Giudaiche, XIX, 343-351

Erode Agrippa e il regno

Erode Agrippa I ora regnava in tutta la Palestina: il suo sogno si era realizzato.

Agrippa, Tyrannodidaskalos (maestro di governo) di Gaio Caligola e fratello di latte di Claudio, l'imperatore, veniva visto dalla pars filoromana, come "un unto del signore", il pastore del gregge: venivano nascosti i tanti difetti del nuovo re, ellenizzato e romanizzato.

La propaganda era stata ben organizzata: il re era stato alonato come prediletto da JHWH, che l' aveva scelto, l'aveva fatto degradare, ma poi lo aveva innalzato al trono dei padri, giustamente.

Giustamente il suo merito era stato riconosciuto nel periodo oscuro di Gaio Caligola1: JHWH aveva fatto superare quel tunnel buio, quel tragico momento, quel tempo dello strazio, l'ora della desolazione.

Lui era stato l'unto del Signore, il pastore buono, che non aveva abbandonato il gregge al lupo.

La provvidenza ora mostrava la sua benevolenza e mostrava a tutti l'esito finale: il buon israelita doveva essere fiducioso nel suo Dio, che si era ricordato del suo popolo e che aveva fatto eleggere re di Giudea un giudeo di Jerushalaim.

Un figlio di Aristobulo, un nipote di Mariamne ben Hircano, ora aveva il potere del nonno Erode riconosciuto, come lui, re dai romani.

Il popolo aveva il suo pastore.

Il regno di Erode Agrippa I aveva un'estensione superiore perfino a quello davidico: comprendeva l'ex tetrarchia di Filippo (Batanea, Ulatha, Traconitide, Auranitide, Gaulanitide), l'ex tetrarchia di Antipa (Galilea e Perea) aveva la giurisdizione delle città della Decapoli, l'amministrazione provvisoria della Cilicia e della Commagene, e perfino di Abila, oltre ai territori governati dai procuratori romani (Giudea, Samaria, Idumea e la zona costiera, con tutte le città, compresa Cesarea Marittima, capitale del Regno).

Il nazionalismo ebraico, da una parte, era accontentato e in un certo senso risarcito dei tanti mali sofferti sotto Gaio Caligola: ora c'era un re, che, in modo unitario, curava gli interessi di tutti i giudei sparsi per il mondo, che provvedeva al mantenimento dell'ordine, all'organizzazione sociale, alla pace religiosa, alla gestione economica secondo la torah, senza gli intralci della burocrazia romana, senza l'invadenza di greges di pubblicani.

Anche i contrasti tra sadducei ed esseni nel tempio si era placati in quanto Jakob, il fratello di Jehoshua, assicurava un rapporto nuovo tra il popolo e il re, grazie ad una comunità messianica ben organizzata e ad un gruppo armato di sicari, disciplinati dal maestro di Giustizia: la regolarità delle festività gerosolomitane era assicurata, come avrebbero voluto i governatori romani di Palestina e di Siria.

I romani avevano affidato la difficile gestione di uno stato, impostato teocraticamente ad un Giudeo, che doveva far contemperare la iustitia romana e quella ebraica, il potere regale e quello sacerdotale, far funzionare bene l'amministrazione complessa di una nazione che non sapeva piegarsi a servire due padroni, i Romani e Dio.

Erode Agrippa doveva regnare per conto di Roma e mantenere un equilibrio tra le parti, assicurare la pax in Oriente, formare la siepe, desiderata dalla diva Antonia, contrastando con l'aiuto del governatore di Siria e coi re di Armenia, dei Nabatei e di Adiabene l'invadenza parta dei figli di Artabano, Gotarze e Vardane 2.

Ed Agrippa aveva assunto bene il suo compito, anche se gli amici di un tempo mal vedevano la sua filoromanità, ma lo temevano.

Ed Izate era ora un amico forzato, che non sempre ne condivideva le scelte.

L'alabarca, che aveva aumentato il suo impero finanziario con Claudio, che aveva ristabilito l'equilibrio religioso, avendo anche la carica di etnarca di Alessandria, secondo gli statuti di Augusto, dopo la bufera di Caligola, ora era il vero regolatore della politica imperiale e perciò aveva aumentato i rapporti di amicizia con Erode Agrippa, mentre suo figlio Tiberio Alessandro aveva fatto la carriera militare, comportandosi come un mezzo-giudeo e l'altro figlio, Marco, era promesso sposo di Berenice, la figlia del re.

Shimon aveva fatto carriera: non era più solo un mebaqer di Caphernaum, ma ora era un capo in Jerushalaim, anche se dipendente da Jakob, il fratello del povero Jehoshua.

I popolani, oppressi dalle tasse, vedevano Erode Agrippa come un rinnegato e i nazionalisti, zelanti di fede, consideravano la riunificazione un'offesa al loro nazionalismo, alla loro ideologia del Regno dei Cieli e sognavano il ritorno di Jehoshua (parousia).

Nell'attesa del ritorno del signore la parola giusta di Jakob era segno di equilibrio tra le parti contrastanti, tra sadducei e farisei, assicurava i rapporti tra il popolo e i gli aristocratici, era legge quando infuriavano gli odi.

Shimon era un emotivo, facilmente influenzabile, e i suoi amici vedevano in Erode Agrippa non il re, come essi avevano pensato di un Regno ebraico, simile al Regno dei Cieli, ma un princeps imposto da Claudio: tutti, comunque, era trattenuti dalla parola di Giacomo il Giusto: anche il re lo venerava.

Agrippa certamente ai seguaci di Jehoshua appariva come l'ex precettore di Caligola, il traditore, l'ubriacone, il debosciato, il birbone megalomane, lo sperperatore di patrimoni, indegno di essere considerato figlio di Israel e veniva chiamato asmoneo degenere e perfido erodiano, ma il suo nome non era maledetto perché era sotto la tutela del fratello di Jehoshua, che leggeva la volontà di Dio. Agrippa doveva essere il re, colui che, pur seguendo la sua eukairia (convenienza), aveva ben meritato durante l'abominio della desolazione: Agrippa era rimasto giudeo ed aveva tradito Caligola determinando la salvezza di Israel.

Aveva tradito il suo benefattore per il suo profitto, ma così facendo aveva operato per il bene del suo popolo, per la felicità dell'oikoumene, del mondo romano.

Aveva acquisito meriti per la sua azione, aveva tradito ma aveva salvato Israel: questo lo aveva purificato agli occhi di tanti.

La salvezza del tempio era priorità assoluta: anche la sua amicizia e la sua gratitudine venivano sacrificate sull'altare del Santo! Anche lui, dunque, aveva patito per la salvezza di Israel!

Agrippa, comunque, ora era il re, il re di tutti, pagani e giudei, in Terra di Israel.

E nel terzo anno di regno in Giudea, il re era a Cesarea, dove passava l'estate: la città gli era cara, quasi come Gerusalemme, la sua patria.

Gli erano giunte notizie del ritorno di Claudio dalla Britannia, del suo trionfo a Roma ed aveva voluto partecipare alla gioia del fratello di latte, dell'amico, del suo patronus, con una lettera e con doni, come testimonianza di un'amicizia, che superava le barriere del tempo e le distanze geografiche, come pegno di un rapporto profondo e duraturo, che solo la convivenza nei primi anni di vita può dare, quando non c'è malizia, né calcolo, quando solo l'istinto avvicina e lega per sempre con una rete di vincoli invisibili e sottesi, che poi si rivelano in assenza dell'altro, come melanconia e nostalgia.

Aveva fatto costruire una statua, colossale, di Claudio, giudice giusto, con la lex nella mano sinistra e con la destra aperta, simbolo di salvezza e di beneficenza.

La propaganda ellenistica inneggiava a Claudio come soter del mondo, euergetes per i giudei, che , pur maledicendo il re per la sua empietà, in cuor loro, tuttavia lo ringraziavano perché non l'aveva fatta installare in Jerushalaim, ma a Cesarea, lontana dal tempio.

Agrippa era felice, si sentiva realizzato e voleva far partecipi della sua fortuna i suoi sudditi e i suoi amici. Volle celebrare, perciò, uno spettacolo in onore di Claudio, per il suo genetliaco 3, il 1 Agosto.

Lo spettacolo consisteva in due fasi, una gladiatoria e una teatrale-corale: aveva allestito la prima servendosi dei sicari e degli zeloti (imprigionati nel corso di rastrellamenti militari) che furono fatti condurre in gran numero, in modo che essi mostrassero la loro abilità militare tra loro o con veri gladiatori ed avessero così o una possibilità di salvezza o una morte da valorosi; aveva preparato la scena teatrale in ogni dettaglio, chiamando attori comici per rallegrare con commedie spassose il pubblico nella fase iniziale, introducendo anche strumenti musicali giudaici e cantori leviti per intervallare lo spettacolo gladiatorio, per dare così serenità agli spettatori, dopo le scene di sangue.

L'anfiteatro fungeva anche da teatro. La città di Cesarea era piena come un uovo.

I suoi cittadini, giudei, greci, fenici e siriani, che vivevano singolarmente con loro leggi, nel rispetto delle etnie, avevano accolto festosamente delegazioni adiabene ed egizie, cilicie, pontiche e visitatori di ogni parte del Mare Nostrum, venuti per onorare il loro re, che, con questa festa voleva saggiare l'amore del suo popolo e il suo personale prestigio.

Agrippa aveva invitato a Cesarea, oltre a tanti altri notabili romani e al governatore di Siria, Vibio Marso, il suo amico e parente egizio Lisimaco Alessandro, l'alabarca, e suo figlio Tiberio Giulio Alessandro, che aveva abiurato al giudaismo, che già aveva fatto una rapida carriera, come legatus in Britannia.

Aveva invitato Izate, re dell'Adiabene, venuto a visitare sua madre, Elena, che ora viveva stabilmente a Gerusalemme, per Shavu'ot (la festa delle primizie) e lo aveva tenuto come ospite di riguardo per oltre un mese.

Egli sedeva sul trono, nel palco centrale dell'anfiteatro, ed aveva accanto sulla sua sinistra, Izate e dietro Izate, Shimon Cefa, un suo coetaneo, discepolo di Yehoshua ben Panter, mentre sulla destra c'era il governatore Romano Vibio Marso con Alessandro Lisimaco e, dietro, suo figlio, e disposti convenientemente al loro grado, gli altri re e dignitari.

Il palco regale era tutto addobbato, ma il re risplendeva in mezzo ad altri re, pur rivestiti di vesti sgargianti e ricche: egli amava essere sempre più libero ed indipendente. Dopo aver riunito a Tiberiade cinque re, tra cui alcuni della sfera partica, aveva deciso una sua politica autonoma da Roma, ma l'intervento del governatore di Siria lo aveva costretto a fare dimostrazioni di omaggio all'imperatore e a dare chiari segni della sua filoromanità, ora tenuta sotto osservazione da molte spie.

Agrippa, comunque, si sentiva un re dei re ed amava sentirlo dire: la folla aveva applaudito prima i re ospiti, scandendo il loro nome, a cominciare da Erode di Negroponte 4, Sigeramo di Emesa, Cotis di Armenia, Polemone del Ponto 5: un urlo era stato quello di Izate, ancora maggiore quello di Alessandro Alabarca, un tuono sembrò Agrippa Basileus.

Il re era vestito con la stola, ricoperta tutta all'intorno di argento, lavorato con ricami sacri, simbolici. Era giunto nell'anfiteatro coi suoi amici, al far del giorno e i raggi del sole, che si levava, battevano sulla stola e facevano brillare di luce tutta la figura del re, che era investito di un fulgore celestiale. Tutto l'aspetto del re era divino.

Gli spettatori, che avevano alle spalle il sole e di fronte il re, avevano la sensazione di vedere un altro sole che li abbagliava e li accecava: perfino i notabili, posti sotto il trono o sul davanti, voltandosi, vedevano solo luce. Allora i cortigiani greci e siriani cominciarono ad adulare il re, parlavano di metamorfosi, di trasfigurazione, di indiamento e si prostravano e gridavano.

Halleluiah!

Maran, ata ! signore, vieni!

Osannah al figlio di Dio!

Alcuni, aumentando il tono della loro cortigianìa pregavano: sii propizio, marin, finora ti abbiamo considerato eroe, ma da oggi comprendiamo che tu sei un Dio.

Il re era turbato, ma sorrideva compiaciuto: l'uomo vive di onori e crede dovuto ogni cosa e quanto più è in alto, tanto più ritiene giusto e convenevole ogni lode: si perde il senso della misura, quando la fortuna gira: ci si sente divini quando il vento è favorevole e spira alle spalle: siamo solo coscienti del nostro merito e gonfi della nostra superbia, ci sentiamo creatori, non creature.

Le grida di gioia del suo popolo, gli osanna degli spettatori, le adulazioni dei notabili stordivano Agrippa, che si lasciava cullare, ad occhi chiusi, dal dolce frastuono di urla, di suoni, di canti: questo aveva sentito fin da bambino, a questo egli doveva giungere, questo doveva sentire.

Egli era nato per questo: il suo compito era governare.

Un'ombra offuscò la sua felicità: Sila 6.

Sila sembrava che, sorridendo, lo correggeva:

per questo Dio ti ha fatto nascere, ma...

Ora ricordava Sila, il compagno fedele di tante sventure, della sua vita avventurosa.

Sila era stato per lui la sua coscienza; Sila spesso lo aveva riportato alla realtà e ridimensionava la sua avventura, limitava la sua grandezza, ma Sila lo aveva seguito, dovunque, ed era stato sempre accanto a lui, specie nella sfortuna, anche in prigione.

Per più di sei mesi fu in carcere per ordine di Tiberio, servito da Sila e da altri grazie alla mater Antonia e a Gaio Caligola, che, poi, divenuto imperatore lo aveva liberato e fatto re, ricompensandolo munificamente.

Sila era convinto che non potesse esserci solida amicizia senza eguaglianza.

In occasione della dedica al tempio della catena d'oro 7, regalatagli da Gaio Caligola, appena salito al trono, come premio della sua fedeltà, dopo i mesi di prigione, sofferti in silenzio, Sila era felice che il suo re fosse simbolo della mutevolezza della fortuna, ma marcava anche come fosse debole la natura umana e come la condizione di ogni uomo fosse sempre precaria.

Sila parlava spesso come Qohelet, di tempi, di vanità, di morte, marcando la natura di creatura umana.

Sila spesso gli ricordava che la sua vita era appesa ad un filo, perché malato di cuore.

Sila stesso, divenuto suo generale, era stato sempre a lui fedele, ma da lui fu imprigionato e lasciato morire in prigione a causa della parresia (libertà di parola).

Ebbe rimorso Agrippa.

E a Sila successe la figura del Battista: gli tornarono in mente improvvisamente le sue parole:

Fa, Agrippa, ciò per cui sei venuto sulla terra!

Certo egli doveva regnare e questo faceva: ma il Battista pensava forse a qualche altra cosa?

Egli allora meditava.

E poi, subito, gli apparve radioso, Jehoshua, il tecton:

Gli sembrava che fosse lì e che di nuovo gli dicesse:

Dio ha per te il Regno, Agrippa, quello di tuo nonno!

Ricordava l' impresa di Jehoshua, la sua vittoriosa entrata in Jerushalaim.

La sua mente ora si estraniava dalla folla e creava immagini doppie, triple, grovigli di figure, formava scene nuove, che si accavallavano misteriosamente ad altre e che si popolavano di personaggi: la sua mente era da tempo confusa e la sua testa pesante: era come un ermeneuta in lettura, come un terapeuta che interpretava la legge e passava da un piano ad un altro, da un significato ad un altro, da un senso letterale a un senso recondito, allegorico, subito mutato in un altro senso in un fermento sempre nuovo di invenzioni anagogiche e morali.

Era in uno stato febbrile, da sonnolento, in cui da semisveglio aveva coscienza dei fatti presenti come riverbero di un mondo passato, confuso da segni appariscenti, marcatamente rilevati: c'era confusione del dato reale con quello immaginario.

Ora le voci del settore orientale, dove mesopotamici e galilei, in subbuglio invocavano Yehoshua urlavano Yehoshua, scandivano Yehoshua, gli sembravano voci reali di sadducei che gli si avvicinavano irati e minacciosi, attaccavano con veemenza lui, e chiamavano traditore lui, che entrava in città.

E lui era saldo e sicuro, come ambasciatore di Jehoshua, il Meshiah: egli era sacro nella persona per i distintivi della sua carica, perché latore di un messaggio alla città santa, ai cittadini della città bassa, intenzionati ad arrendersi.

Vedeva se stesso come ambasciatore che proclamava, zittendo la folla, a voce alta : Yehoshua ordina: aprite le porte, accogliete il Mashiah come maran e avrete salva la vita: non vi sarà sangue, a Jerushalaim, né di giudei né di goyim: puri e liberi noi tutti insieme celebreremo la Pasqua.

Alle sue parole il popolo sommergeva i sadducei e lo stesso sommo pontefice, e i più si accalcavano alle mura, aprivano le porte e festosi accoglievano il Mashiah, preceduto dagli esseni, bianco vestiti.

Ora vedeva l'entrata davidica di Jehoshua su un un'asina mentre il popolo festante lo acclamava maran e tutti i cittadini della città bassa con rami di palma gridavano alleluiah e stendevano mantelli al suo passaggio e gettavano fiori.

Ora era, invece, apparentemente attirato dalla legazione adiabene, che entrava nell'anfiteatro e dagli abiti variopinti e gli sembrava di rivedere Jehoshua che, seduto sul trono davidico, solenne nella sua nuova regalità, riceveva Izate con gli ambasciatori partici e con Anileo che si prostravano secondo l'uso orientale.

Jehoshua, il re davidico, il suo re, suo predecessore, era stato il suo modello ed anche il suo antagonista: la predizione si era avverata e lui portava il peso della sua regalità: ma quanta differenza nella regalità!

Jehoshua, dall'angolazione ebraica, era il re legittimo davidico, lui il re illegittimo voluto dai romani, non acclamato dal popolo; Jehoshua era il santo unto dai sacerdoti, di autorità propria, l‘eletto di Dio; lui, pur unto dai sacerdoti, dopo l'elezione di Gaio e di Claudio, un epitropos di rango pretorio, per volontà romana, rimaneva sempre un servo dei romani, un loro amministratore, abile a mantenere nella fedeltà un popolo di nemici, un erodiano, garante di stabilità.

Ora nell'anfiteatro c'era un silenzio e lui comparava quel silenzio ad un altro silenzio rotto improvvisamente da Jehoshua, che, ritto, solenne, nel sinedrio, scioglieva il vecchio consiglio, dopo la pasqua sadducea, qualche giorno dopo l'entrata trionfale: voi sadducei e farisei non siete i rappresentanti del popolo riunito di Israel! No, non siete i suoi testimoni, ma siete uomini venduti al nemico, compromessi dal denaro della babilonia infernale. Sentiva ancora le sue parole: lasciate subito questo luogo!Fuori da questa aula santa !

Fuori! urlava il santo di Dio ai pontefici, sbigottiti, indecisi, mentre le guardie del Tempio li arrestavano.

E la sanhedrim restò vuota, mentre i traditori erano portati in prigione.

Lui vedeva il santo consesso vuoto, una muta stanza senza autorità, che subito si popolava di uomini nuovi, popolani, sacerdoti di medio ed infimo grado, rappresentanti vestiti in vario modo e parlanti con lingue diverse, formanti il corpo universale di Israel.

Sentiva ancora la voce del Mashiah: benedetti voi che venite nel nome di Shaddai, l'altissimo: il vostro consiglio sarà grande per Israel.

Benedetti voi che siete la luce di ogni tribù di Israel.

Benvenuti voi santi esseni.

Benvenuti voi, farisei buoni.

Adonai illumini la nuova Knesset: ora noi siamo un popolo, libero di servire il proprio signore: noi abbiamo un solo signore!

Noi siamo la luce del mondo e mettiamo in fuga ogni tenebra e fratelli abbracciamo i fratelli, compresi i samaritani: l'odio contro la città infernale ci ha riuniti; l'odio contro il male ci ha riunito per sempre ed ha formato il popolo santo di Dio, Israel, il vedente.

Ora Agrippa ricordava come la luce aveva sommerso la tenebra del male, come si era giunti alla libertà, alla purezza, a quell' atto: rivedeva la conquista della torre Antonia, la strage dei romani, l'imprigionamento dei sadducei e di molti erodiani e la purificazione del tempio e soprattutto il nuovo patto con Dio.

Ogni atto di Jehoshua era stato santo e lui lo approvava, ma il maran era troppo rigido, troppo intransigente, proprio uno che reagisce, non un moderato, non un classico, dotato di praotes, ma solo un barbaro, forsennato, un uomo pur santo, ma fuori dal kosmos.

Ora vedeva la distanza che c'era tra la sua anima romana ellenistica e quella aramaica, l'abisso tra i due mondi, visti come male e bene, tenebre e luce, morte e vita, con una valenza antitetica, in una contrapposizione, che neanche poteva implicare una sottensione complementare o una successione.

Il tempio era ora cura degli esseni, dei mille esseni che svolgevano il servizio, che era stato dei sadducei, rappresentati solo da Teofilo8, figlio di Anano, che curava le consegne e che era un fervente seguace di Jehoshua.

In Israel Jehoshua era stato segno di divisione: Anano aveva scacciato Teofilo dalla sua casa, padri avevano condannato i figli come degeneri, figli avevano rinnegato i padri, mariti le mogli, mogli i mariti: non c'era famiglia che non aveva avuto i suoi mali a causa del meshiah.

Gli altri servizi erano stati lasciati al clero medio e basso; immutato era rimasto il numero dei leviti divisi nelle loro classi e sottoclassi.

Il rito era rimasto lo stesso, anche se era mutato il calendario: la Pesach era caduta alla fine di Aprile, anche perché doveva finire l'espiazione del sangue versato, fraterno e straniero, nonostante l'amnistia e la clemenza di Jehoshua .

Quella pasqua essenica, ancora oggi, lui la manteneva al pari di quella sadducea e lui aveva conservato sia il sacerdozio sadduceo che quello essenico: aveva così pacificato il suo popolo, dopo la morte del santo maestro, lasciando solo quella novitas.

Ma quella Pasqua essenica, la prima della libertà, fu un evento veramente meraviglioso: chiudeva infatti armoniosamente tutte le azioni e tutti gli avvenimenti bellici, conchiudeva la rivoluzione.

La purificazione del tempio era avvenuta in modo sontuoso ed ancora in modo più magnifico era stato il nuovo patto con Dio.

Agrippa rivedeva chiaramente come il Signore era entrato nel tempio ed aveva scacciato i venditori

i profanatori del tempio, i cambiavalute e gli usurai, e risentiva la sua voce: La mia casa sarà casa di preghiera e voi ne avete fatto una spelonca di ladri.

La sua rabbia non si era placata neanche davanti ai sadducei del tempio, pur dopo l'amnistia e la pacificazione generale e la liberazione dei prigionieri, avvenuta l'anno successivo alla festa del capodanno.

Anzi li aveva apostrofati come pazzi e traditori ed aveva ripristinato la grande sala dei sacrifici al suo antico ufficio, aveva abolito l'uso del ricevimento reciproco sacerdotale, ed aveva fatto portare lì le offerte, l'incenso, gli utensili, le decime di frumento, di vino, di olio, dovute ai leviti, ai cantori, ai portieri ed ogni altra offerta o contributo per i sacerdoti.

Agrippa sentiva Jehoshua che malediva i sadducei (che avevano fatto uso privato della casa di Dio) e che aveva richiamato i leviti, i cantori e i portinai e tutti gli incaricati del culto, che erano fuggiti dal tempio e li aveva ristabiliti nelle loro funzioni, abolendo così ogni forma di commercio nel tempio e specie l' attività della trapeza.

Il maran aveva ricordato ai leviti il loro compito di servire Dio ed aveva fatto rileggere le prescrizioni di David e di Salomone, suo figlio.

Fu letto anche Deuteronomio 3,11 in cui si trovò scritto che L'ammonita e il moabita non dovevano mai entrare nella comunità di Dio, perché non avevano accolto Israel con pane ed acqua.
Per il maran ogni pagano era un ammonita ed un moabita e perciò fece giurare tutti i figli di Israel nel nome di JHWH che non darebbero le loro figlie ai figli degli stranieri e non prenderebbero le figlie di stranieri per i propri figli né per loro stessi e ricordava Salomone " Salomone non peccò appunto in questo?

Poi, improvvisamente nella mente ad Agrippa si era chiodato il proclama di Jehoshua, che gli martellava incessantemente, in modo ritmato.

Egli si ripeteva ansiosamente: Ricordate sempre, voi siete il sale della terra ... voi siete la luce del mondo e cercava di commentare la prima, paragonando il sale dei cibi con la funzione giudaica nel mondo e la seconda mettendo in risalto, da una parte, la luce della lucerna sul candelabro che illumina tutti gli abitanti della casa e, dall'altra, l'ebreo il vedente, colui che ha luce ed ha capacità di irradiarla in ogni angolo della terra.

Ora sapeva leggere ed interpretare chiaramente il proclama di Jehoshua, ora capiva il senso rivoluzionario e comprendeva la forza eversiva del giudaismo e, di conseguenza, capiva la forza repressiva dei romani.

Allora inizialmente vedeva solo, secondo la lettura allegorica, il senso sacrale e mistico, senza la connotazione anagogica alla riunione universale giudaica e all' ampliamento territoriale a macchia, a seconda dell'avvenuto proselitismo, ma non comprendeva il senso della storia.

Egli non capiva perché i gruppi di giudei oltranzisti in Siria, in Bitinia, in Egitto, in Cirenaica, in Spagna, perfino in Roma stessa, avevano acceso l'incendio, che si propagava all'infinito.

Non capiva come all' incendio iniziale potessero succedere mostruose stragi dei vicini: in ogni città l'integralismo giudaico produceva discordia e favoriva distruzione e lotte intestine: l'impero era dilaniato da una guerra civile per colpa del giudaismo.

Questo era chiaro a lui, cittadino romano!

Mentre tutti i giudei dell'ecumene vendevano le loro merci, riunivano i loro averi e li riducevano in oggetti preziosi trasportabili e festosi si imbarcavano per Jerushalaim per partecipare al Malkuth perché era giunto il giorno della loro liberazione, lui Agrippa allora, dilacerato da questo dilemma, aveva fatto il percorso al contrario: lui andava verso Roma, voleva ritornare a Roma, si volgeva verso la romanitas.

Si era imbarcato a Cesarea  era giunto aad Alessandria e da lì a Dicearchia (Pozzuoli) e da lì a Capri nella villa Zeus, in cui viveva Tiberio: aveva fatto il suo dovere di erodiano, di fedele alleato di Roma: aveva fatto fedele relazione di tutto ciò che era accaduto ed aveva chiesto perdono della sua partecipazione al Malkuth.

Egli aveva tradito l'ideale semitico del regno, quando vveva capito che ormai i romani avrebbero vinto ed annientato il malkut: egli era troppo classico per poter distruggere, bruciare in nome di Dio i segni di Roma imperiale e, tanto meno uccidere altri uomini, altri cives: egli poteva così solo testimoniare il suo ebraismo, secondo formule nuove ellenistiche, platoniche, secondo strutture di palingenesi amorosa, filantropica.

Egli si era  di nuovo congiunto con Roma,,con la nuova Babilonia.

Aveva tradito Jehoshua, partendo come suo delegato, con un suo mandato.

Di fronte al giudaismo trionfante e al suo moralismo integralista Roma non aveva più certezze logiche: il mythos trionfava sul logos; il sistema cosmico romano ellenistico era rotto ed ogni parte dell'impero era sconvolto, dilaniato e bruciato dalla luce di cellule, impazzite dal divino.

Il problema orientale doveva essere risolto, il proselitismo giudaico bloccato, la mesopotamizzazione religiosa magica respinta e ricacciata nei naturali confini partici: Tiberio aveva già deciso di ripristinare l'ordine in Oriente e lui, Agrippa, aveva creduto nella potenza di Roma nella stabilità del logos e del kosmos, nella forza delle legioni romane ed aveva rifiutato di essere sale e di essere luce.

Lui era un civis dell'impero romano, un nipote di Erode, non un barbaro, non un mistico ed irrazionalistico mesopotamico: Sale e luce erano due metafore reali del caos e del disordine, da congiungere con la cultura contadina aramaica, connessa con quella achemenide e con tutta il mondo iranico zaratustriano; lui, erodiano e scettico, non poteva fare nessun' altra scelta, ma solo quella scelta dolorosa.

Il volto di Tiberio, il leone(ari) gli compariva come una maschera tragica, gli appariva pura e spaventosa forza leonina, simbolo della stessa storia antica di Roma: l'imperatore incarnava l'autorità del diritto e della forza, che, congiunta con la pietas quiritaria si manifestava con le legioni di Lucio Vitellio9.

L'ex console, nominato procuratore (epitropos) di Siria, aveva svolto con successo la prima parte del mandato: invadere l'Armenia, scacciare gli sciti e spingerli contro il confine partico tanto da far invadere il regno di Artabano.

Egli aveva seguito da Roma le gesta del proconsole e ricordava le stragi dei parti, la morte di Arsace, principe ereditario, mandato ad arginare l'invasione, la richiesta di pace del gran re, la tregua a Zeugma e l'ordine ristabilito nella frontiera eufrasica.

Ora ricordava come Vitellio avesse svolto la seconda parte del mandato: annientare la rivoluzione giudaica, prendere il capo e crocifiggerlo, ripristinare la sottoprovincia di Joudaea sotto la prefettura di Pilato, (Epitropos tes ippikes... tacseos governatore di ordine equestre) che, comunque, manteneva l'auctoritas, seppure accusato majestatis, destinato ad un giudizio davanti all'imperatore.

Nella sua mente ottenebrata ora il fumo e la nebbia sembravano provenire da Jerushalaim: vedeva chiaramente l'assedio di Vitellio, che aveva circondato la città e stava preparando le macchine di distruzione e nella caligine distingueva l'arrivo di una legazione giudaica che implorava il perdono e conduceva legato Jehoshua, che veniva consegnato al vincitore.

Quante volte tra sé aveva rievocato la consegna del Meshiah a Vitellio! Quante volte se l'era fatta raccontare da testimoni

Ora tutte queste immagini lo facevano soffrire, lo intontivano e lo lasciavano inebetito: le voci dei presenti, comunque, neppure lo destavano dalla rievocazione; i volti degli amici per lui erano assenti, lontani, lontani.

Egli viveva in un altro momento storico, viveva un'altra storia: il suo cuore, malato, sussultava ed aveva aritmia ad ogni turbamento e il suo volto aveva il pallore della morte.

Izate, preoccupato, lo vide cadaverico e chiese: divina maestà, va tutto bene? la festa è magnifica; tutto procede bene! E lui sorrise, ma il suo sorriso era mesto.

Poi, ancora immerso nel suo sogno, ancora pervaso dai suoi ricordi, Agrippa chiese ad Izate, come se fosse ancora l'amico di un tempo, con un sospiro: amico, ricordi Jehoshua? Ricordi la sua morte?

L'adiabene non rispose subito, guardò Shimon e sorrise mestamente, non sapendo bene cosa dire, preoccupato della sua stessa risposta.

Agrippa, allora, si girò alla sua destra e disse all'alabarca: ricordi Jehoshua il tecton? Ricordi la sua morte? Ed Alessandro lo guardò meravigliato e pensava come mai dopo quasi un decennio, volesse ricordare il povero Jehoshua, un re davidico, morto anni prima e come potesse collegare la gioia di una celebrazione imperiale con uno, crocifisso, perché reo di un crimen contro l'impero e il genio dell'imperatore: l'egizio rimaneva stupito ed incerto circa la risposta.

Tiberio Alessandro, alle spalle del padre, subentrò, avendo capito subito lo stato d'animo del parente e disse freddamente: Certo, mio signore, ricordiamo Jehoshua, noi e molti altri giudei!.

Tiberio Alessandro rispose in fretta ben sapendo che Agrippa aveva perseguitato i seguaci di Jeshoshua , quei Nazirei 9, che furono costretti a rasarsi e a fare omaggio alla sua persona.

Ed Agrippa quasi in un istante rivide la sua vita, a cominciare dal suo periodo romano: a scene gli tornavano nella mente gli episodi, come scolpiti in un grande affresco e i momenti in cui aveva conosciuto Jehoshua; ricordava anche gli ultimi avvenimenti, i tanti seguaci del Malkuth incatenati e fatti combattere nell'anfiteatro10. Ancora di più sentiva rimorso, quasi una fitta al cuore.

Allora si rivolse verso Shimon e disse:

ora dobbiamo attendere che sgombrino la scena e che gli attori se ne vadano e si prepari l'arena; oggi l'anfiteatro fa anche da teatro.

Nell'attesa, amico, narraci gli episodi più importanti e gli ultimi momenti della vita di Yehoshua: Chi più di te lo può rievocare?

Riempiamo questa lunga pausa: diventa pesante il guardare sempre verso l'arena.

Il racconto di Shimon

Tutti gli sguardi erano puntati su Shimon: chi lo guardava con simpatia e chi con odio e rabbia.

Tutti, comunque, attendevano che Shimon parlasse: l'uomo sembrava sotto esame; nessuno avrebbe voluto vestire i suoi panni.

Il galileo cominciò a parlare, incerto: la sua origine popolare e la sua professione, nonostante gli onori ricevuti dal re, ostacolavano, quasi tappavano la bocca, che sembrava serrata; la presenza di uomini tanto potenti mette sempre in soggezione un inferiore, che non sa neppure come parlare, che non osa dire.

Inoltre parlare di Jehoshua dopo tanti anni in pubblico, poteva essere fatale: il suo inizio mostrava tutta la sua paura.

Prendeva i fatti più lontani, scegliendo i più noti, quelli del Malkut

Egli ricordò dapprima la resurrezione del gigante Lazar di Betania, in modo confuso ed incerto, e poi si soffermò a parlare della Pesach, essenica, che il maestro aveva voluto passare insieme a Gerusalemme: "a Jerushalaim, disse finalmente risoluto, in quattrocento eravamo arrivati da Caphernahum, preceduti da mille esseni: avevamo fatto il solito tragitto dei pellegrini lungo il Giordano ed avevamo cantato i salmi dell'ascensione ed eravamo arrivati a Betania.

Gerusalemme ci accolse come tutti sappiamo, come trionfatori.

Gli occhi di tutti i cittadini guardavano il marin, che era entrato in città su un'asina come un re davidico trionfatore, che aveva preso possesso del Tempio, cacciando i venditori e i cambiavalute, gli usurai, ricevuto dal capitano del tempio e dal tesoriere, uomini zelanti della torah.

Noi fummo felici per anni e Israel era grande nel mondo e tu signore lo sai meglio di noi .

Vai avanti, Shimon, fece Agrippa in modo autoritario e quasi sdegnato, racconta l'ultima Pasqua di Jehoshua, quando la città era già assediata e non c'era possibilità di salvezza .

Shimon ora sudava , sudava a freddo, ma doveva raccontare; il suo re lo ordinava.

In quelle ore di festa chi mai avrebbe pensato, che tutto sarebbe cambiato, che la gioia si sarebbe volta in dolore? Noi eravamo ancora certi di vittoria, mai abbiamo pensato ad una sconfitta: mai avremmo fatto la resa. Jehoshua aveva poteri divini e noi speravamo in lui .

Ancora i cittadini col lulav celebravano Jehoshua nabi e la sanhedrim stessa aveva deliberato i festeggiamenti per la Pesah, nonostante l'assedio.

Non si temevano tradimenti, tu stesso o re, eri tornato di nuovo tra i consiglieri , accolto con onore dal Nabi; c'era un regolare svolgimento della festa per il santo taumaturgo: pagani e giudei di Palestina e giudei ellenisti assistevano festanti ad ogni manifestazione indetta dal maestro.

Ma già i farisei oltranzisti e i sadducei della sanhedrim non si erano opposti? Essi detenevano la maggioranza ora che la situazione era cambiata, ora che si sentiva che i romani avevano ripreso il controllo della Siria disse Izate, fermando il discorso di Shimon.

E l'alabarca aggiunge: Erode e Pilato con gli Anano già non si erano incontrati per stabilire la consegna del rabbi e quindi la sua morte? Anche tu Signore lo sai: prima di partire per Roma con le credenziali del Meshiah, avevi partecipato alla riunione del sinedrio. In quella sede (non so , se fui ben informato) avesti il mandato di andare da Tiberio ed io ti finanziai per la partenza, quando arrivasti ad Alessandria.

"Io non so", disse Shimon, toccandosi nervosamente la barba," ma io vidi che c'erano tutti i capi di Jerushalaim e noi eravamo ancora, dopo anni celebrati come salvatori in città e passavamo sempre tra uomini che gridavano osannah ed halleluiah, mentre la folla aveva in mano lulav e gridava ad ogni uscita del Meshiah: marin! Marin!

Sorvoliamo.

Jehoshua fu sempre considerato soter ed euergetes in Jerushalaim.

E poi... sintetizzò il re.

E poi, riprese Shimon , il 14 Nisan. due giorni prima dello Shabat iniziammo la riunione, verso l'ora undecima e il maestro diede l'inizio del sèder 11.

Jaqob ben Tzebedeh e Matthaios il pubblicano avevano predisposto il "cenacolo" per la festa.

Questo era un grande deposito, accanto alla sinagoga dei Galilei, capace di tenere unita tutta l'edah originaria: il luogo era stato addobbato convenientemente; doveva accogliere lo stesso maran.

La tavola era imbandita: tutti i settanta capifamiglia erano in piedi al centro del salone a seconda della dignità e dietro ad ognuno il suo gruppo familiare seduto a terra in circolo.

Dall'una e dall'altra parte servivano i diakonoi, giovani della comunità addetti ai servizi, che già avevano preparato la festa con le donne, avevano tolto tutto il chametz (lievito), fatte le pulizie generali e disposti gli utensili migliori e i cibi particolari, non lievitati.

Jehoshua aveva intonato:

Hallelujah,

Lodate servi di YHWH

lodate il nome di YHWH

sia benedetto il nome di YHWH

ora e in eterno,

poi aveva cantato:

Quando Israele uscì dall'Egitto

la casa di Giacobbe da un popolo barbaro

Giuda divenne il suo santuario
Israele il suo dominio....

e noi tutti cantavamo i due salmi.

Jakob, suo fratello e Jahir, il capo-sinagoga di Caphernahum, benedicevano il cibo e noi prendemmo la coppa del Kiddush, la prima delle quattro coppe di vino, che rappresentano le fasi della redenzione.

Si mangiava, si cantava e si ricordava l'esilio dell'Egitto: a testimonianza c'erano le erbe amare maror, il pane dell'afflizione e l'ultima matztzah, la piccola porzione di pane azimo avvolta in un panno, conservata per la fine della cena, insieme alla frutta.

Jahir aveva rievocato la liberazione dall'Egitto ed era pronta la seconda coppa, quella dell'Haggadah e si cantava il grande Hallel.

Lodate YHWH perché è buono

perché eterno è il suo amore.

"Lodate il dio degli dei. Lodate il signore dei signori,"
diceva il sacerdote, e noi tutti ripetevamo ki le'òlam hasdò (eterno è il suo amore)

Il canto era bello e noi tutti cantavamo fiduciosi

Io avevo accanto Andreas, mio fratello, e Johanan ben Tzebedeh, che erano gonfi di felicità perché il Malkùt era in atto: noi ancora avevamo gli occhi pieni della scena di giubilo riservata al maestro all'ingresso a Sion, ancora ricordavamo le sue parole sdegnate contro i venditori del tempio e ancora di più avevamo scolpite nel cuore le parole dette agli esattori: Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio.

La frase aveva un valore convenzionale per noi, che conoscevamo il pensiero di Jehudah il Gaulanita e in un certo senso ne eravamo gli eredi.

Jahir aveva detto le parole rituali: Questo è il pane della miseria, mangiato dai nostri padri in Egitto.

Chi ha fame, mangi, chi ha bisogno, venga e faccia la Pesah: quest'anno da schiavi, l'anno venturo da uomini liberi.

Mentre noi tutti sentivamo che le parole rituali ora erano la verità, e ci eravamo alzati come pronti per una partenza, una voce eccitata di bambino disse precipitosamente, fondendo in una le due domande iniziali rituali:

‘Perché questa notte è diversa dalle altre?

Perché possiamo mangiare solo pane azimo?'

Il cohen rispondeva, secondo il rito, che si celebrava quella sera la fuga dall'Egitto.

Non aveva finito di rispondere che un altro bambino chiese:' Perché le altre sere mangiamo altre specie di verdure e questa notte solo erbe amare?'

Il sacerdote stava per rispondere alla domanda ma il bambino, frettoloso, fece ancora le altre due domande, confusamente:

‘Perché le altre sere mangiamo seduti o appoggiati e stasera invece solo appoggiati?'

Il sacerdote aveva appena fatto in tempo a rispondere secondo le parole dell'Esodo:

noi siamo stati schiavi del faraone d'Egitto e l'Eterno, nostro Padre, ci ha liberato da quella servitù con mano potente e braccio teso

Allora Jehoshua, essendo già pronta la terza coppa della Birkat ha mazon e stando noi per bere, si alzò su e ci gelò tutti: " Chi di voi mi consegnerà al nemico?' Noi tutti sbiancammo e rimanemmo muti: era una domanda che sottendeva una lunga riflessione e che in un certo senso suonava come una resa.

Noi tutti interpretammo come richiesta di uno disposto a venderlo ai romani, a condurlo nel campo dei romani per consegnarlo come prigioniero.

Tutta la sala era immobile: tante statue fisse nel gesto di mangiare e bere. Poi ci guardammo fra noi e facevamo a gara a dire:

‘io? io, non posso, maestro?'

‘Io, no, maestro?' Neppure tu, Jehudah di Keriot,? fece Jehoshua

io non posso, maestro?' disse confuso l' oikonomos.
Noi, stupidi, eravamo convinti in quel clima di festa che il maestro non poteva pensare ad una resa ad una consegna, ad un tradimento: la cosa non era vera e la nostra ebbrezza non poteva precipitare nella miseria.

Noi pensavamo che la nostra comunità sarebbe stata sempre unita: noi conoscevamo i nemici, ma in quel momento eravamo sicuri di esser potenti e ci sentivamo gli eredi del regno, i figli della luce: mai avremmo pensato ad una dissociazione, ad un tradimento in quell'euforia.

Neanche vedemmo la tristezza, che si era insinuata nel maestro NEL NOSTRO RE : eravamo tanto, troppo contenti anche per le coppe già bevute: il dolce Eshkol faceva già effetto in noi, non abituati a bere. La benedizione dell'ultima mitztzah, fatta dal maestro stesso e la bevuta non fu dunque festosa: era come se aleggiassero le parole del profeta Zekkarjah13.

"Non voglio più essere vostro pastore. Chi vuol morire, muoia e chi vuol perdersi si perda, quelle che rimangono, ciascuna divori la carne dell'altra"..

Tutto però cambiò: la gioia rifulse di nuovo dopo la pausa di tristezza: i canti dell'Alleluiah e la quarta coppa, quella dell'Allel finale ci riportarono alla festa, grazie anche ai bambini che intonarono canti pasquali.

Interruzione del racconto: morte di due zeloti

Shimon, aspetta un poco. Lo interruppe Agrippa

Tu credi che Jehudah o che qualcuno di voi tradì il maestro? Tu credi ad un vero tradimento di qualcuno?

Non è così? fece Shimon, sorpreso.

No. Non è così: Non è questa la verità! Shimon! Ripeté fermamente Agrippa.

Il cortigiano sembrava non credere e scuoteva la testa.

Non è così!

sappi, Shimon! che i fatti furono diversi e le cose andarono diversamente. Insisteva il re

No, Shimon, non fu così. ribadiva il re

Sappi, che non solo Jehudah lo consegnò ai romani, ma anche voi tutti e noi tutti, specie i farisei e i sadducei, che erano stati reintegrati da Jehoshua nel loro potere e nelle loro cariche, dopo l'amnistia e il perdono. Disse il re, convinto.

Io stesso, che facevo parte del Sinedrio, come tutti gli altri, sia quelli del partito di Anano14 che gli erodiani e i Kantara15 tutti ci separammo dal giusto, TUTTI PRENDEMMO LE DISTANZE DAL NOSTRO RE e lo lasciammo solo di fronte ai romani: noi tutti avevamo paura dei romani ed eravamo passati da antiromani a filoromani bruscamente: ognuno pensa per sé nel momento del pericolo.

Beh!, disse Agrippa, Per ora cessa di narrare e guardiamo gli spettacoli.

E poi, guardando l'uomo, sorrise argutamente e si complimentò:

Sei bravo a parlare, quando sai, Shimon!

Non avevo mai considerato questo tuo aspetto: ti sottovalutavo, Shimon! sembri perfino un altro, quando parli.

Agrippa, senza più badare al cortigiano che si era fatto pensieroso, si volse verso l'arena.

C'era uno scontro tra due zeloti, notissimi al pubblico, che rumoreggiava pericolosamente.

Erano avanzati insieme ed erano arrivati sotto il palco regale come per combattere con le spade sguainate, avevano salutato e si erano schierati frontalmente.

L'uno ancora giovane, l'altro anziano quasi cinquantenne: erano famosi ambedue: il giovane era della stirpe di Ezechia, l'altro era Barabba 16, un capo zelota idumeo della stirpe di Baba ,sacerdote di Goze (divinità di Idumea), ostile ad Erode il Grande.

Si fissarono e si lanciarono l'uno nelle braccia dell'altro, con le spade penzolanti, ai fianchi.

Si stringevano forte, poi si rivolsero verso il re, fecero la professione di fede, dicendo lo Shemà, insieme, lentamente.

Finita la preghiera, Barabba tagliò la gola a Itzahac e subito si immerse la spada dall'alto in basso all'altezza del cuore e cadde sopra il fratello.

 

 Gl spettaori fecero silenzio e poi tutti si alzarono ed intonarono: Shemà Israel, Adonai Elohenu, Adonai Echad.

Agrippa divenne bianco e così anche tutti gli altri, ospiti: essi stavano uccidendo dei fratelli, altri Jehoshua in nome dei Romani.

Jehoshua Barnasha era ora una bandiera, un fiume sonoro di sillabe, scandite, martellate che ingrossava, pronunciato da 25000 gole e quel nome amato suonava ora come segnale di ribellione.

Questo pensò Agrippa e lo lesse nel volto degli altri, in Shimon, in Izate, in Alessandro, che, turbato, si volse verso il figlio, impassibile nella sua maschera di soldato.

Agrippa si riprese e fece di nuovo interrompere la manifestazione, anche perché la folla tumultuava e i sebasteni e i romani, costituiti da truppe galliche ed italiche, guardavano fisso Tiberio Alessandro, che fece cenno di circondare l'anfiteatro.

Ci volle del tempo per ristabilire l'ordine, ma i soldati piazzati nei punti cardini fecero desistere ogni testa calda.

Nel frattempo l'arena era stata ripulita e al centro prendevano posto gli orchestrali di Israel.

Un suono melodioso cominciò a risuonare per l'aria e gli strumenti ebraici rasserenavano gli animi: i vari suoni del nebel (l'arpa), si fondevano insieme con quelli del kinnor (cetra verticale), del top (tamburello), dei minnim (vari strumenti a corda), ugah (flauto) Selslim (cembali) e creavano un' atmosfera nuova e sacrale. I cantori leviti cantarono:

Hallelujah!
Lodate Dio nel suo santuario,

lodatelo nel firmamento della sua fortezza

Lodatelo per i suoi prodigi

lodatelo per l'immensa sua grandezza

Agrippa così riaffermava la giustizia ebraica, la sua fedeltà al giudaismo, anche se amministrava secondo la giustizia romana.

02/02/2010





        
  



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