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Il pubblicano X puntata (III parte) de “L’eterno e il regno”

San Benedetto del Tronto | La X puntata del romanzo di Filipponi

di Angelo Filipponi

Il pubblicano
Matthaios era depresso quella mattina: la sua grande villa, la sua ricchezza, il saluto e il rispetto dei suoi uomini, l'amore della sua donna, il sorriso dei suoi figli, il panorama non bastavano a tirarlo su.

Eppure tutto ciò che era intorno era suo: un immenso giardino di agrumi si stendeva a perdita di occhio, limitato solo dal mare di Tarichea, dalla piana di Esdrelon e dai monti del Libano: certo lo aveva in comune con Callisto, coi romani, ma era anche suo.

Il suo sguardo si posava sul lago, dove barche di pescatori, suoi debitori, erano in mare per guadagnarsi la loro giornata; vedeva perfino la zona al di là del lago, dove egli aveva affari sempre coi romani, ma sempre vantaggiosi perché un romano quando fa un trattato equo lo fa vantaggioso: due parti per lui, un terzo all'altro; e se lo fa iniquo si pappa tutte le parti: lui aveva capito presto dove si guadagnava e subito si era messo dalla parte dei vincitori, non voleva più vivere di elemosine, come i suoi fratelli, specie i cantori, che campavano miseramente: se non ci fosse lui, i suoi fratelli sarebbero morti da tempo, di fame.

E coi romani egli aveva fatto la sua fortuna, ma era sempre un giudeo che amava i suoi fratelli, che pur l'odiavano, ma lui non vedeva, non sentiva ed andava avanti per la sua strada: Adonai lo avrebbe capito, certamente: lui nel suo animo era buono, di nascosto faceva le sue buone azioni: certo tutti vedevano quando lui faceva il pubblicano.

Lui era un altro quando faceva il suo dovere, quando vestiva l'abito da pubblicano: egli era più esoso di un liberto romano, più avido di un greco, più ladro di un egizio: non si poteva fare affari con la pietà o la commiserazione.

Bisognava comportarsi come insegnavano a Roma: egli aveva interiorizzato i detti latini il limone deve essere spremuto o del porco tutto è buono: la provincia per i romani era un limone o un porco e ai provinciali bisognava lasciare solo gli occhi per piangere.

Lui conosceva ciò che rispondeva Tiberio quando lo esortavano a cambiare governatore e gli amministratori provinciali.

Raccontava l'apologo del ferito, che non scacciava le mosche perché era consapevole che quelle, una volta saziate, non erano fastidiose perché sazie, e, se invece le avesse cacciate, ne sarebbero arrivate delle nuove che, affamate, avrebbero succhiato con forza e recato maggiore danno.

Così l'imperatore difendeva i provinciali, conservando e non rinnovando il potere.

Era un saggio il vecchio Tiberio: egli era un buon pastore che invitava i governatori e i pubblicani ad essere buoni pastori che tosavano le loro pecore, non le scorticavano.

Matthaios sapeva di andare oltre il suo mandato, ma conosceva i romani: una cosa dicevano boni pastoris esse tondere pecus, non deglubere (è proprio di un buon pastore tosare le pecore non scorticarle), un'altra facevano: deglubebant atque necabant (scorticavano ed ammazzavano).

Lui, Matthaios, aveva capito il mondo romano perciò scorticava sempre, a volte spellava.

L'avidità dei romani era entrata in lui, come anche il disprezzo dell'esattore per chi pagava: egli vi aveva aggiunto la fierezza del giudeo e la rabbia del Levita 27 represso, condannato a vivere di stenti e a stendere la mano, a chiedere l'elemosina, ad attendere l'aiuto del generoso.

Egli aveva appreso dai sofferim, i giudici.

Questi giudicavano secondo legge non secondo pietà o commiserazione: Mosè aveva detto che la legge non distingue il povero dal ricco, ma giudica il reo.

Lui, Matthaios, non guardava chi doveva spennare, neanche lo sentiva, tanto meno gli arrivavano le lamentele e le imprecazioni: lui era severo pubblicano, che applicava la legge nella riscossione, non transigeva con nessuno: tutti ormai lo sapevano e subito gelavano al suo apparire.

Gli ebionim, i piccoli artigiani e contadini non imploravano più: ormai sapevano che le loro grida, i loro lamenti, le loro imprecazioni eccitavano, quasi esaltavano il pubblicano nella sua funzione.

Lui sapeva di essere un perfezionista nel suo lavoro: lui sapeva valutare e decidere perché sapeva analizzare.

L'analisi la sapeva fare perché sapeva stenografare: aveva appreso da ragazzo vedendo proprio un pubblicano all'opera, e poi era stato educato secondo il sistema romano, quello tironiano, di Tirone, liberto di Cicerone.

Dopo aver schedato ogni cosa ed aver scritto con minuscoli segni tutto ciò che doveva essere pignorato, dopo aver rilevato a colpo d'occhio ciò che poteva essere confiscato, faceva seguire la sua valutazione, che veniva espressa con un giudizio formale, che diventava esecutivo per i sebasteni.

I sebasteni, soldati ausiliari di origine samaritana, erano fedeli esecutori: arrestavano, legavano, picchiavano come mano punitiva e coercitiva: essi applicavano la legge, interpretata dal pubblicano.

Matthaios sapeva che un pubblicano capo per essere arrivato ad avere il favore incondizionato dei Romani e ad essere loro concittadino, paritario, aveva dovuto soffrire umiliazioni infinite dai padroni, che reclutavamo turmae di servi e li educavano alla riscossione, mediante apographe, insegnando prima di tutto lealtà verso Roma e l'imperium, punendo ogni errore, rilevato dagli altri conservi, aspiranti pubblicani.

Erano richiesti requisiti fisici, morali abilità scrittorie e conoscenze di lingue: indispensabili il latino, il greco e l'idioma della nazione in cui si operava: in questo modo Roma si garantiva un sistema di riscossione capillare in tutto l'impero e stabiliva un vertice provinciale, che aveva tre poli

di riferimento: Roma per l'occidente, Alessandria per l'Africa e Antiochia per l'oriente.

Lui mirava ad essere il referente orientale ma ora gli bastava di essere il numero uno di tutta l'area palestinese comprendente l'ex regno di Erode il grande e quindi gestore sia delle regioni sotto Pilato che quelle sotto Erode Antipa e quelle sotto Filippo.

Callisto era il suo capo di Antiochia ed era in contrasto con Alessandro alabarca, alessandrino, capo dei pubblicani di Africa.

Certo per fare tanta strada aveva dovuto mostrare lealtà verso Roma, integrità morale nella riscossione e grande dedizione e severità nel lavoro: il mondo romano non premiava nessuno se non aveva veramente doti.

Lui si sentiva un funzionario di grande rilievo e cosciente di questo era severissimo: non guardava in faccia, nemmeno sua madre, giuravano i suoi nemici.

Perfino Erode Antipa, il suo tetrarca e signore, aveva timore di lui, perché imponeva la tassazione inflessibilmente anche sulle sue merci e sui suoi prodotti: con lui non valeva la corruzione perché era fedelissimo ai romani, a Callisto, ai senatori filoclaudi, a tutto il partito claudio e perché era ricchissimo e per di più diffidava di lui, che ora passava da una parte all'altra e che perfino pencolava tra Romani e Parti.

Lui ricordava i tradimenti del tetrarca: sotto il governatorato di Grato in Giudea, Erode era stato sempre filoarabo ed incerto tra i Parti ed i romani, poi decisamente filoromano nei primi tempi della procura di Pilato, in seguito urtatosi col procuratore, di nuovo aveva infidamente simpatizzato con elementi filoparti.

Lui ricordava che anche come filoromano non era dalla sua parte: era passato da una politica filoseianea ad una filoclaudia, mentre cominciava a splendere l'astro nascente di Caio Caligola capo del partito giulio, ma temeva la punizione di Tiberio, che lo poteva accusare di combutta con il suo potente ministro, uccisore di suo figlio Druso, sulla base di una denuncia di suo nipote Agrippa.

Ora, in quell'autunno, Erode aveva bisogno di collegarsi con il partito claudio, il partito dell'imperatore, per proteggersi da Antonia e Pallante e perciò era deferente nei suoi confronti e insicuro.

Lui, Matthaios era in una botte di ferro: chi, pazzo, si sarebbe messo mai contro l'imperatore?

Erode perciò veniva a patti, anzi spesso cedeva a lui il suo diritto di monopolio sul balsamo, rinunziando ad un maggiore profitto, sapendo di avere un guadagno pulito e sicuro, senza stare a pagare dioichetai, liberti e servi, che poi per vie traverse dilapidavano tanta parte del denaro: sicuramente il tetrarca pensava che era meglio servirsi di quel cane di Levita, di quel porco di figlio di Eleazar, di quell'immondo apostata e tenersi buoni i romani che rischiare di trovarsi isolato contro il partito giulio e le masse popolari galilaiche e peraiche, a lui ostili.

A volte Erode vendeva per lui anche il suo grano della piana di Esdrelon, quella porzione confinante con il territorio samaritano, che era dei romani, a volte anche tutte le sostanze aromatiche di Perea venivano a lui cedute: insomma il tetrarca lo disprezzava a parole, ma aveva bisogno di lui, e in certo senso, si fidava perché era il male minore.

Certo nel rapporto con i grandi egli aveva mostrata la sua qualità maggiore, la calma.

Lui era sempre calmo e sorridente come i poveri leviti, da cui aveva il seme stesso della pazienza e con essa la calma, che favorisce un'azione prudente, che impedisce l'atto irreparabile e che permette di dire la parola giusta, calcolata, opportuna e che autorizza la frase che non offende, che non taglia i ponti con nessuno: se c'era un contestazione popolare, neanche si mostrava ed inviava il suo vice; se l'offendevano in molti, sorrideva e scriveva, se lo molestavano in pochi o individualmente li guardava fissi, ma non ordinava di punirli ai sebasteni: aveva una faccia bella Mattaios e lui la sfruttava, mostrando sempre la serenità, non l'alterava mai, né la deturpava con l'agitazione: una faccia di successo, davvero.

Lui sapeva controllare invero ogni sentimento, nascondere ogni turbamento e sapeva perfino moderare il movimento degli occhi e delle mani e la stessa torsione del collo: di fronte al pericolo era fisso, come una statua, non rigido per paura, ma concentrato e teso per la valutazione e la decisione.

Gli occhi davanti ai romani erano bassi, ma non soggetti, pronti a guizzare, come intenti alla riflessione; davanti ai sacerdoti, strafottenti,davanti ai farisei seri e lucidi, davanti ad un  am ha aretz superbi: con tutti aveva un suo modo di guardare che esplorava prima di agire.

Quella mattina respirava a pieni polmoni l'aria di Galilea, ma non era contento.

Era triste e pensieroso.

Si era alzato, preso tutto da un sogno, che da giorni lo perseguitava e che si fondeva con il suo passato, con la sua scomunica, s'intrecciava con la sua storia di levita, con i ricordi di quando giovane serviva al tempio con suo padre, fiero di essere della stirpe di Pinhas.

Il sogno era strano, ma si cuciva con la scomunica che ora rievocava e sentiva in tutta la sua tragica forza.

Egli risentiva gli squilli di tromba con cui era stato annunziata la grande scomunica e soffriva.

Le parole ancora lo bollavano a sangue come un marchio:

Maledetto, sfracellato, esiliato sia Levi ben Eleazar, già levita.

Nessuno si intrattenga con lui.

Nessuno lo salvi dal fuoco, dalle rovine, dall'acqua, da qualsiasi evento possa essere annientato, Ciascuno respinga il suo aiuto.

Il suo pensiero e i suoi scritti siano considerati opera di un falso profeta, i suoi figli siano tenuti come bastardi.

Ognuno pensi a lui quando dice lo Shemon Eshré e precisamente la dodicesima tra le diciotto preghiere, quella della maledizione.

Chiunque lo incontri per via, si arresti a sette passi, come davanti ad un lebbroso.

Egli sapeva che dovunque egli passasse per la riscossione del denaro come pubblicano, dovunque perfino cavalcasse il suo cavallo, i paesani cominciavano a seminare in modo che non ci fosse segni visibili del suo passaggio e in alcune città veniva impedito l'accesso per le vie dove era passato lui, il traditore.

Egli conosceva i suoi compaesani e sapeva che essi non l'odiavano, ma lo disprezzavano, più che odiarlo, lo temevano perché lo consideravano un demone, un uomo divorato da Belzebul, un'anima ormai appartenente a Mammona: per loro lui era un morto che vive.

Erano già fiorite leggende su di lui, come su ogni apostata: dal momento della condanna Dio faceva morire il sacrilego, che apparentemente viveva, ma era creatura demoniaca, una finzione diabolica fasciata di male, che alla morte si polverizzava come se fosse già cadavere: i vecchi raccontavano di avere visto la morte dei peccatori, dei morti viventi, che si disfacevano, una volta cessata la funzione diabolica.

Ecco il suo sogno era qualcosa di questo genere: egli vedeva il suo corpo disfarsi, perdere parti come un lebbroso, scomporsi, smembrarsi e tornare polvere perché lui non viveva ma era morto già da tempo, ma una mano, imperiosa, frenava quello sfaldamento e faceva rimanere unito quel che restava di un corpo mutilo e già polverizzato, che aveva ormai solo una gamba, un braccio, una parte del petto, tutto il collo e la faccia scomposta terrorizzata.

Sentiva una voce che impediva la fine, vedeva un volto radioso che fissava lui tremante e vedeva ergersi un davidico bello, che lo salvava, lo ricomponeva lo ricostruiva, facendogli rispuntare la gamba, il braccio, il petto, facendolo rifiorire, restituendolo ai suoi, che stavano inorriditi disprezzati da tutti, nello sfondo nero.

Constatava che, così mondato e purificato, tornava ad essere uomo, un vivente.

Un sogno cosi lo aveva spaventato e frastornato: "i sogni sono inviati da Dio e hanno in sè la verità, ma quale verità?" Andava meditando.

Ora se ne stava nella sua villa: aspettava una legazione di amici pubblicani.

Questi vennero con un fare cerimonioso e in modo molto mellifluo si congratulavano con lui dell'affare di Tarichea, specie il piccolo Zaccai, che era il capo della diecina di pubblicani subalterni, venuti dalle varie zone, di loro spettanza.

Essi, dopo i convenevoli, chiedevano lumi per la nuova operazione e per la riscossione ad inizio di mese.

Matthaios invitava i presenti a prendere appunti perché la sua operazione doveva essere perfetta: era famoso per la diligenza nello stenografare e anche se ora era ricco e potente, stenografava per suo conto e contemporaneamente dava istruzioni in modo da comprendere i tempi di scrittura di ognuno ed adeguarsi: era un ingegno duttile in grado e di ordinare e di obbedire, un vero giudeo in questo, capace in ogni situazione di svolgere qualsiasi compito.

Mentre dentro di sé Matthaios sentiva questa profonda coscienza della sua bravura, una voce interiore lo definiva rinnegato e gli si presentavano innumerevoli volti di amici che si fermavano a sette passi e che lo maledicevano.

Era perciò in forte contraddizione quella mattina in se stesso e ciò lo agitava tanto da essere diverso: egli come levita era vissuto con i suoi fratelli, con loro si era formato, poi era andato Roma e lì aveva conosciuto come era improponibile la loro rivolta all'imperium, ridicolo il loro malkut ha shemaim, vittorioso e salvifico il suo impegno accanto ad uomini di Callisto, con cui si faceva la storia economica di Roma secondo l'ottica del pubblicano.

Eppure ora quei pubblicani attendevano fedeli i suoi ordini e non aspettavano certo che lui risolvesse la sua crisi interiore: erano uomini d'affari che agivano e che se si accorgevano minimamente del suo stato, subito, scaltramente, lo avrebbero scavalcato perché in breve avrebbero trovato il punto debole e avrebbero innescato un processo di distruzione accelerando i colpi, colpendo sempre allo stesso punto ed avrebbero abbattuto il suo castello fortificato, invaso la sua anima, disperso ogni suo bene.

La sua diligenza e sapienza nella predisposizione, la sua fedeltà rigida nella applicazione, la scrupolosa attenzione ai particolari, la perfezione nel rendere i pensieri altrui e nel tramutarli in azione, note dovunque, conosciute anche a corte, dovevano essere mostrati ora: lui doveva essere quello che gli altri conoscevano, la sua debolezza era stata un attimo, nata da un brutto sogno irripetibile, come il suo turbamento.

Lui ora doveva essere quello stesso di cui Capitone aveva detto: di tutti si può fare a meno in Palestina, meno che di Matthaios ben Eleazar.

Lui era l'uomo che Antonia avrebbe pagato a peso d'oro anche se spesso aveva ostacolato la sua compagnia e lo avrebbe affiancato a Pallante volentieri.

Certo lui e Pallante si completavano a vicenda: lui aveva cultura e grande intuizione, l'altro spregiudicatezza e infinita lungimiranza: loro due per Antonia sarebbero stati la fonte di guadagno per il fisco imperiale.

Liquidati rapidamente i colleghi con precisi ordini e licenziati, ora Matthaios doveva sbrigare una questione che era diventata una vertenza con la comunità dei pescatori di Caphernaum: conosceva Shimon, come un rozzo e zelante esecutore di ordini, senza una propria logica procedurale, sapeva della sua irascibilità e violenza, conosceva la storia di Johna, ma tutto questo per lui era di nessun conto; a lui dava fastidio il disprezzo, quel porsi lontano e non voleva trattare, quel frapporre intermediari giudaici, fratelli di secondaria importanza, perché il mebaqer, quale rappresentante della comunità, parlava solo coi fratelli e poteva fare affari solo con correligionali.

Quel Shimon mebaqer gli era antipatico per quella sua coscienza di santità e di integrità, per il suo giudizio dipinto sul volto: la sua figura maschia l'associava al volto scuro dei farisei, che neanche si accostavano ad un pubblicano e che mostravano ribrezzo nei suoi confronti.

Comunque era un affare da sbrigare e perciò ricevette i tre membri della comunità.

Shimon con due confratelli, diaconoi, era venuto e lui ora l'aveva davanti, a debita distanza: Shimon aveva fatto un passo, ma era rimasto lontano, quasi sulla porta, timoroso di essere contaminato e gli altri due figli della luce, spocchiosi e morti di fame, erano rimasti sulla soglia.

Barnaba, un levita come lui, che stava alla destra, parlava, dopo che il mebaqer aveva salutato senza la benedizione giudaica.

Barnaba aveva rifatto il punto della situazione e Matthaios freddamente disse: voi avete bisogno di me, mi dovete 10 000 denari - 40.000 sesterzi precisò - come risultanza di debiti contratti per la costruzione del grande magazzino e dei mancati pagamenti delle tasse; ora volete inviare il vostro pesce affumicato in barili a Cesarea e pregate che io lo venda per voi a commercianti di Rodi, in quanto avete eccedenza di pescato e così credete di pagare il debito e di guadagnare qualcosa che possa servirvi per l'inverno e chiedete che le spese di spedizioni siano mie, che spedisco tante tonnellate di agrumi.

Aveva detto lealmente il suo pensiero e rideva: aveva gli occhi luminosi e il volto radioso come sempre, ma questa volta il suo sorriso era più aperto come di chi trionfa, di uno che voleva assaporare tutta la sua vittoria di fronte ad un Levita e ai suoi concittadini, che tanto lo disprezzavano.

Attendeva la risposta.

Il mebaqer era muto di un mutismo nervoso proprio di un uomo forte, costretto ad ingoiare; gli altri due, pur silenziosi, sembravano implorare in nome della comune stirpe levitica, ma con dignità a basso volto, neanche replicavano: conoscevano Matthaios.

Ruppe il silenzio ancora Matthaios, che sembrava volersi giustificare: io potrei anche farlo, ma non Callisto, che vi darebbe una miseria.

E poi li stuzzicava: Ma il vostro normale acquirente non è Pallante? Perché non ricorrete a lui, è un amico dei galilei.

Certo, rispose, rabbioso Shimon, che non sapeva trattenersi- voi pagate di più rispetto a Pallante e noi, noi abbiamo bisogno, altrimenti il nostro inverno sarà per noi la morte: noi, ora, manchiamo di tutto: non abbiamo denaro per comprare il necessario per sopravvivere.

Shimon meditava le parole per la prima volta, dietro la sua calma ci erano tante bocche di bambini e di donne affamate: Dio ci ha dato il pesce, ma noi non campiamo di solo pesce; ci resta solo la preghiera.

E dignitosamente taceva.

Matthaios ora si sentì vincitore: il mebaqer non aveva implorato aiuto, ma l'aveva chiesto indirettamente; il suo disprezzo si era stemperato e aveva lasciato aperto la speranza alla solidarietà, che un giudeo, anche se scomunicato, non può rifiutare.

Lui sapeva che la cooperativa finiva se non c'era il suo aiuto e che l'istinto di salvarsi avrebbe spinto le famiglie a trovare il fabbisogno singolarmente e che così veniva distrutto tutto il lavoro di generazioni di galilei che avevano lottato per formare l'edah e così era vanificato il sacrificio di uomini come Johna: la cooperativa era stato il frutto di tante morti, di tanta violenza fatta e sopportata perché la miseria arma le mani del povero e perché il ricco si difende violentemente: non si distingue il violento nel combattimento.

Quella mattina per la seconda volta era debole Matthaios, ma non poteva mostrarsi tale ed allora li licenziò bruscamente e con voce irosa: vi darò, domani, una risposta, in casa di Jahir.

Lui reagiva così.

Inoltre si sentiva diverso dagli altri leviti, formanti il gruppo, sapeva di essere il vincitore e non voleva mostrarsi debole perché il branco addenta la preda, specie se famelico e vinto: la tracotanza mascherava la sua debolezza.

Shimon e Barnaba godevano di quella stizza e leggevano esattamente nelle parole stizzose una speranza e ringraziavano Dio, che forse aveva toccato l'infedele e che forse avrebbe salvato le loro famiglie e dicevano: un giudeo, scomunicato, è sempre migliore di un goy!


Guarigione della suocera di Shimon
Raqel era malata da una settimana: Shimon, impegnato nei suoi compiti di mebaqer neanche se ne era accorto perché lei era sempre in piedi e faceva qualcosa, come il solito.

Ora, però, la trovava ancora nel giaciglio, delirante per la febbre, raggomitolata sotto un mucchio di cenci: solo gli occhi grandi testimoniavano l'ansia, la paura e l'incertezza del domani ed erano ancor più colmi di amore per tutti.

D'un tratto la vecchia si alzò, ma si sentì debole ed allora chiamò, spaurita, la figlia e comandò con un filo di voce: Susan, fa bollire acqua e mentuccia e poi dammene una ciotola: prenderò il resto in due o tre pozioni, durante la giornata: forse starò meglio, se Adonai lo vuole.

Ma la donna non migliorava, anzi, ora dopo ora sembrava peggiorare.

Shimon allora decise di andare, come era solito fare, da Jahir per chiedere un consiglio: il capo-sinagoga aveva buone conoscenze di medicina, aveva pratica di erbe, sapeva curare come un medico. Jahir non si faceva pregare e veniva subito a casa dell'amico: consigliava solo riposo.

Ma la febbre non passava e la malattia debilitava sempre di più l'inferma.

La casa era piccola, ma l'aria di Cheshvan passava da ogni parte e sembrava convogliarsi sulla malata, che aveva continui tremori: la finestra, pur chiusa, pur minuscola, faceva passare folate di aria autunnale e dalla porta semi-sgangherata penetrava insieme all'aria, luce che illuminava quel quadrato di 40 cubiti, quel bancone centrale e quelle quattro pentole appese sulla parete.

La famiglia riunita aveva ora un suo centro, il povero corpo di Raqel: tutti erano rivolti verso di Lei, anche Natan se ne stava silenzioso, con due occhioni neri, a guardare la nonna, senza fare nessuna smorfia: specie ora che la nonna stava bevendo la tisana, tutti erano fissi su di lei, che, stancamente si girava su un fianco. Shimon si augurava che quell'intruglio verdastro ridesse sanità alla donna ed aspettava come gli altri.

La luce era improvvisamente interrotta da una sagoma grande di uomo.

Shalom, sentiva dire Shimon, che si girava e vedeva un uomo di luce, che avanzava verso il gruppo, un uomo più alto di lui, più grande.

L'uomo avanzava deciso verso Raqel, i parenti si allargavano: Raqel vedeva su di sé chino un uomo di luce, un volto di uomo bellissimo, capelli biondi e due occhi azzurri: la donna credeva di essere morta, certa di essere di fronte ad uno dei serafim, chiudeva gli occhi serenamente, abbagliata.

L'angelo la toccava: sentiva la mano che le sfiorava delicatamente la fronte e la voce che comandava Alzati Raqel e servici.

La donna, si alzava automaticamente come animata da un nuovo spirito e come se iniziasse la sua giornata, cominciava a dare ordini alla figlia, a preparare acqua e a cuocere rape.

Andreas non aveva staccato mai gli occhi dallo sconosciuto, aveva esaminato i suoi gesti, aveva sentito la sua voce ed ora esclamava: "Shimon, è Jehoshua, è Jehoshua il nazireo, il discepolo del Battista! E' il nuovo nabi di Israel; Shimon! Nella nostra casa è entrato un rab, benedetto da Dio".

Solo ora Shimon guardava il nuovo venuto, solo ora lo esaminava attentamente; la luce ancora lo abbagliava perché l'uomo era ancora chino nell'angolo luminoso della casa, ma Shimon distingueva chiaramente la sua figura imponente.

Di slancio gli si avvicinava, gli prendeva la mano, la baciava e ringraziava, adir, io sono tuo servo, la mia vita è la tua.

La guarigione improvvisa della suocera di Shimon fece in breve il giro di Caphernahum: tutti dovevano dire la propria, tutti chiacchieravano e qualcuno parlava anche di miracolo.

Le chiacchiere continuavano perché Jehoshua prendeva alloggio da Shimon.

Ma chi è Jehoshua? Si bisbigliava: E' un mastro carpentiere, ma è anche un rabbi, come suo padre. Si rispondeva.

Ha altri fratelli? Chiedeva uno. Ha sorelle? S'informava un altro. E la madre? Chiedeva un altro. E il padre Josip è morto? Sussurrava un altro.

Jakob, figlio di Tzebedeh informava i curiosi che suo padre aveva assunto Jehoshua per la costruzione del deposito lungo il porticciolo; diceva che era un professionista serio che aveva costruito alcuni rioni di Tiberiade e che Agrippa ben Aristobulo, nipote di Erode il Grande lo stimava molto, non solo per le sua abilità tecniche ma anche per la sua giustizia; aggiungeva per saziare i curiosi che aveva quattro fratelli e due sorelle: Jehudah che era zelota, Jakob esseno, Shimon e Josipo il più giovane vivevano con la madre Miryam a Nazareth nella casa paterna, coltivavano la terra, mentre le sorelle erano sposate.

Un vecchio diceva di aver conosciuto il padre di Jehoshua: era un uomo zelante ed aveva una struttura non molto dissimile dal figlio: raccontava che aveva lavorato con lui a Sefhoris, che parlava sempre del figlio maggiore, e gli aveva confidato le parole sante che Shimon il vecchio profeta nel tempio disse, e il suo ringraziamento ad Adonai per avergli fatto vedere il suo unto.

Il figlio di Tzebedeh aggiungeva che il mastro era venuto con i suoi oikodomoi, la sera prima, e che aveva dormito con i suoi, sotto la tettoia della sinagoga, stanco per il viaggio.

I chiacchieroni aggiungevano che Jehoshua da tempo aveva desiderio di trasferirsi a Caphernahum, e che ora aveva avuto l'opportunità, essendo stato assunto come costruttore dalla cooperativa: molti insistevano che il maestro aveva scelto il paese perché era un punto nodale, di confluenza delle merci e di passaggio e, per di più, tranquillo, nonostante la presenza della guarnigione romana.

Comunque, tutti, giudei e pagani erano contenti che un rabi fosse venuto ad abitare a Caphernahum; i pescatori erano contenti anche per il capannone oltre che per la fama di guaritore del mastro.

 

Morte e resurrezione della figlia di Jahir
Andreas e Shimon ora erano diventati gli accompagnatori fissi del Maestro e con lui erano andati, quel sabato, alla sinagoga.

Jahir lesse la parashah del giorno, che parlava del regno di Dio sulla terra, promesso a Israel e poi tutti cantavano i salmi dell'Hallelujah, preceduti da quelli dell'hesed e dell'emet.

Lodate YHWH, nazioni tutte,

celebratelo, genti tutte.

Infatti forte è il suo amore
la fedeltà di YHWH dura in eterno.

Hallelujah

Lodate YHWH perché è buono

perché è eterna la sua fedeltà....

Erano inni di ringraziamento in cui si lodava la regalità suprema in una celebrazione del malkut, in un'esaltazione degli attributi di Dio, creatore del cielo e della terra, fedele alleato, dispensiere di giustizia agli oppressi, datore di pane agli affamati, liberatore dei prigionieri, datore di vista ai ciechi, sostegno dei caduti, amante dei giusti, custode dello straniero, sostentatore dell'orfano e della vedova, annientatore degli empi, re eterno.

E felici, tutti riuniti, seguitavano il commento, seduti lungo la spiaggia, circondati dal gruppo di pescatori, tra cui spiccava Tzebedeh coi suoi figli.

Si parlava della nuova assemblea dei giusti futura, della venuta del Bar nasha (figlio dell'uomo), della prossima liberazione dai romani: erano i soliti discorsi di un galileo, congiunti ora con lamenti circa il loro debito con Matthaios e le segrete speranze di un suo aiuto.

Mentre erano così intenti a parlare, un grido lacerava l'aria, un grido proveniente dalla casa di Jahir: erano urla femminili che aumentavano, si fondevano in un coro nenioso straziante: anzi ora gli uomini sentivano distintamente l'inizio di un compianto funebre e rabbrividivano.

Jahir, teso, si agitava, si alzava di scatto: intuiva la verità, capiva l'accaduto: lentamente faceva quel quarto di stadio: come avrebbe voluto correre! D'istinto sarebbe volato in casa: ma era un mebaqer, un fariseo e la legge doveva essere rispettata: lentamente, pallido come un morto, entrava nella sua casa: le donne scarmigliate, piangevano; i parenti gli andavano incontro, gli dicevano ciò che già sapeva: "tua figlia è morta!"

Egli avanzava, scostando chi gli si frapponeva, ed entrava nella camera della bambina e la vedeva tra le braccia della madre, inerte, la vedeva abbrancata dalla madre, che disperata, muta sbarrava gli occhi stringendo convulsamente quel corpo di bambina, gliela indicava senza vita con un gesto disperato, con parole che non uscivano di bocca: vedeva la sua Susan impazzita, che stringeva la sua Esther, morta.

La mia bambina! La mia bambina è morta! Urlava. E' morta! Ripeteva da ebete.

Matthaios aveva visto la scena di Jahir che come un morto camminava, disperato, dalla sua bella lettiga, mentre veniva portato in paese dai suoi servi, a spalla, e da lontano aveva seguito lo strazio di un padre, la disperazione della famiglia e si era commosso.

Era rimasto in disparte: non era il caso di incontrare i capi della comunità, non era il momento: non è il momento delle parole, è il momento del pianto, pensò.

"E' il momento di piangere, Matthaios," disse infatti Tzebedeh, seguito da un gruppo di uomini, che rimanevano a debita distanza: "gli affari si faranno, le parole si diranno, le bocche parleranno: noi ora siamo in lutto!".

Matthaios, turbato, era sceso dalla lettiga, e diceva: " Certo...è tempo di piangere; si; è tempo di piangere", poi comandava di tornare alla villa facendo dire che sarebbe tornato il giorno dopo, per onorare la piccola morta.

Il giorno dopo Tzebedeh incaricato dalla comunità, aveva portato a Jahir le lenticchie funebri nel canestro di vimini, secondo il costume, aveva visto il letto in cui la defunta aveva dormito rovesciato, aveva rilevato come le donne avessero ben preparato la bambina nel suo letto funebre tra grida di disperazione e pianti prolungati.

Tzebedeh con una delegazione di uomini tra cui Jehoshua, avanzava ora con gli abiti lacerati e col capo cosparso di cenere ed insieme al padre recitava il Kadish, la preghiera dei morti.

Insieme avevano intonato il salmo, in cui ricorrente e martellante è la ripetizione di fino a quando che aumentava la tristezza dei presenti, già contristati ed afflitti dallo strazio delle nenie delle donne che si battevano il petto, ad ogni preghiera, che si strappavano i capelli e piangevano dirottamente.

Fino a quando,YHWH mi dimenticherai?

Per sempre?

Fino a quando mi nasconderai il volto?

Fino a quando nell'essere mio proverò affanni,

tristezza nel cuore ogni giorno?

Fino a quando su di me si ergerà il nemico?

Insieme poi invocavano la Shekinah di Dio, volendo anche nella disgrazia innalzarsi alla gioia della speranza e sentire la presenza divina

Guarda, rispondimi, YHWH, mio Dio
fa brillare la tua luce ai miei occhi...

Nella tua bontà ho sperato:

Gioisca il mio cuore nella tua salvezza.

Anche Matthaios era venuto, certo rimanendo fuori perché il funerale è un atto liturgico a cui un apostata non può partecipare e da lontano recitava il suo shema e pregava:

o signore, della grazia tua nutri i vivi e con la tua grande misericordia resusciti i morti, e sostieni i deboli, guarisci gli ammalati, spezzi le catene degli schiavi, mantieni fedelmente le tue promesse verso coloro che dormono nella polvere: Chi è pari a te, padre misericordioso, chi ti può somigliare?

Egli era venuto, ma era venuto per rispetto di Jahir, che lo vedeva con gli occhi annebbiati dal pianto, fermo, accanto alla lettiga, sulla strada e in cuor suo lodava la sua pietà e ringraziava Dio.

C'era anche Shimon che faceva parte della delegazione dei pescatori ed era entrato in casa ed era attento ad ogni movimento.

Egli seguiva sempre Jehoshua ed ora lo vedeva muoversi e contemporaneamente vedeva Jahir implorare, con le mani giunte, ginocchioni: Maestro, questa è la tua casa: essa è nel lamento, la figlia unica è morta! E' morta la mia unica figlia!

Al pianto del padre esplodeva un pianto generale.

Shimon piangeva e con lui Andreas, che era al suo fianco; piangevano i figli di Tzebedeh, piangevano tutti e tutti ora guardavano il maestro, che avanzava verso il centro della stanza.

Egli era impassibile: occhi chiusi, mani aperte, in avanti: la sua voce autoritaria sorprendeva tutti nel pianto generale: uscite, uscite tutti, solo quelli che stanno con me restino.

Sbalordiva tutti quando poi aggiungeva: Non strepitate e non piangete: la fanciulla non è morta, ella dorme.

Si faceva silenzio: un silenzio assurdo cadeva nella casa e gli occhi di tutti si puntavano sul parlante, increduli, beffardi, ironici, i più; fiduciosi, pochi.

Shimon vedeva in basso i tanti, usciti sulla strada che muti guardavano e leggeva negli sguardi i diversi pensieri, di ira, di disapprovazione, di dileggio.

Shimon vedeva che Jehoshua era come in un'altra dimensione, lontano, lontano, come immerso in una visione, ma i suoi gesti erano precisi e significativi, determinati, in assenza di parola: prendeva per mano Jahir e Susan, faceva un cenno a lui e agli altri rappresentanti con la mano perché lo seguissero nell'interno della stanza.

Entrato, Jehoshua prendeva per mano la fanciulla, si avvicinava al suo volto e le diceva, come alitando, con un soffio: Talitha, Coum (alzati, fanciulla).

E la fanciulla aprì gli occhi.

E con una mano il maestro la sollevava dal letto funebre, la faceva sedere, poi scendere e la dava al padre e alla madre, sbalorditi, esangui, impazziti, muti, pietrificati.

Ima! Ima! (madre! madre!) della fanciulla rompevano il gelido silenzio, sgelavano la situazione, facevano esplodere l'urlo di Jahir, slegavano il nodo alla gola di Susan, che gridava figlia, figlia Mia!

Lei, Esther, non capiva, non poteva comprendere cosa stesse capitando e guardava stupita.

Allora la commozione prendeva tutti i presenti che si abbracciavano e che abbracciavano il padre, la madre e la figlia.

La ragazza ora aveva fame e voleva mangiare.

Tutti la guardavano mangiare ciò che frettolosamente le era stato portato: anche la folla, uscita, ora era rientrata, al grido strozzato di Jahir, e vedendo la fanciulla viva e masticante arretrava sbalordita.

Ora Jehoshua era il centro di ogni sguardo: quelli che avevano avuto occhi beffardi o irati erano ora a testa bassa, timorosi, annichiliti; quei pochi che erano stati fiduciosi gli si stringevano intorno, festosi, ma anch'essi titubanti perché quell'uomo non era un uomo, e pensavano chi ha il potere di vita e di morte è un adir: un adir deve essere rispettato e pregato come un dio.

Allora l'atto festoso moriva al momento della manifestazione, perché il timore lo bloccava, la venerazione gelava la commozione: si inginocchiavano tutti, anche Jahir, anche la moglie, anche la figlia, come atto dovuto, come ringraziamento umano ad un essere superiore.

Allora la folla cominciava a gridare:

In mezzo a noi è Elia! Un nuovo Eliseo è sorto in Galilea! Hallelujah, hallelujah.

Matthaios aveva visto la bambina, viva, col padre e con la madre all'urlo sovrumano di Jahir, sentito il silenzio, ascoltato l'improvvisa preghiera di ringraziamento ed anche lui si commuoveva, si gettava a terra in pianto dirotto, come un penitente.

Aveva le lagrime agli occhi, quando vedeva uscire Jehoshua, intorno a cui si accalcava la folla che lo premeva da ogni parte.

Il pubblicano scorgeva una donna, che sanguinava e che, impura, se ne stava lontana dagli altri, ma desiderava avvicinarsi al maestro e voleva toccarlo, convinta di essere sanata.

Camminava a fatica e lasciava una scia rossa di sangue, immondo, malata: era ancora giovane, ma disfatta; era bella ma sfiorita; era pallida e chiedeva un timido aiuto, che nessuno poteva dare.

Era chiara la sua intenzione: arrivare a toccare il maestro, magari solo la veste del maestro.

Matthaios non esitò: lui impuro non sarebbe diventato più impuro, un impuro e un'impura non erano condannabili neanche in Giudea: un impuro e un'impura si sarebbero avvicinati al maestro, al datore di vita, all'adir: i puri facessero quel che volevano: chi può aiutare un impuro se non un impuro!

Sorresse la donna fino a portarla davanti, là dove doveva passare il maestro, così da poter avere contatto col maestro e si tirò indietro, a debita distanza.

La donna toccò il lembo della veste del tecton, come aveva desiderato.

Jehòshua si turbò e si fece pensieroso: aveva avvertito, sentito la mano della donna.

Guardò in giro, mentre diecine di mani si alzavano ancora per toccarlo, e urlò in modo ebete, sbarrando gli occhi, da matto: Chi mi ha toccato?

Le mani imploranti di uomini e di donne che si accalcavano, di parenti che ringraziavano si immobilizzarono all'istante.

Come può dire, chi mi ha toccato? Pensò Matthaios.

Gli occhi azzurri di Jehoshua si fissarono sulla donna, impura, che lui sentiva d'aver guarito: Donna, la tua fede ti ha salvata, va in pace; sii guarita dalla tua infermità.

La donna, piangendo, subito proruppe in ringraziamenti ed urlò la sua gioia perché sentiva che il sangue non le colava più, che la sanità ora era in lei, che l'utero le si era cicatrizzato, rappreso, solidificato e che la vita rifioriva in lei.

Le grida della donna erano fioche, appena percettibili, rispetto all'incontenibile gioia di tutta la comunità, che ora si stringeva di più intorno al maestro, che si schermiva e che invitava al silenzio alla calma, alla moderazione.

Non c'è possibilità di frenare un popolo che gioisce, non è possibile contenere chi deve dire che la morte è vinta dalla vita, che una bambina morta ora vive, che un uomo ha risuscitato un suo simile.

Eppure bisogna andarsene dalla casa di Jahir; la famiglia, dopo la tempesta deve ritrovare la gioia intima di un ritorno, deve avere la possibilità di un abbraccio, di un'unione creduta finita per sempre,di ricollegare i pezzi di un vaso ritenuto rotto, ora integro, di meditare sull'evento grande di morte-vita. Pensò Tzebedeh ed allora gridò: andate a casa, qui non c'è un funerale, qui c'è una famiglia che ha bisogno di pace, di meditazione, di raccoglimento.

Ognuno tornava alla propria casa, all'ordine del mebaqer-capo e, meravigliato, andava lodando Adonai perché in mezzo a loro c'era ora un profeta, un santo, un adir.

E Shimon, con Andreas, si avviò verso casa con Jehoshua, che, andandosene, rivolse uno sguardo verso Matthaios, che si sentì piccolo, un bambino in fallo davanti al proprio padre.

Anche l'emorroissa se ne andava, gonfia di gratitudine per Jehoshua, rivolgendo un saluto al ricco pubblicano, con vergogna.

La folla, glorificando Adonai si era sciolta, ma ognuno aveva nel cuore l'immagine di un adir, che vinceva la morte e nessuno sapeva capacitarsi che un miracolo così grande fosse capitato davanti ai propri occhi.

Jahir, rimasto con la sua famiglia, non diceva niente, era troppo felice per parlare, era troppo istupidito: la sua casa era passata rapidamente dalla tristezza di una morte alla gioia di una vita: lui non riusciva a capire, si stringeva solo la figlia, che parlava e che era viva, si stringeva la moglie che rideva scioccamente: non sapeva neanche cosa fare, né dove andare, era come paralizzato di fronte alla figlia morta ed ora viva, alla resurrezione della figlia: la morte non era morte, la morte era vita; tutto si era capovolto, il suo mondo schematizzato di fariseo era crollato, le sue certezze si erano solidificate, alcune, altre pencolavano come canne.

E Jehoshua!

Chi è Jehoshua? Pensò.

Chi è Jehoshua? Il padrone della vita, colui che annulla la morte? Da chi ha tanto potere?
Lui, fariseo, doveva sapere le risposte e non le sapeva; la sua conoscenza della Torah era insufficiente: domani cercherò le risposte, non oggi: oggi è giorno di gioia, ora è il momento dell'allelujah, ora è il tempo della lode di Dio.

 

04/01/2010





        
  



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