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Uno zelota IX puntata ( III Parte) de " L'eterno e il Regno"

San Benedetto del Tronto | Prosegue il racconto del Professor Angelo Filipponi

di Angelo Filipponi

Andreas cominciò a guardare con ammirazione quel suo coetaneo, che combatteva per la patria contro gli erodiani e contro i romani, che aveva fatto voto della vita, per cacciarli dalla loro terra.

Lebbeo era un soprannome di battaglia, che copriva il nome di Yehudah ben Yosip, un partigiano, come tutti gli altri compaesani, conosciuti in tutta la zona non solo per la continua e temeraria sfida ai romani e sebasteni, ma anche per la lotta contro i sacerdoti del tempio, sadducei.

Lebbeo e il gruppo galilaico facevano attentati a servi del tempio e minavano il commercio dei sadducei, che doveva passare necessariamente a nord del lago, in quanto c'erano agenti che smerciavano i prodotti dei contadini del tempio, verso l'Iturea, Abila e la Commagene.

Andreas ammirava da tempo le imprese degli zeloti e desiderava di conoscerne qualcuno: ora che conosceva Lebbeo, non smetteva di assillarlo con domande e richieste, in una volontà di dimostrare la sua adesione e il suo patriottismo.

Arrivava perfino a confidare: io ammiro voi che combattete e ammiro te, Lebbeo, e credo che solo voi siete la salvezza di Israel. Oh! Potessi io essere uno di voi.

Rimaneva in attesa, aspettando una risposta che non arrivava:uno zelota neanche poteva confidare di essere un canaah, né arruolare qualcuno, doveva solo combattere quando era chiamato: i capi potevano selezionare, studiare, proporre candidati ed infine preparare i giovani in senso militare.

Essi, dopo averli preparati a missioni militari, procedevano nell'arruolamento secondo due tipologie: con una si formavano gruppi di armati, abituandoli ad operare a seconda dei luoghi, abilitandoli alla guerriglia, insegnando l'uso di ogni arma, facendo lunghi esercizi; con l'altra, aggiungevano alle tecniche zelotiche di base, la simulazione e dissimulazione, il travestimento, un addestramento per l'uccisione rapida e silenziosa a breve distanza, in area gerosolimitana: la prima formazione era quella generica dei canaahim, la seconda quella dei sicari, uomini che, armati di sica, un pugnale, si avvicinavano alla vittima designata, travestiti e l'uccidevano senza pietà.

Andreas, dunque, aspettava invano e Lebbeo, sorridendo, cominciò a parlare di altro, mentre Shimon, avendo sentito il nome di Menahem, con le manacce abbrancò suo fratello alle spalle e poi mettendo l'indice sotto il naso, perpendicolarmente alla bocca, gli intimò silenzio ed infine lo sospinse bruscamente verso la finestra.: e così il colloquio tra i due si era interrotto.

Lebbeo, senza badare a Shimon e senza degnare di uno sguardo il pubblicano, si avvicinò alla finestra per seguitare la conversazione e le confidenze.

Shimon allora, seccato dell'invadenza dell'altro, innervosito, andò a coricarsi per terra, dopo aver riunito un po' di paglia; i due giovani facevano a gara a confidarsi.

L'uno narrava la sua vita da pescatore , caricando i toni enfaticamente per maggiorare le sue piccole imprese, per magnificare il suo paese, consapevole che il suo mondo era poca cosa.

L'altro giovanilmente si mostrava molto fervido di idee e molto sicuro di mano.

E vedendo l'altro molto entusiasmato e pensando a lui come un fratello cominciò ad entrare lentamente in particolari, che non avrebbe dovuto rivelare.

Ma Lebbeo era giovane come Andreas, capiva che Andreas era come lui, un figlio della luce, un giudeo zelante della fede.

Decise perciò di fidarsi: parlava di addestramento militare e di gruppi armati, a bassa voce, sempre genericamente; mostrava fiducia per l'altro e, perciò, lo caricava avendo coscienza della vittoria finale, fidando ciecamente in Dio.

Jehudah era un fedele zelante della torah, un fervido assertore della superiorità giudaica sugli altri popoli. Da quel momento per Andreas Lebbeo era un eletto da Dio, un nabi, come Johanan, ma con la dote del valore, della forza guerriera: il giovane Cefa pendeva dalle sue labbra ed ogni sera conosceva particolari nuovi della sua vita, elementi utili dell'organizzazione ed ogni sera giurava in cuor suo che sarebbe stato un canaah, un partigiano eroico, un testimone immacolato di Adonai, un nuovo Mattatia, un maccabi.

La settimana di lavoro per i due stava per finire: si era verso l'ora ottava, quando il minuscolo Zaccai, l'ometto, pubblicano che lavorava come copista di un architetto in un banco, sotto il colonnato frontale, fu alzato di peso da un sebasteno, una guardia entrata in servizio quella mattina, erculeo che ghignava: Finalmente ti trovo, nanerottolo! Ora la pagherai cara: ti ricordi di me! Mi hai fatto pagare le tasse con gli interessi e mi hai mandato sotto processo tanto che ho dovuto vendere moglie e figli come schiavi! Da cinque anni ti vado cercando!

E senza sentire le ragioni dell'architetto, venuto in difesa di Zaccai, furioso, prese lo scudiscio; l'architetto di nuovo cercò di fermarlo, ma fu spintonato e gettato per terra.

Il sebasteno aveva già alzato lo scudiscio e colpito Zaccai, il pubblicano, i cui occhi gementi incontrarono quelli di Lebbeo: lo zelota non provava pietà per il pubblicano, ma provava solidarietà verso il giudeo contro il sebasteno.

Senza riflettere, il giovane si era portato di fronte al Golia samaritano, nuovo Davide pronto a colpire il nemico con ogni mezzo.

Il sebasteno aveva gia scaraventato l'inerme Zaccai sui sassi e già sguainava la spada per ucciderlo, incombendo con la sua ombra mortale sull'infelice, che, poverino, piangeva e si raggomitolava su se stesso, coprendosi il volto ed implorando Ana ad Hoshiya (signore, salvaci!).

E il signore l'ascoltò!

La mano aperta di Lebbeo colpì di taglio, con precisione, il polso del gigante, che disarmato, restò sorpreso e sbalordito, di fronte allo sconosciuto.

Ancora più furioso estrasse il gladio e vide con sorpresa che l'avversario era impavido davanti a lui, e lo guardava con sfida, attendendo, e sentì come un colpo al cuore, che lo gelò, di paura.

La folla di operai, di schiavi e di guardiani cessò il lavoro: subito essa aveva formato un cerchio intorno ai contendenti, tratteneva perfino il respiro.

Il gruppo di Galilei era muto, ma muto era anche il corpo di guardia: il silenzio dominava improvviso.

Tutti guardavano ed esaminavano i combattenti e già gli altri sebasteni scommettevano sulla vittoria del loro decurione, conoscendone la forza e la ferocia, gli architetti e specie il capo architetto puntavano sesterzi sullo zelota, più giovane, più scattante, più abile, seppure disarmato.

Il sebasteno tirò un colpo dal basso verso l'alto, ma Lebbeo lo evitò, scartando sulla sinistra.

Mentre l'altro era sbilanciato per la violenza del colpo andato a vuoto, il galileo fece un leggero piegamento sul fianco, saltò su e con una ginocchiata disarmò l'avversario e con un pugno lo stese al suolo, esanime.

Senza una parola, Lebbeo tornò al suo lavoro, incurante del grido di giubilo dei galilei e del silenzio dei sebasteni e riprese a spingere i massi insieme con Yitzahc e gli altri, che di nascosto si complimentavano, mentre le guardie calmavano il loro capo, che si rialzava malconcio.

Filippo, informato del fatto a fine lavoro, ordinò che Lebbeo e Zaccai non fossero toccati e che a fine del loro ergastolo, dovessero essere condotti da lui.

Questo, disse, a sera, Lebbeo ad Andreas, che liberato, si allontanava con Shimon.

E salutandolo festosamente, lo zelota aggiunse: Adonai è con noi: la liberazione dei giusti è prossima; il Regno dei Cieli è vicino. A presto, Shalom.


Il ringraziamento
Shimon ed Andreas erano tornati a casa, a Cafarnao: le donne non si stancavano di toccarli, di baciarli, di accarezzarli, come per sincerarsi che non erano angeli, ma esseri vivi.

Per giorni li avevano pianto come morti ed erano andate al mare per cercare qualche segno della barca, timorose di trovare qualche indizio della loro morte: sconsolate, erano tornate mestamente alle loro faccende.

I bimbi si attaccavano alle gambe e facevano un gran baccano: volevano dire il loro pensiero, volevano far sentire la loro presenza, desideravano essere al centro dell'attenzione.

I vicini erano tutti accorsi per rivedere i sopravvissuti: per primo era arrivato Tzebedeh con i figli.

Shimon era quello più richiesto e quindi diventava più importante: lui era cosciente del suo ruolo e perciò raccontava e raccontava, aggiungendo sempre qualche altro particolare: per ognuno aveva qualche elemento da immettere nella narrazione, nuovo, che dava alla toledot19 un significato aggiuntivo e diverso, ma non snaturava il senso generale, né l'ordine dei fatti: era il sistema tipico dei Cefa, che amavano raccontarsi per diventare storici di se stessi, come se raccontassero la storia dei padri, a sera.

Andreas e Liah non si saziavano mai di baciarsi, di guardarsi negli occhi: si erano scostati dagli altri e si erano messi in un angolo della grande cucina, in un tentativo di isolarsi, pur nel mezzo del via vai di gente e tra le tante voci di parenti e di conoscenti, venuti per congratularsi dello scampato pericolo e per il ringraziamento al signore.

Natan, però, il nipotino più piccolo, si era incuneato tra le loro gambe, camminando carponi: voleva salutare lo zio, voleva anche lui baciarlo e farsi baciare per testimoniare che anche lui aveva sentito la mancanza come Liah, e piangeva perché, nonostante gli sforzi, nessuno si era accorto di lui.

Sollevato da terra, finalmente, da Andreas, che se l'era posto davanti al viso, il bimbo nulla diceva, solo si strinse forte forte, come per non staccarsi: Andreas sorrise e Liah lo accarezzò.

La suocera di Shimon, la padrona di casa, girava per tutta la stanza con un fare autoritario e ringraziava i venuti, salutava i parenti, mentre Shimon, tutto intento a narrare non si accorgeva nemmeno di chi si allontanava e di chi rimaneva, né vedeva chi entrava: era ormai tutto nella sua storia, proprio come suo padre. Fu la suocera che all'improvviso esclamò: Shimon ,ora bisogna ringraziare l'altissimo insieme e poi domani faremo un'offerta alla sinagoga: ho già pronto due tortore per Jahir, il Hazan. Si fece silenzio e fu intonato il salmo:

Benedirò ogni ora JHWH

sulla mia bocca sarà sempre la sua lode.

In JHWH si gloria l'anima mia,

odano gli umili e si rallegrino.

Lodate JHWH con me

e insieme magnifichiamo il suo nome.

Ho cercato JHWH e mi ha udito
e da ogni amarezza mi ha liberato...

 

Questo povero ha gridato ed JHWH ha udito

e da ogni terrore l'ha salvato.

Alza la tenda l'angelo di JHWH

vicino a chi lo teme, per salvarlo.

Gustate ed assaporate come sia buono JHWH,

beato l'uomo che si rifugia in lui...

Terminato il salmo, celebrate le lodi del Signore, il padre e il salvatore, sfollata la gente, Raqel, preparò da mangiare per gli uomini: le donne mentre lavoravano, seguitavano a pregare e ringraziavano Adonai per aver ricomposto la famiglia. Raqel era una donna energica, piccolina, sulla sessantina, dinamica, capace di dire la parola giusta al momento giusto, ordinata e scrupolosa: era soprattutto un'organizzatrice. Niente sfuggiva al suo sguardo, tutto subito rilevava e a tutto provvedeva, senza chiedere aiuto, di persona: rapidamente riusciva a far quadrare ogni cosa, a risolvere ogni problema con un piccolo ritocco, una irrilevante modifica e a volte con un rapido comando: non sembrava neppure un'israelita, per quanto era efficiente e funzionale.

Cefa, il vecchio padre di Shimon, che conosceva la famiglia, soleva ripetere: E' come la madre: è proprio una fenicia! E Shimon, ora guardava la suocera e ne vedeva le capacità, ma da uomo, da giudeo, pur compiaciuto, bofonchiava strane parole, incomprensibili, che non sapeva tradurre in una frase di elogio e neppure di ammirazione sua propria. Dal petto, spontaneo, gli veniva su:

è benedizione di JHWH la donna di valore.

Chi la troverà?

Apre la sua bocca con sapienza

e legge d'amore è la sua lingua.

Lui sapeva bene che senza di lei, lui, così grande e grosso, niente avrebbe fatto: lui era un bambinone, tutto muscoli, bisognoso di una madre, che lo sgridasse, lo guidasse, lo spronasse, lo orientasse: lui lavorava e lavorava sodo, ma erano le donne che tiravano avanti, specie sua suocera: il vero capo era lei. D'altra parte in situazione Shimon nulla sapeva fare: solo in mare lui era il capo: lì esprimeva la sua forza e il suo valore; in comunità egli era rispettato solo per la sua pietà religiosa e per la sua forza. Non era un creativo, ma un semplice esecutore, che si vantava fanciullescamente della sua azione, amplificata. Quella donna era stata davvero una madre per lui e nel proprio cuore Shimon aveva un affetto filiale per lei come per una vera madre: Raqel era la madre che lui aveva perso, poco più che decenne, quando era nato Andreas.

Mai però riusciva a testimoniare integralmente la sua devozione perché un uomo ha dignità specie in Israel; solo da certi atti, insignificanti apparentemente, lo si poteva capire. Raqel era il primo volto che gli tornava in mente, quando era in mare e si identificava con la sua casa più perfino di Susan, la dolce moglie, che amava, la madre dei suoi cinque figli, la compagna di letto, complice di tante gioie d'amore. Raqel era la prima a conoscere il suo pensiero; la sua voce era seguita come un oracolo. La maggior parte delle sue idee era nata dalla mente di Raqel.

Il caposinagoga
Dopo la festa del ritorno, Shimon, come aveva promesso, andò a trovare Jahir, il capo sinagoga di Cafarnao: era un dovere per un marinaio, scampato ad un naufragio, ad un pericolo mortale.

Per lui era un doppio dovere perché era un atto di amicizia verso l'uomo di Dio, che era un suo coetaneo ed amico di infanzia.

La sinagoga sorgeva sulla strada maestra, su cui si era sviluppato il paese, un po' rialzata perché una casa di Dio, una casa per pregare, non può non essere al di sopra della città.

Ed era vicino ad una fonte che derivava dall'eptapegon, una sorgente, più a monte, che aveva sette differenti gettiti.

Davanti, sulla via, passavano di continuo carovane, che venivano da Damasco ed andavano verso il mare o deviavano più a sud, verso l'Egitto.

Quando Shimon arrivò alla piazzetta, davanti alla sinagoga, costruita secondo lo schema della proseuche alessandrina, c'era una grande animazione perché era arrivata una carovana, proveniente da Babilonia, condotta da giudei babilonesi, il cui capo stava trattando con pubblicani: ci si accordava sul prezzo e si indicavano le tappe di trasferimento della merce, che passava per Cesarea Marittina e da lì finiva a Rodi, presso depositi di Pallante, che era socio del Tempio.

Accanto c'erano due altri pubblicani, furibondi, perché la merce era loro sfuggita per un'inezia: erano due uomini di Callisto, che era socio di Erode Antipa, le cui navi erano già pronte a Cesarea per imbarcare la merce, da inviare nei depositi di Delos.

Era famosa la crudeltà di Callisto verso i suoi agenti che sbagliavano: subito li sostituiva e poi li faceva scomparire.

Perciò i due erano furiosi anche perché incerti del loro futuro: la merce era stata accaparrata dai concorrenti all'ultimo momento ed essi temevano l'aischrokerdeia (avidità di guadagno) del loro padrone. Volavano parole grosse tra i due schieramenti, ma il giudeo babilonese, rappresentante di Asineo era indifferente alla disputa e rivolse uno sguardo nelle direzione di Shimon, di soddisfazione nel vedere ostili due gruppi di nemici, che lottavano per avere la ricca merce che veniva dal Mare Eritreo ed era del suo signore, che aveva contratti con i popoli del Mare persico.

I romani si sentivano bravi perché rivendevano la merce, comprata dal suo signore, a Roma a prezzi altissimi.

Come sarebbe stato bello interrompere quella catena! E sorrideva sotto i baffi pronunciati, soddisfatto di quella baraonda. Che gioia se una società giudaica fosse subentrata direttamente al suo padrone! Era un babilonese, originario di Seleucia, dove c'era una grossa comunità giudaica, che si era servito per qualche piccola commissione della barca di Shimon e di quelle di Tzebedeh per traghettare merci verso la Decapoli o l'Auranitide.

Il babilonese aveva salutato Shimon con la mano levando un festoso grido: Shalom, Atha malkut ha shemaim!20 Shimon aveva risposto al saluto ed era entrato nella sinagoga, incurante ed indifferente ai litigi e alla folla di orientali: era abituato a vedere le facce babilonesi ed adiabene, a sentire i soliti discorsi di guadagno e di merci, le solite grida, fin da bambino.

La varietà idiomatica non lo toccava affatto: greco, babilonese, adiabene, latino, aramaico si accavallavano, si sovrapponevano, si azzuffavano creando alla fine una concordia irreale a prezzo concordato, una pacificazione generale che si concludeva con pacche, con saluti, con strette di mano secondo ataviche consuetudini.

E'  pax romanum sentenziava nero Shimon, da ignorante.

L'homonoia greca! E noi serviamo ai romani e ai greci andava pensando cupamente, mentre entrava nell'attigua casa di Jahir.

Era questa una casa più grande delle altre perché era costituita da due piani, di una certa ampiezza: il piano terreno, un quadrato di lato di 12 cubiti, era occupato da una stanza più grossa su cui c'era una specie di pedana con una cattedra, accanto alla quale si alzava un leggio dove si posavano i rotoli della legge, che erano conservati in una nicchietta, che era una credenza a muro.

Lì il Hazan insegnava ai bambini e alle bambine la scrittura e la lettura aramaica ed ebraica, tramite la recita di salmi e di racconti di storie, specie di Ester e di Daniele.

Al piano superiore si accedeva mediante una scala ripida, che andava dritta dal pian terreno. Dalla scala scendeva Jahir con le braccia aperte e con un sorriso, poiché aveva sentito il vocione di Cefa.

Il saluto era affettuoso, quello di un padre.

Jahir non era vecchio, ma della stessa età di Shimon: la serenità e la gravità gli davano un'anzianità maggiore, che aggiunte alla pacatezza farisaica, aumentavano la dignità ad un uomo di gradevole aspetto.

Inoltre la sua natura buona e gli occhi luminosi e scrutatori gli davano un carisma particolare.

Shimon si inchinò, poi si tirava indietro secondo l'usanza galilaica.

Finito il cerimoniale, abbracciava con affetto e devozione il capo sinagoga.

Avevano quasi gli stessi anni: Shimon qualche capello bianco in più e un volto più scavato dalla sofferenza e più annerito dal mare; Jahir mostrava un aspetto più giovanile e un corpo più esile ed asciutto.

Il pescatore portava una tunica pulita, semplice, il capo-sinagoga invece aveva i distintivi, propri della sua condizione: lunghe liste colorate coprivano le parti centrali della tunica mentre le frange erano ricamate con orli, su cui erano trapuntati versetti biblici e la kippah gli copriva la parte inferiore della testa.

Dietro il padre scendeva con una specie di lulav, di corsa la piccola Esther, intenzionata ad uscire di casa e a giocare con una amichetta, che stava sull'atrio di una casa di fronte, ritta, in attesa.

Susan, la madre dall'alto delle scale la seguiva con trepidazione, mentre attraversava la strada ed aveva uno sguardo troppo tenero, troppo preoccupato per quella figlia. E vedendo Shimon lo salutava e subito discretamente si ritraeva, secondo il costume schivo e riservato delle donne giudaiche.

Shimon, pur per quei pochi istanti, la vide più bella, più rotonda, più dolce anche se notava nello sguardo una certa trepidazione e insicurezza.

Jahir benedisse Shimon, ringraziò Adonai, fece pregare con lui l'amico che faceva l'offerta anche in denaro, come aveva suggerito Raqel, per i poveri e le vedove.

Shimon ricordò che aveva conosciuto Jahir a dieci anni, quando il padre Cefa si era trasferito da Bethsaida, suo luogo di nascita, che allora era un villaggio di poche anime ed era venuto a Cafarnao, nell'altra sponda del lago: Johna, suo padre, aveva voluto tagliare con i parenti della moglie e si era allontanato ed era stato accolto dal parente Zebedeh.

Allora non aveva amici e nessuno voleva accostarsi a lui, anche perché era ombroso, nervoso: la sua statura poi, già rilevante rispetto agli altri bambini, incuteva timore; le leggende su Cefa padre inoltre gettavano ombre su tutta la famiglia.

La morte della madre in circostanze misteriose, nel corso del censimento di Quirinio, aumentavano le chiacchiere: condanne ed elogi si intrecciavano a seconda della lettura degli avvenimenti da parte amica o ostile nei confronti di suo padre, uno sfortunato canaah, certamente.

A lui che era sempre solo Jahir si era avvicinato, lo aveva preso per mano e l'aveva fatto giocare con i suoi amici, integrandolo nel gruppo, quasi spontaneamente, naturalmente.

Vieni, Shimon! Ancora gli tornava alla memoria ed ancora gliene era grato.

Erano cresciuti quindi insieme: avevano letto e studiato la toledot giudaica sotto il vecchio capo-sinagoga, erano diventati bar onesh, dopo aver sostenuto l'esame a Gerusalemme, al tempio, valutati certo con due differenti giudizi, perché lui doveva andare al lavoro, e l'amico invece doveva seguitare gli studi in città.

Le vie si erano separate: lui aveva seguito il padre e il mare, l'altro il padre e JHWH.

Ambedue avevano avuto due padri grandi: il vecchio Johna e il vecchio Ezechia: uomini che avevano fatto la storia del paese in modi diversi, persone entrate nella leggenda popolare, divenute col passare degli anni miti grazie alle voci che si ingigantivano col tempo e fissavano la loro figura eroica.

Johna era il modello di giusto popolare, che aveva vissuto una vita di lavoro, esprimendo la sua fede con la forza e l'abilità marinaresca: leggendario era diventato un suo viaggio sul mar Rosso; dopo la fuga in Egitto, inseguito dai romani; Ezechia era il rabbi zelota da imitare, che era morto in difesa della patria e della legge, in una lotta continua contro Erode il grande e i Romani.

Cafarnao e la Galilea celebravano i suoi uomini con un ricordo non ufficiale, né pubblico, ma paesano e privato, con rievocazioni delle imprese, tramite racconti di sopravvissuti e con la ripetizione delle parole dette in situazione: il porto, l'osteria, la casa, la sinagoga, l'assemblea dei capi-famiglia erano i luoghi in cui si fissava a livelli diversi la memoria dei grandi paesani, dei giusti.

Shimon guardava Jahir, lo giudicava giusto e nabi e diceva: io ho maledetto il mare, bestemmiato, dubitato di Adonai: io sono un peccatore: stendi la tua mano e dimmi la parola di perdono.

E il caposinagoga: Jahveh ti conosce, Shimon : tu sei tutto cuore, tutto impulso: Adonai legge dentro di te, è in te.

La cattiveria è un male fuori di te: è un'esplosione improvvisa, non nasce dall'animo. Adonai ti perdona.

Insieme diciamo: siamo peccatori, Adonai perdona noi peccatori; Eli, Jit qaddash Shemak21.

Ed Jahir sollevava da terra Shimon, che, nell'atto di confessare i suoi peccati, si era inginocchiato.

Shimon allora si faceva animo e cominciava a parlare, lui sapeva parlare solo se prendeva confidenza e se l'altro era affabile: il suo cuore solo allora lo sapeva aprire e il candore della sua anima veniva subito rivelato. Senza queste condizioni egli aggrediva, anche se parlava.

Davanti all'amico egli poteva parlare con serenità e spontaneità.

Oh come è bello parlare con te! fratello, tu leggi dentro di me e mi dai pace: la tua stessa voce mi consola, mi quieta.

Il Hazan lo interrompeva.

Shimon, tu dici parole che non si addicono a me: io sono un rabbi di paese, un uomo che dice parole umane. Adonai, benedetto sia il suo nome, ha solo parole che possono consolare, possono innalzare, parole sante, che rendono santi.

Ho saputo da Nicodemo e da Josip di Arimatea, miei amici, uomini del Sanhedrim di Gerusalemme che a Nazareth è sorto un profeta, un santo: già molti lo chiamano Meshiah e figlio di Davide: egli è dolce e sereno come nessuno, dà la pace a tutti, dà la salute a chi la chiede, dà la speranza ai disperati, dà la verità a chi la cerca, predica amore anche per i pagani.

E Shimon, ridendo: Abba, ma da Nazareth cosa può venire di buono!

I nazaritani sono montanari scontrosi, duri come sassi, collerici, uomini da poco! Tu, tu sei la voce di Jahveh! La tua dottrina, la tua fede la tua santità hanno fatto di te un capo, non solo spirituale, come tuo fratello Jehudah22.

Noi di Cafarnao fidiamo in te, seguiamo la tua parola: i romani, gli erodiani, i pubblicani, i sadducei sono i nostri nemici.

Shimon, Shimon! lo frenò Jahir: il rabbi di Nazareth dice che tutti sono fratelli, che tutti siamo fratelli, noi parliamo di nemici, lui parla di amore.

Ho sentito dire che a Canah un rabbi ha fatto miracoli e ha formato una comunità che prospera beata ed ora tutti vivono felici, in attesa del regno dei Cieli. E' forse lui il rabbi? Disse il marinaio.

Si, Shimon, colui che ha mutato l'acqua in vino e che poi è stato riconosciuto da Johanan il battezzatore, come figlio di Dio, come il prediletto di Dio, come luce delle genti.

E Lui sembra che sia intenzionato a trasferirsi a Caphernahum!

A Caphernahum?
Si, a Caphernahum, come centro della sua azione, per costituire una comunità pilota.

Da me, perciò, sono venuti tre rabbi con lettere e mi hanno sintetizzato il suo pensiero: già il sanhedrim lo controlla, lo spia, lo condanna come non fedele servo di YHWH, disse Jahir.

E perchè? Se tu dici che è buono, e che chiama tutti fratelli e che è detto anche Meshiah e frettolosamente Shimon abbassò la testa, come se avesse bestemmiato.

Noi scribi, noi farisei, noi rabbi seguiamo la torah, lui la trascende, va oltre, Shimon: per noi è peccato!

Il noi di Jahir era espressione di autorità per Shimon, che subito diventava umile e misteriosamente si annullava.

Il noi per Jahir stesso era una voce misteriosa di comando, a cui non si poteva non obbedire.

La legge di Israel è la legge, sentenziò: è tutto l'orizzonte di vita e di morte di un giudeo: è golem e nello stesso tempo davar: è la potenza della parola del creatore come l'essenza della vita-morte: è stato insegnato che tutta la torah è il santo nome giacché non vi è in essa una sola lettera che non sia compresa in quel santo nome.

Contristato, Jahir congedava Shimon, anche lui triste e confuso: Va, fratello, Adonai sia con te: il regno dei Cieli è vicino: il padre libererà noi figli dal male. Ricorda,Shimon! Yakum purkan min shemaya (la salvezza verrà dal cielo).

Alla ricerca del Battista

Shimon ed Andreas avevano ripreso la loro vita di pescatori.

In alcuni giorni, però, svolgevano anche compiti di spostamento di merci: infatti su richiesta di Tzebedeh, che aveva il ruolo di capo nella cooperativa di Caphernahum, Shimon partiva col suo carico verso il sud del lago.

Insieme ad altre barche i due fratelli conducevano il loro carico a Tarichea, dove insieme agli altri marinai avrebbero sbarcato la merce e l'avrebbero depositata nei magazzini di Tzebedeh, da dove una carovana di servi di Pallante l'avrebbe condotta a Cesarea.

Era una normale spedizione, quasi mensile, che Shimon svolgeva per conto dell'armatore, suo lontano parente, un cugino di secondo grado di suo padre: bisognava trasportare il carico, scaricarlo, depositarlo ed attendere istruzioni normalmente.

In quell'occasione, bisognò attendere anche il dioichetes della chora regale, che doveva incontrarsi con Tzebedeh e con l'incaricato di Pallante, che, nel frattempo, aveva acquistato sempre da Erode un altro carico di aromi e balsami, provenienti dalla Perea.

Era un complesso affare di milioni di sesterzi21, che passavano nelle mani di Erode Antipa, il quale, avrebbe pagato le spese di spedizione all'armatore, con qualche diecina di sesterzi, che a sua volta avrebbe poi pagato Shimon ed altri piccoli proprietari di barche, con qualche zuz.

Per Erode era più comodo questo viaggio di circa 100 stadi perché non si fidava delle strade di Galilea: i suoi convogli venivano colpiti e depredati dagli zeloti: lui era il maggiore bersaglio, insieme ai carichi del tempio.

Anche Matthaios sceglieva la via del lago per inviare i suoi prodotti al tempio e a Tarichea giungevano anche gli agenti di Callisto, che compravano le merci.

Shimon insieme agli altri barcaioli rimase inerte, dopo le tre ore di viaggio: si sentiva ribollire il sangue nel vedere tanti servi dei romani: erano servi, uomini del tempio, con qualche sacerdote; erano liberti di Erode con un nugolo di schiavi, braccianti isolati che cercavano di guadagnarsi qualcosa.

Al carico e scarico poi erano presenti i sebasteni con l'agoranomos locale, che provvedevano a mantenere l'ordine nelle transazioni e all'atto dello spostamento delle merci verso Cesarea.

Un buon israelita come poteva rimanere inerte se non era padrone della propria roba in terra giudaica! Tutto si faceva per il denaro e per il denaro tutto si vendeva, mentre la povera gente moriva di fame.

A Shimon, dovunque guardasse nei dintorni del porticciolo, si paravano davanti scene di miseria: specie gruppi familiari pagani chiedevano l'elemosina, straccioni miserabili senza casa e senza lavoro, donne vecchie abbandonate, come stracci davanti ad edicole24 pagane, vecchi sdentati sbiascicavano preghiere verso i passanti imploranti pietà, intere vie del quartiere siriaco erano ripiene di sacchi, di cenci, di foglie su cui erano gettati avanzi di umanità, neanche degnati di uno sguardo da uomini che passavano, presi anche loro dai loro pensieri miserabili.

Shimon vedendo Andreas serafico, rimaneva sorpreso e ogni tanto dava gomitate come per svegliarlo e fargli notare quello che il fratello già notava.

Lo innervosiva che fosse sempre calmo e che eseguisse senza mai discutere e che avesse quel perenne sorriso sulla bocca.

A dir il vero ad Andreas non importava niente, né dei pensieri di Shimon, né dei mercanti, né dei pagani: era contento che con Johanan sarebbe andato dal Battista 25 ed avrebbe potuto parlare e fare sogni sulla futura grandezza di Israel.

Egli sapeva che gli anziani avrebbero impiegato tutto il pomeriggio a parlare, a trattare e che sicuramente si ripartiva la mattina dopo.

Perciò aveva chiesto a Shimon di poter allontanarsi col figlio di Tzebedeh verso la Perea dove si diceva che il Battezzatore stava con la sua comunità: i due giovani insieme chiesero il permesso perché i due capifamiglia erano insieme in un termopolio, dove si vendeva una zuppa calda e la stavano bevendo.

Tzebedeh parlava da padrone e Shimon ascoltava insieme ad Jakob, che pendeva dalla labbra del padre e diceva che non era più possibile competere con gli agenti del tempio, né con quelli di Erode e tantomeno con i Romani.

Essi dovevano trovare un sistema per creare una comunità tale da avere soci, che aumentavano il capitale della loro cooperativa e diventare concorrenti tali da poter gestire autonomamente gli affari e favorire la loro gente.

Shimon replicava che era giusto ma non proponibile a soli pescatori di Cafarnao, detentori di poche barche, bisognosi di lavorare.

Allora Tzebedeh esclamò: Oh se Matthaios non fosse un rinnegato! La sua comunità di Eptapegon oh come avrebbe ingrandito e potenziato la loro cooperativa!

Mentre Shimon imprecava e sputava, Tzebedeh implorava Dio: Adonai, tocca il cuore di quel miscredente, aiuta i tuoi servi!

I due giovani, sapevano che la discussione tra i due si sarebbe accesa e che al rancore di Shimon presto si sarebbe aggiunto anche ricordi irosi di Tzebedeh e sarebbe scoppiata la loro rabbia congiunta contro il perfido pubblicano apostata.

E, ridendo, si erano allontanati.

Avevano saputo che il Battista si trovava ad una cinquantina di stadi ed avevano calcolato un'oretta per raggiungerlo, facendo le scorciatoie.

In effetti arrivarono a Betarantha più presto del previsto, ma non trovarono il Battista, ma solo alcuni vecchi che, riuniti, parlavano e dicevano del suo arresto da parte dei Sebasteni avvenuto a Macheronte, ma essi non prestavano fede.

Seppero poi da altri che il Maestro era andato effettivamente a Macheronte e perciò compresero che proprio il Battista era stato arrestato, e che la comunità era stata massacrata e dispersa: Erode aveva avuto l'autorizzazione dei sadducei e il permesso di Pilato26.

La comunità di Johanan era diventato un pericolo per gli uomini del Tempio, per il tetrarca e per i romani: Erode era solo l'esecutore di una triplice condanna e, da interessato principale, era intervenuto, temendo ripercussioni in Perea e Galilea, oltre che a Petra, data la fama del nabi anche tra gli arabi e conosciuta la fede della sua ex moglie e di Dineo, suo padre, Areta il grande.

I due giovani, sconsolati, fecero il percorso di ritorno, meditando sul triste destino giudaico, convinti che ormai era finita anche la speranza di redenzione, riposta nel battezzatore.

Johanan però diceva: eppure Il signore non ci abbandonerà, noi siamo i suoi figli prediletti e il suo tempo è vicino.

Andreas convinto ribadiva certo, il suo regno è vicino: forse non è il Battista il destinato a realizzarlo, Adonai ha scelto un altro.

A questo punto i due si ricordarono di un Galileo che era stato indicato dal Battista, ma non ricordavano bene come avesse parlato il Maestro.

Johanan improvvisamente si illuminò e disse trionfante. Ecco, ora ricordo bene. Il maestro disse: Io battezzo con l'acqua, ma in mezzo a voi c'è uno che voi non conoscete, a cui io non sono degno di sciogliere i lacci dei sandali. L'amico soggiungeva. certo, certo, Johan!

E Johanan allora chiedeva:

Che cosa esattamente disse, Andreas, il Battista quando battezzò uno di Nazareth, un giovane davidico, alto e biondo, un tecton, venuto con la sua quadra di oikodomoi, smettendo di predicare la penitenza e facendosi umile di fronte a lui?

Andreas disse, ricordando le parole: "Io battezzo con l'acqua, tu battezzerai in spirito e fuoco: Il ventilabro è nella tua mano per mondare l'aia, tu raccoglierai il frumento nel granaio, ma la pula la brucerai con fuoco inestinguibile",

Cercava di ricordare qualche altra cosa anche il figlio di Tzebedeh e tentava di coinvolgere l'amico, che assecondava col capo e ripeteva : "si, si, diceva così, me lo ricordo bene!

E Yohanan insisteva e ricordava: il Battista mi sembrò incerto e confuso nel suo dire: "Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu invece vieni da me? E cercava di dissuaderlo, affermando che lui era il potente e non doveva essere battezzato".

Ma il giovane tecton replicò: Lascia fare, ora ci conviene soddisfare totalmente la giustizia.

E Andreas aggiunse: io mi ricordo che tu mi raccontasti che vedesti anche un prodigio: una colomba che aleggiava intorno e di un tuono che rimbombò.

E Johanan ripeteva che aveva sentito anche il rabbi ripetere la frase di Isaia e dire: andate, seguite lui; io sono voce di uno che grida nel deserto.

Dunque, così ricordando, i due ragionavano e si rallegravano che la loro speranza rimaneva intatta: dovevano però trovare lui, il rabbi indicato dal Battista, il rabbi destinato a realizzare il regno dei Cieli.

Lui era la giustizia, la santità, la purezza di Israel;La via,la verità la vita.

E discutevano dove poter trovare l'uomo indicato dal Battista: alcuni dicevano che si trovava a Cana, altri in Egitto, altri a Tiberiade, nessuno però sapeva dove fosse: egli era là dove lo portava il suo mestiere.

E così parlando erano giunti a Tarichea, molto prima di quanto pensassero, quando già era iniziato un carico di pesce essiccato e sale, da riportare verso il nord, che era stato acquistato da un mercante transeufrasico e i comandi si intrecciavano nell'animazione delle operazioni portuali.

I due tornavano dai loro diretti capi e riprendevano il loro lavoro, cessando i loro discorsi, intruppati nell'attività quotidiana di lavoro e di sacrificio.

31/12/2009





        
  



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