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Cafarnao, VIII Puntata(III Parte) de "L'eterno e il Regno" di Angelo Filipponi

San Benedetto del Tronto | Con Cafarnao, VIII puntata, inizia la III parte del romanzo che è centrata su Caphernaum, dove esiste una comunità di pescatori e di agricoltori, di fede mista, che ha in comune i beni, secondo il modello essenico.

di Angelo Filipponi

Jehoshua, chiamato per la costruzione di depositi (dove devono essere conservate le derrate alimentari e il pesce essiccato e salato) è ospitato dalla famiglia di Shimon Pietro, la cui suocera malata è guarita dall'architetto.
La comunità, avendo problemi finanziari, è sotto osservazione del pubblicano Matthaios, un romanizzato. La morte della figlia di Jahir cambia la vita nel paese perché la bimba viene risuscitata da Jehoshua: da ogni parte del mondo romano e partico tutti gli occhi si volgono su Jehoshua, dominatore della morte.
La morte di Seiano (18 ottobre del 31 d. C.) aumenta la popolarità dell'architetto, che viene riconosciuto Mashiah, dopo una assemblea plenaria, a seguito della conversione di Matthaios

Anno 744 di Roma, Consoli Tiberio e Seiano, anno 31
(Dopo la morte di Seiano) I suoi parenti, i suoi compagni e quelli che lo avevano blandito e che avevano proposto di conferirgli onori, furono sottoposti a giudizio: quelli che erano stati processati per varie accuse ed erano stati prosciolti vennero nuovamente messi sotto accusa e condannati in quanto prima erano stati salvati , solo grazie alla influenza di Seiano.
Molti di coloro, che vennero messi sotto processo, furono presenti alla propria accusa e sostennero la propria difesa e tra loro ci furono alcuni ,che fecero ricorso ad una estrema libertà di parola : la maggior parte, però, si tolse la vita, prima ancora di essere presa.
Ricorrevano a questo sistema soprattutto per evitare l'oltraggio e la tortura: infatti tutti coloro, che vennero sottoposti a tale accusa, sia cavalieri che senatori, sia uomini che donne, venivano incarcerati in massa e dopo essere stati condannati, alcuni venivano sottoposti alla pena direttamente, altri invece venivano precipitati dal Campidoglio dai tribuni e dai consoli ed infine tutti i cadaveri venivano trascinati nel foro, per essere gettati nel fiume: la maggior parte dei patrimoni, anche di quelli che non morivano in questo sistema, veniva confiscata.
Tiberio ora stava sensibilmente inclinando verso una politica di risparmio economico
Per questo motivo aumentò all ‘1% una certa tassa (precedentemente, nel 17d.C., aveva diminuito l'imposta sulle vendite a favore dell'aerarium militare ), che era fissata allo 0,5% , ed accettò qualsiasi eredità gli venisse lasciata: tutti per l'appunto, gli lasciavano qualcosa, anche quelli che si suicidavano esattamente come si faceva con Seiano, quando questo era ancora in vita.

Cassio Dione, Storia Romana, LVIII, 19, 2-4

 


Caphernahum

Shimon1viveva da quasi trenta anni a Caphernahum: tutti lo conoscevano e lui conosceva tutti.

Tutti quanti erano pescatori o addetti al lavoro sul pesce, tranne alcuni che erano artigiani, come il vasaio e il ciabattino, il fabbro ferraio, il falegname.

Con i pescatori convivevano poche famiglie di agricoltori, che erano alla periferia del paese, che scambiavano i frutti della terra con il pesce fresco, con quello salato e conservato.

C'era pure una sinagoga, dove la comunità si raccoglieva per la preghiera comune, per il commento della torah e dove i bambini andavano due volte alla settimana ad imparare a leggere e a scrivere, ad apprendere le storie e a cantare i salmi, sotto la guida del Hazan.2

Il paese era a ridosso del lago di Gennesareth, in un golfetto e circondava con le sue casette quel braccio di mare, abbracciandolo.

Al di là della fila di case, prospicienti il mare, passava la strada romana che era la via carovaniera che proveniva dalla Siria e scendeva verso l'Egitto da una parte e dall'altra univa Damasco e il mare fenicio. Oltre la strada, in linea retta, si snodavano casette, che avevano ognuna un pezzo di terreno alle spalle che gli abitanti coltivavano, anche se erano pescatori.

Il villaggio, posto ai confini, tra le due antiche tribù di Zabulon e Dan, sulla riva nord-occidentale del Lago, era abitato da popolazioni diverse, come tutta la Galilea, provincia famosa per la presenza di pagani, per il fanatismo religioso e per la bellicosità.

Come in tutti i paesi di Galilea si viveva promiscuamente: convivevano i giudei, discendenti di famiglie sacerdotali, che avevano colonizzato la zona durante il regno di Iamneo 3 e che formavano la maggioranza (comprese quelle famiglie di culto misto semiconvertite, più samaritane che ebraiche, che poco osservavano la legge e che non si curavano della interpretazione della scrittura) e i goyim, che avevano culti fenicio-siriaci, che erano la minoranza.

Ambedue i gruppi erano garantiti, nel culto, dalla legge e nel complesso cooperavano e erano solidali, anche se spesso scoppiavano risse per il fanatismo zelotico galilaico.

In tutto il villaggio c'era poco più di duecento famiglie, che convivevano: quelle di origine giudaica guardavano alla Giudea e a Gerusalemme; quelle, gentili, erano connesse con la cultura ituraica, fenicia e siriaca a seconda della provenienza.

Il piccolo numero di semigiudei, che erano circoncisi, ma non erano di origine sacerdotale, erano popolani che vivevano alla buona e che partecipavano saltuariamente al sistema giudaico, e con la loro moralità mista determinavano nella comunità grossi problemi perché erano l'ago della bilancia tra i due gruppi dominanti.

Essi erano gli eredi di quel regno di Israel, sconfitto da Sargon e non deportati, che si erano variamente mescolati con i vari popoli, che li avevano dominati nel corso dei secoli: assiri, babilonesi, persiani, macedoni, egizi, siriani, romani avevano lasciato qualche testimonianza del loro passaggio.

Erano israeliti, non giudaici, non erano, quindi, giusti perché incapaci di separarsi, nonostante l'esempio dei fratelli, che da più di un secolo vivevano fra di loro, coscienti della loro diversità perché figli di Dio, perché monoteisti, perché zelanti della legge.

Inoltre a sud c' erano i Samaritani, che professavano un credo eretico e che erano rispettati da Roma e dagli erodiani per il loro militarismo: essi formavano il nerbo delle truppe ausiliarie romane e delle guardie locali di Antipa e di Filippo, come misthoforoi (Mercenari).

I galilei odiavano i samaritani, che essi ritenevano non giudaici ma di origine meda e precisamente guthea. I galilei ricordavano questo, ma ingiustamente: erano origini remote e solo di una parte della popolazione e i fatti erano arcaici, del periodo di Sargon II, nell'ottavo secolo.

Ora, però, avevano motivi reali di odio: essi erano al soldo dei nemici, pur essendo considerati giudei, anche se scismatici; i galilei li odiavano soprattutto perché, essendo passati attraverso le loro stesse vicissitudini storiche, avendo subito deportazioni e colonizzazioni feroci, nel periodo dei Maccabei4 erano stati colonizzati secondo la morale farisaica gerosolomitana, ma, in epoca romana avevano tradito il credo comune ed avevano apostatato, riprendendo un loro culto e ricostruendo un proprio tempio sul monte Garizim.

E li odiavano tanto da non passare neanche per il loro territorio, pur comodo: facevano la via, che seguiva il corso del Giordano fino a Yericho, prima di iniziare la salita per Gerusalemme.

Shimon conosceva tutti i paesani, di tutti era amico e da tutti era rispettato specie nella comunità, tutta giudaica, di pescatori ,dove godeva di un certo prestigio ed odiava i samaritani, come gli altri.

I pescatori da decenni erano uniti ed erano affratellati non solo per le parentele, ma erano accomunati dallo stesso lavoro, dai pericoli comuni e da una sorta di cooperativa per la conservazione e l'essiccamento del pescato, voluta ed accettata da tutti, dominata economicamente dalla famiglia di Tzebedeh,5 che viveva agiatamente, ma, certo, non poteva competere con le grandi società pubblicane, che controllavano il territorio: le compagnie romane e le comunità regali e templari schiacciavano l'iniziativa privata, che veniva ridotta a manovalanza.

I pescatori, perciò, si erano congiunti e formavano una comunità, in cui i capifamiglia prendevano le decisioni circa la divisione del lavoro, stabilivano la ripartizione degli utili, l'utilizzazione delle donne,gli aiuti alle vedove, la funzione dei diakonoi (assistenti): le riunioni dello Shabat, del sabato, le feste, le nascite, i matrimoni le morti, le malattie, cementavano quei nuclei familiari, già incrociati per sangue, dato l'obbligo di matrimonio tra loro.

I pescatori poi erano concordi nella politica antierodiana ed antiromana a causa della tassazione del pesce conservato, e in questo erano solidali con i contadini dell'entroterra, anche loro ferocemente tassati.

Erano questi ultimi piccoli possessori di terra, di origine pagana, i cui antenati avevano avuto come clerouchoi, (coloni che hanno ricevuto in sorte una porzione di terreno conquistato in guerra) in dono, porzioni di terreno regale da Erode il grande o anche dagli Asmonei 6 e che, dovendo pagare tributi sulle merci agricole vendute e dovendo competere con i prezzi della grandi aziende, andavano riducendosi di numero e vendevano il loro terreno.

Le tasse, infatti, aumentavano progressivamente ed erano passate dalla duecentesima alla centesima: negli ultimi dieci anni, il tetrarca aveva raddoppiato la tassazione sugli alimenti, attirandosi l'odio della comunità composita di Caphernahum e di tutte le altre della Galilea.

Egli deteneva il monopolio dell'esportazione del balsamo di Perea e di Gerico, che cedeva qualche volta a Matthaios 7 rappresentante di Callisto 8, e normalmente alla compagnia di Pallante 9 che operava per conto di Antonia, che, d'altra parte controllava quasi tutto il traffico costiero, grazie a Capitone, che gestiva le ex terre di Salome, passate a lei, dopo la morte della Diva Augusta.

Così facendo, Antonia però si era attirato l'inimicizia di Callisto, che rappresentava alcune famiglie senatorie, filoclaudie, le cui compagnie rivaleggiavano in tutto l'oriente con quelle dell'Alabarca di Alessandria. I pescatori della zona, dunque, erano stritolati dalle tasse, che erano riscosse proprio da pubblicani, agenti sia di Pallante che di Callisto, che svolgevano inoltre attività commerciali con gli stessi tributi, riscossi.

Le famiglie di Cafarnao, dunque, quasi tutte della stessa condizione sociale, vivevano del loro lavoro e nei mesi invernali si dedicavano a servizi di rattoppamento delle reti e della manutenzione delle barche o a servizi agricoli, come la raccolta delle olive: comunque, pur se si aiutavano reciprocamente, erano in uno stato di miseria. Specie le masse contadine semigiudee e pagane che coltivavano, pur essendo libere, la terra di Erode Antipa,che era di circa 2960 arourai, 10 morivano di fame: il re esigeva un phoros (tassa) annuale e lasciava loro coltivare la sua terra, servendosi della forza lavoro dei contadini e concedeva solo parte dei raccolti, quanto poteva bastare per sostenerli in vita.Inoltre alcune parti erano assegnate a servi del re (diokountes), che schiacciavano ancora di più i contadini e i lavoratori salariati, che avevano una casetta in paese, abituati a vivere di mezzucci, pur di campare. Una grande azienda era di proprietà del Tempio, gestita da un pubblicano, apostata, un levita, che era esoso con tutti i lavoratori e con i contadini.

Era questa la zona migliore di Caphernaum, detta Eptapegon, perché era piena di fonti e precisamente di sette sorgenti, che irrigavano le campagne e le rendevano rigogliose.

Era la parte migliore della chora galilaica, di circa 2240 arourai, tutte coltivate a frutteti.

Chiaramente in tale condizione di miseria, il potere dei sacerdoti e quello degli erodiani era sempre odioso, ma in alcuni momenti era intollerabile, data anche la pressione dei romani, che esercitavano la loro iustitia con la richiesta di denaro, con la protezione, pagate con lo stupro delle loro betulloht e con staffilate, in caso di ribellione.

La propaganda zelotica dei figli di Giuda il Gaulanita11 aveva buona presa su tutta la popolazione.

Yakob , Shimon e Menahem, i figli di Giuda, erano passati per Caphernahum ed avevano attirato molti adolescenti che li avevano seguiti in Traconitide per l'arruolamento, dove fingevano di lavorare presso loro parenti.

Era facile vedere, dunque, razzie da parte di zeloti, che rubavano nella azienda di Erode o depredavano Matthaios, l'apostata, mentre soldati romani, inerti, assistevano ai latrocini e a volte alle stragi, ridendo della selvaggia azione brigantesca e godendosela del sangue fratricida versato: solo raramente qualche zelante decurione o centurione faceva caricare le masse contendenti ed accarezzava le schiene degli uni e degli altri, lasciando anche cadaveri sul loro cammino e ripristinava l'ordine; d'altra parte, i romani avevano castra alla periferia nord di Cafarnao, dove stanziavano due coorti, che assicuravano il flusso di merci passanti per la via del mare.

In tale clima di lotte fratricide si alzava continua la parola degli esseni, ascoltata e venerata da tutti.

La predicazione degli Esseni, basata sulla penitenza e sulla fiduciosa attesa dell'arrivo di un meshiah arrivava fino a Caphernahum, portata da amici commercianti, da farisei inviati da Gerusalemme per i controlli, da esseni di passaggio, o sentita con le proprie orecchie durante i tre rituali viaggi annuali per le festività al Tempio. La famiglia di Tzebedeh era la meglio informata sul pensiero esseno perché aveva più possibilità di rapporti e di viaggi in quanto era proprietaria di molte barche e fornita di un sistema di pesca più aggiornato, di tipo fenicio e perciò, aveva un giro di affari notevoli anche in Giudea e in Perea: nei suoi fondaci, posti in quasi tutto il bacino del lago, si discuteva non solo di merci ma anche dell'avvento del Meshiah.

I suoi due figli Jakob e Johanan, con le barche, oltre a pescare, giravano e coordinavano il lavoro gestito da servi fedeli, che assicuravano una vendita al minuto a Tarichea e Tiberiade.

Grazie al contributo morale degli esseni e al lavoro di Tzebedeh, si era formata una comunità di famiglie, che aveva le stesse regole dei giusti che vivevano a Lazhar Damash 12: le famiglie avevano messo insieme i loro beni, si erano dati compiti per i vecchi, per i giovani, per i ragazzi, per le vecchie, per le giovani e per le ragazze.

Essi avevano oltre alla sinagoga, un consiglio di vecchi, un deposito, un luogo di raccolta generale degli uomini che avevano diritto di voto: accanto, però, c'erano le donne adulte che partecipavano, mute ,senza diritto di voto, separate da un muro di un sei cubiti; esisteva un consiglio ristretto di capi, che si riuniva mensilmente e stabiliva il lavoro per tutti, ma anche la difesa della comunità e le

linee di commercio e che presentava puntualmente il rendiconto di ogni attività.

Erano dodici i mebaqer (ispettori), che guidavano i settori della attività e a capo c'era un sacerdote, Jahir 13; e una volta all'anno si riunivano, in assemblea plenaria, i capifamiglia, nella festa delle primizie, cinquanta giorni dopo la Pasqua, in cui si faceva la situazione della comunità, si confermava il posto ad ogni mebaqer o lo si toglieva, si faceva di nuovo il giuramento di separarsi dalla comunione con i goyim, coi quali però bisognava essere in pace, di tenersi lontano dai peccatori, di combattere i figli del male, di vivere con umiltà fruttuosa, con amore benevolo, diosservare le mitzvòth14.

E soprattutto si proclamava di nuovo la propria adesione con la formula noi offriamo il nostro essere( mente, mani e beni) alla comunità, e si diceva: noi siamo fratelli.

La comunità aveva vincoli di unione fraterna e di subordinazione rigida ai capi e perciò costantemente si ribadiva la formula in altro modo: gli inferiori dovranno obbedire e nel lavoro e nella spesa di denaro, i superiori dovranno mangiare in comune, benedire in comune e mangiare in comune. Alcuni, però, avevano compiti speculativi e contemplativi: uno ogni dieci dovrà scrutare la legge giorno e notte e tutti i maschi devono un terzo di ogni notte (una delle 3 vigiliae) passare a leggere il libro, a indagare il diritto, a benedire in comune.

Shimon era entrato nella comunità dal momento della formazione ,in quanto essa si era costituita quando ancora era vivo suo padre, poco dopo la esautorazione di Archelao, quando gli esseni di Damash, avevano scelto alcuni giovani della Galilea e li avevano accolti nel loro numero e avevano organizzato l'edah (la comunità) di Caphernahum.

Shimon sapeva di essere un focoso e zelante fedele della legge, ignorante e manesco, di stare benino rispetto alle altre famiglie perché aveva una casa, un orto e la barca, con cui lavorava con suo fratello Andreas, che viveva con lui.

La casa, pur grande, costruita con grosse lastre di basalto nero, era piccola per la suocera, la moglie e i cinque figli e per Andreas, che da qualche mese si era sposato con Liah ben Eleazar: era la casa di Johna, suo padre, famoso per le sue imprese sul mare e per le sue beffe ai romani.

La famiglia viveva nel nome di Adonai e la gioia riempiva i cuori di tutti: Shimon non aveva pace fino a che i romani erano padroni sulla terra giudaica ed ogni mattino sperava che Dio facesse sorgere il sole della liberazione di Israel.

Egli aveva rinunciato alla sua indipendenza e aveva dato i suoi beni, le sue forze, la sua attività a favore della comunità, come ogni altro capofamiglia, anche se viveva nella propria casa.

Partecipava alle riunioni, come gli altri, ed era un mebaqer, riverito e teneva la carica da un decennio. E quella mattina aveva svegliato Andreas e poi con altri 11 amici, vicini e parenti, aveva detto le preghiere di ShaHrith ed era andato al lavoro.

 

Il naufragio

Shimon era stato in mare tutta la giornata, una giornata di sole, senza una nuvola.

Quel pomeriggio di aprile (ljàr), era stato ricco di pesca per tutti i pescatori del lago: festante Johanan dalla sua barca salutava Shimon per tornare a casa e lo avvertiva :

A casa, Shimon! Andiamo a casa! presto ci sarà un temporale, un temporale senza nuvole.

E ridendo, Jakob si allontanava, passando accanto, con un carico che appesantiva la barca.

E luminoso padron Tzebedeh, con la terza sua barca, quella più grande, gli passava a fianco e salutava con i suoi due marinai.

Shimon invece era mesto: non aveva pescato quasi niente e malediva quel lago, se stesso, stando in mezzo al barcone, su cui torreggiava con le sue spalle muscolose e col suo muso ingrugnito, inghirlandato da una folta barba nera, squadrata.

Sulla poppa stava ad armeggiare con un argano difettoso Andreas, il giovane sposo, anche lui un sansone, potente e riccioluto, che sorrideva sempre.

Tutti conoscevano i figli di Johna, la cui storia di pescatore e di zelota era diventata leggenda tra gli abitanti del lago di Gennesareth: erano uomini che sapevano affrontare con forza chiunque da soli, che conoscevano il mare e che osavano più degli altri, che lavoravano come bestie perché più sfortunati e più forti.

Andreas, noi, come sempre, non abbiamo pescato niente: il mare davanti a noi sembra nascondere i pesci e spingerli nelle reti altrui. Sia fatta la volontà dell'Altissimo!.Gli altri sono già tornati a casa: noi dobbiamo continuare: torneremo a notte: io devo sfamare tante bocche e tu hai la moglie giovane, dobbiamo pescare ancora.Noi siamo Cefa, non possiamo fare brutta figura davanti alla comunità, che attende il frutto della nostra fatica: io ho anche un dovere comunitario.

Così aveva parlato Shimon al fratello nervosamente, un po' abbacchiato ed Andreas aveva subito annuito, ma aveva precisato che Johanan di solito non sbagliava e che quel benedetto figlio di Tzebedeh, anche se così giovane aveva la saggezza di un vecchio, vedeva sempre prima degli altri e il mare lo conosceva come nessuno.

Lascia perdere il figlio di Tzebedeh! Quello parla perché ha ricchezza, perché ha fortuna, perché si sente nabi! e sorrideva ripensando ai discorsi col giovane sognatore, che lo coinvolgeva nei suoi sogni e che era solito placare la sua rabbia contro il mare, contro i sacerdoti del tempio e contro i kittim (i pagani in genere).

Shimon sentiva ancora il ritornello finale di Johanan: Cefa, Cefa, presto ci sarà il regno dei Cieli e gli ultimi saranno i primi, calmati, calmati: le tue speranze e quelle di Israel sono ormai realizzate e lo vedeva sorridere estasiato.

Quel figlio di Tzebedeh era la sua dannazione e la sua pace.

E con Andreas si era spinto verso il centro del lago: avevano di nuovo calate le reti, ma già una nuvola sospetta a nord, si era condensata, minacciosa.

Anche il vento era cambiato: non più la leggera brezza, che veniva da terra e che gonfiava la vela, ma folate gelide arrivavano dal monte Hermon, che facevano sbandare la barca e quasi la giravano, investendola di fianco.

Andreas non parlava, ma si capiva da molti segni che era inquieto: si muoveva spesso, prendeva ora una cima, ora un uncino senza motivo, ma soprattutto guardava a nord quella nuvola, come se la sorvegliasse.

Shimon conosceva quel mare da più di trenta anni, da quando suo padre l'aveva portato con sé la prima volta, decenne. Allora il lago non era suddiviso in parti: era tutto sotto il regno di Erode: mica se lo contendevano i suoi due figli, i tetrarchi filoromani: si poteva pescare dovunque!

Suo padre sempre gli aveva detto di diffidare di quel lago. E' strano come un cane bastardo: ora ti lecca, ora ti morde; ora è la tua gioia, ora la tua disperazione, ora è liscio, ora s'infuria all'improvviso.

Anche lui in cuor suo cominciava a temere: le folate di vento ora erano violentissime ed una più improvvisa e forte squarciò la vela e fece cadere la pesante sbranca, appesa, su Andreas, che si era già precipitato per calarla giù.

Fu un attimo e Shimon vide in un attimo Andreas impallidire, svenire e cadere come un sasso con la faccia, rigata di sangue. Abbandonò il timone, corse presso il fratello esanime, lo scosse, lo tastò, intuì che era vivo e ritornò trafelato al timone.

Il timone ormai non serviva più: le raffiche di vento sempre più impetuose spingevano la barca verso la sponda orientale del lago: flagellato dalle raffiche e dalle ondate, sotto una pioggia scrosciante e su quel guscio di legno Shimon era impietrito: non era paura né del mare, né della morte; era uno stato di incoscienza e di sopore che lo prendeva nelle occasioni difficili e critiche; era come se il suo spirito fuggisse dalla realtà e si rifugiasse lassù, nel cielo, presso il padre Yhona, il padre Abraham: eppure tutto era buio e il cielo neanche si vedeva.

Rimase a lungo in quella posizione, attaccato al timone inutile, mentre la barca danzava una danza misteriosa, ora si abbassava, ora pencolava, ora si alzava: neanche pensava a sé, né ad Andreas che ora si lamentava, né ai figli e alla moglie.

Un lampo improvviso, seguito da un tuono, lo riscosse:si vide perduto, capì che la barca andava per sua fortuna verso Betsaida, improvvisamente illuminata, comprese che la salvezza poteva essere a portata di mano perché la costa non era lontana.

Bisognava giostrare in modo che la barca non si rovesciasse: suo padre gli aveva sempre detto che in caso di pericolo l'albero era la salvezza: ogni operazione contro vento era sbagliata: la regola era assecondare il mare e restare aggrappati all'albero.

Carponi avanzava, quasi nuotando per ritrovare Andreas, che già si era aggrappato alla base dell'albero: lì i due fratelli si strinsero: la loro salvezza era lì: nulla l'uomo poteva contro l'infuriare del mare e del vento. In quell'attesa Shimon si stringeva il fratello, timoroso che potesse mollare la presa: sentiva perfino il battito del cuore impazzito, vedeva di tanto in tanto la ferita, che pur profonda, già si era rappresa, calcolava che era niente per uno come Andreas, per un cefa.

Ora non imprecava né contro il mare, né contro Dio, anzi si riproponeva che se si fosse salvato, sarebbe andato da Jhair, alla sinagoga: la preghiera ora serviva.

Guardava fisso verso la costa: non che aspettasse aiuti: nessuno si muoveva con quel tempo; tutti erano nelle loro case al sicuro, anche Johanan: quel caro ragazzo, quel sorridente nabi bisognava ascoltarlo di più: in lui c'era Shaddai.

Andreas improvvisamente esclamò: Shimò, guarda, il cielo si è aperto, siamo salvi!

Salvi, mormorò Shimon; Salvi, ripeté Andreas.

Solo allora si accorsero che il vento ormai era cessato quasi del tutto e che le bordate non facevano più ballare la barca: il mare era ancora mosso, ma non era più pericoloso.

Shimon ora era allegro, sentiva che la vita gli apparteneva ed avvertiva un senso di piacere, perfino nel respirare, senza la paura della morte, ma Andreas subito lo riportò alla realtà: Shimon siamo nella tetrarchia di Filippo: saremo imprigionati e dovremo pagare secondo legge: noi pescavamo in acque straniere!

Shimon si fece pensieroso e mostrando una sicurezza che non aveva, aggiunse: sarà quel che sarà: diremo che siamo stati sorpresi dalla tempesta: potranno condannarci a due settimane di lavoro e poi ci rilasceranno: pensiamo intanto a toccare terra: siamo salvi: la vita è la vita.

Ora potevano remare e in due, con meno di un'ora, arrivarono alla spiaggia di Betsaida, che non mostrava segno di tempesta. Aveva proprio ragione nostro padre! commentò Andreas.

Shimon scuoteva la testa, mentre tirava a secco la sua barca, aiutati da pescatori, che si erano fatti avanti e davano una mano, benedetti da Andreas che, pur ferito, ringraziava ognuno e Adonai, per aver fratelli anche nella parte opposta del lago.

 

Filippo, l'altro re

A Betsaida i due avevano trovato non solo fratelli.

A Shimon era stata sequestrata la barca dai sebasteni del tetrarca, secondo un editto del tetrarca , che contemplava il sequestro delle barche e l'arresto per i marinai, che pescavano in acque non proprie.Essi venivano condotti in prigione tra la compassione di alcuni, che conoscevano Shimon.

Si veniva rilasciati, però, se si pagava la multa, in caso contrario si richiedeva il lavoro per una settimana: era un modo di essere clemente, degno di un buon principe.

Andreas si diceva fortunato: hai detto due settimane ed invece tra sette giorni rivedrò la mia Liah.

Il giovane camminava spedito verso il lavoro, mentre Shimon, spinto da una guardia era furioso perché doveva lavorare per altri, per giudei romanizzati e traditori: lui non sopportava per natura nessun padrone, si sentiva libero come l'aria e si ribellava istintivamente ad ogni sopruso: avrebbe preso quel sebasteno per il collo e gli avrebbe fatto un servizio coi fiocchi.

Comunque, avanzò di qualche passo e si mise accanto al fratello, mentre la colonna di operai era quasi arrivata a destinazione.

Si costruiva un palazzo lungo le rive del lago, su una dorsale appena pronunciata, che gradatamente si tuffava nel mare, tutta ricoperta di pini di Aleppo e di cedri.

Shimon ed Andreas furono subito scelti da un lithologos, come spaccapietre: furono date loro delle mazze, con le quali dovevano spaccare dei blocchi enormi e formare dei cubi di circa un cubito di lato, che poi venivano pianeggiati e martellati da scalpellini, che erano una squadra di italici liberi, pagati dal Tetrarca e fatti venire dall'Etruria, che parlavano una strana lingua tra loro, incomprensibile perfino all'architetto, che sovrintendeva ai lavori.

Già erano stati fatti le fondazioni e il primo piano: era una costruzione imponente: la chiamavano Villa regia. Shimon, rozzo come era, era sbalordito di fronte all'imponenza delle dimensioni: bofonchiava e brontolava tra sé, pensando allo sperpero di denaro e alla tassazione, che si ripercuoteva sui cittadini: è bello come il Tempio, luogo di preghiera, utile, però, solo al tetrarca, superbo e spergiuro, come tutti gli erodiani; è una costruzione bagnata dal sudore e dal sangue di tanti infelici.

Il Galileo non aveva mai visto niente di simile a livello pubblico e privato nella zona palestinese, dove egli operava: quella fila infinita di colonne su due linee, con quegli archi regolari gli dava il senso di misterioso e di divino.

Per lui la villa era un qualcosa di sacro, un tempio, l'unico edificio grande e maestoso da lui effettivamente conosciuto. Eppure aveva visto nascere il palazzo di Antipa a Tiberiade, che però era più modesto, perlomeno alla base.

Era agitato e nervoso pensando che privati potessero avere costruzioni simili a quelle divine e che dei piccoli re potessero aspirare superbamente a confrontarsi con Dio.

Era adirato soprattutto perché così scompariva la vecchia Betsaida, luogo a lui caro.

Andreas lo sorprese con la sua ingenuità: Meglio Filippo che Antipa! Gli erodiani gareggiano nelle costruzioni a spese nostre, Shimon; meglio Filippo, però! dicono uomo moderato e benevolo, che tassa poco i lavoratori e che ha buoni rapporti col suo popolo, che viaggia con pochi amici senza fasto, che è giusto nelle sentenze, che è pronto ad aiutare ogni bisognoso, che libera da soprusi gli oppressi! Dicono pure che fa trionfare la giustizia e punisce inflessibilmente i delinquenti.

Adonai l'ha punito, comunque; giusto non è: non ha figli! aveva sentenziato, cattivo, il fratello.

Ed aveva ripreso a spaccare un blocco di travertino in due parti, ma non sapeva frenare la ridda di pensieri, che si affollavano convulsamente nella sua testa: a loro non costa niente, fanno un editto ed aumentano le tasse; e se il popolo non paga, mandano i maledetti sebasteni con i pubblicani a riscuotere! E noi lavoriamo per la loro gloria e ricchezza: noi, i figli della luce, noi i destinati a regno! e noi soffriamo per il loro piacere, maledetti idumei!

E così pensando, dava un colpo di mazza impressionante, che spaccava in due il blocco, il quale si apriva come un tronco d'albero, tagliato da un'ascia, facendo un rumore, che sembrava volere testimoniare la rabbia dello spaccapietre, tanto che faceva girare il sorvegliante e che costringeva Andreas, che ben leggeva le azioni del fratello, a suggerire prudenza: Shimo', che imprechi! Ti possono sentire: non vedi quanta gente: una settimana passa in fretta: che ci fa a noi, cefa, questo lavoro; a me non fa più male neanche la ferita.

E sorrideva il giovane per sdrammatizzare e cominciava a fischiettare, dopo aver soggiunto: oggi, mangiamo bene: mi hanno detto che passano pane e capretto perché arriva Filippo da Cesarea, la capitale del nord! Vedrai, vedrai! Che fortuna!

Questo ragazzo vede sempre l'aspetto bello di una cosa e sa ridere commentava fra sé Shimon, il quale andava rimuginando che il fratello aveva ragione, che sapeva vivere meglio, che era più intelligente e si rimproverava perché era sempre furioso e poco prudente.

Filippo era figlio di Erode e della sua quinta moglie, Cleopatra di Gerusalemme, che aveva avuto un ruolo minore tra le donne della corte, dominata dopo la scomparsa di Mariamne di Hircano, dalle idumee Doris e Salome, rispettivamente prima moglie e sorella del re, soppiantate nel corso dell'imprigionamento e dopo la morte di Antipatro, da Maltace la Samaritana, che aveva imposto i suoi due figli come eredi al trono, Archelao ed Erode Antipa.

Alla morte di Erode il grande, c'erano state dispute per la successione tra i due figli di Maltace e Antipatro, primo figlio di Erode avuto da Doris, quando era privato cittadino, che era stato inizialmente allontanato insieme alla madre dalla corte, dominata da Mariamne.

Poi dopo la morte della regina asmonea, Erode aveva richiamato Antipatro, che aveva tramato contro i suoi due fratelli Alessandro ed Aristobulo, dichiarati eredi al trono, tanto da farli condannare a morte dal padre, dopo un processo a Roma.

Antipatro, divenuto erede, fu fatto uccidere dal padre pochi giorni prima della sua morte perché aveva goduto, a detta di cortigiani, del titolo regale e della presunta morte di Erode, collassato. Augusto aveva convocato a Roma tutti i contendenti con i loro patroni e consiglieri, aveva aperto il testamento ed aveva sancito (dopo lunghe perplessità e qualche incertezza sull'opportunità di mantenere l'assetto regale o inglobare il territorio giudaico all'imperium) di assegnare il titolo di Basileus ad Archelao e di dividere in altre tre porzioni l'ex regno erodiano.

Ad Erode Antipa fu data la Galilea e la Perea, a Filippo la Iturea, la Batanea, la Traconitide, la Gaulanitide, l'Auranitide e a Salome15 Ioppe, Azoto e paesi costieri.

Chiaramente la corte romana aveva favorito Archelao, che aveva pagato ingenti somme per la sua elezione di re, che comportava la superiorità rispetto agli altri e un patrimonio doppio.

All'epoca erano avvenute rivoluzioni in ogni parte della Palestina, che erano esplose dopo un lungo periodo di guerriglia più o meno palese.

Era l'epoca dell'apographé, in cui Quirinio16 aveva fatto iscrivere i capifamiglia nella città di origine, poi verificata da Sabino: fu la scintilla che fece scoppiare la rivoluzione.

Quintilio Varo 17come governatore di Siria, represse ogni focolaio di giudei che combattevano per

l'indipendenza della patria: uccise Shimon che in Perea aveva riunite bande che erano avanzate fino Yeriho, intenzionati ad assalire Erodion; fece crocifiggere il pastore Atrongeo, che, coi suoi quattro fratelli, aveva aspirato alla corona ed aveva provocato danni incalcolabili ai romani; e soprattutto tentò di prendere in Galilea, Jehudah il Gaulanita, che aveva fatto irruzione negli arsenali reali a Sephoris e con le armi romane aveva assalito i nemici.

Shimon ricordava poi come la Giudea insorse quando fu esautorato Archelao: giunse il procuratore romano Coponio e dalla Siria era venuto con numerose truppe Quirinio per imporre il pagamento sulla base della avvenuta registrazione.

Egli ricordava bene la mobilitazione generale di ogni adulto di Galilea: anche suo padre Jhona e moltissimi altri galilei, solidali, avevano preso le armi ed avevano sostenuto Giuda e il fariseo Sadok, che avevano iniziato una vera e propria guerra di liberazione gridando Adonai è il nostro signore ed è schiavo chi si lascia valutare e registrare: i figli del regno non pagano.

Shimon conosceva la storia; ogni giudeo la conosceva: e lui la raccontava ogni sera ai suoi figli, che facevano domande, sulla loro origine, sui loro avi, sul nonno Johna e a Pasqua uno dei vecchi la raccontava durante il seder (cena pasquale).

Ora sapeva che il tetrarca di Iturea abitava durante l'inverno al Panion, che era l'antico nome di Cesarea, città posta sotto il monte Hermon, che godeva di un clima mite e per le sorgenti d'acqua e per la posizione in una conca, riparata dai venti gelidi di tramontana.

Suo padre Jhona la conosceva bene e diceva che era un parco naturale, un paradiso.

Il vecchio gli aveva raccontato che fu costretto ad andare a lavorare per costruire Cesarea al tempo di Erode, che celebrava quel luogo, come se in esso aleggiasse uno spirito divino.

I romani ed Erode infatti favoleggiavano che lì abitava il dio Pan, un dio caprone, cosa che faceva ridere i ragazzi e faceva ammutolire le donne, che si tappavano le orecchie, come se il vecchio Cefa bestemmiasse, anche perché aggiungeva particolari osceni alle descrizioni.

E Shimon dai vecchi aveva saputo che la residenza reale era in un palazzo, simile al Cesareo di Gerusalemme, posto in una zona, dove si apriva un'immensa caverna, al cui centro c'era una conca di una diecina di cubiti di diametro, le cui pareti, a perpendicolo, sprofondavano in un abisso al cui fondo, nemmeno visibile ad occhio nudo, si avvertiva il rumore come di una cascata di acqua.

E da lì, secondo i vecchi, il Giordano nasceva e da li provenivano tutte le sorgenti che irrigavano il paradiso e i luoghi boscosi del Panion.

Filippo stava per arrivare e tutti i lavoratori erano elettrizzati: era aumentata anche la sorveglianza dei guardiani, era diventato ossessivo il controllo dei lithologoi.

Shimon lavorava sodo e guardava un gruppo di portatori di legname, schiavi, spesso scudisciati, volti senza speranza, i soli che sembravano non godere dell'arrivo del tetrarca: per loro ci sarebbe stato come sempre, un tozzo di pane con brodaglia nera.

Filippo arrivò scortato da un centinaio di cavalieri galati, seguito da una carovana di carri e di cocchi , su cui erano le donne di corte, la moglie, le concubine, cuochi, coppieri, palafrenieri, paggi, per ultimi giunsero i funzionari coi loro figli, mentre guardie traconite formavano la retroguardia.

In breve si era radunata una folla di cittadini, che festeggiava con lulav (un mazzo di rami di palma, uniti a verghe di salice e di mirto, congiunti a pezzi di cedro), che stendeva mantelli e gridava osannah (aiutaci).

Anche gli spaccapietre, contagiati dalle grida della folla gridavano osannah.

Ancora di più imploravano gli schiavi, disperati: osannah.

Il banditore, al cenno di una mano, fatto suonare il corno, intimò silenzio.

Da una torretta di sorveglianza servi con canestri gettavano denari, frutta e pane: sorsero zuffe per accaparrarsi ciò che veniva gettato: Andreas beccò un denario e se lo infilò sotto la pianta del piede.

Shimon fece uno sputo, di disprezzo: lui non mangiava l'elemosina dei goyim, né si abbassava a raccogliere il loro soldo: lui era un puro.

Il sovrano, con la mano benedicente, uscì dalla portantina: veniva fatto passare in mezzo alla folla plaudente, scortato da guardie e da architetti fino ad uno stadio dalla costruzione.

Il tetrarca decise di scendere per visitare personalmente la sua opera e per ammirarla nella sua grandiosità: si era fermato in un ampio parco, che formava con cedri e pini una specie di anfiteatro, pianeggiante, attraversato da una strada, che portava in leggera salita al centro della facciata della villa marittima: era un omaccione, malfermo sulle gambe, con tiara e con tanti bracciali sulle braccia flosce.

Da lì il re poteva vedere l'insieme architettonico e valutare la sua opera e giudicare la corrispondenza tra disegno e realizzazione.

Rimase vivamente impressionato e fu entusiasta e soddisfatto del lavoro fatto.

La costruzione aveva forma di parallelepipedo rettangolare, il cui lato lungo era di 270 cubiti e quello corto di 180: al centro di quello lungo c'era una rientranza di 20 x 30 cubiti, formanti un portico, che costituiva l'ingresso.

Tutta la facciata era impreziosita da una doppia fila di colonne corinzie, che diventavano di quattro file al centro, nel portico.

Le file di colonne a destra e a sinistra cessavano, ma, ad angolo retto, idealmente proseguivano con cedri che formavano una U squadrata, attraversata al centro da una strada lastricata in travertino, larga trenta cubiti, come il portico.

Simmetricamente al centro delle linee rette, parallele della U erano stati costruiti due ninfei.

La massa degli operai stava lavorando dietro le aste parallele della U dove si costruivano un odeion e un teatro.

All'interno sui due lati c'erano due porticati largo 10 cubiti e poi stanze per i vari usi di 10 cubiti a destra e a sinistra.

La parte compresa interna tra le due ali di circa 230 cubiti era costituito da giardini nei due lati, mentre la parte mediana per tutta la lunghezza aveva due corpi: il triclinio estivo e la fontana.

Il triclinio era formato da un semplice pergolato, sorretto da una struttura lignea, ancora da ricoprire con vitigni. La fontana occupava la parte ultima fino alla parete, che chiudeva il palazzo con il lato parallelo, lungo, del rettangolo, anch'essa fornita da un porticato antistante, dove finiva la strada lastricata con un portone di cedro enorme, che immetteva nel parco, costituito dal sottobosco del colle, preceduto da un'esedra.

Filippo guardava estasiato l'insieme e si congratulava con l'architetto capo, che dava spiegazioni anche sulle due torrette prospicienti il mare, sulla facciata orientale, che erano state situate al centro dei due lati, di 120 cubiti, interrotti dal portico.

Filippo nella visita interna del palazzo, sorretto da parenti, faceva passi lenti e misurati tra esclamazioni di giubilo, segnate da grida di approvazione: il sovrano rimase ammirato della funzionalità del triclinium e della sua maestosità, dalla bellezza delle camere e dai pavimenti a mosaico.

Quando il tetrarca riuscì dal palazzo, radioso, di nuovo fu applaudito dal popolo e di nuovo ci furono elargizioni. Poi ordinò che si desse vitto per gli operai e per gli schiavi, come aveva detto Andreas, che ora ammiccava.

Accanto alla costruzione del palazzo, cresceva anche la città di Giuliade, così chiamata per onorare Livia Giulia, madre di Tiberio, morta da poco.

Filippo volle salire sulle torretta sud , da dove si poteva vedere il lago in tutta la sua bellezza, fino a Tarichea e constatare di persona come andassero i lavori di costruzione della città.

Le quattro casette, appollaiate sul golfo orientale del lago ancora si vedevano, ma ormai apparivano come qualcosa di folclore rispetto alla città nuova, squadrata, ellenistica.

Sembravano tanti cubetti imbiancati di calce, ora accostati, ora separati ed erano su un poggio, mentre la neapolis, racchiusa in poderose mura della lunghezza di 15 stadi, già era quasi completata, ed era situata sulla riva del lago.

Filippo vedeva distintamente gli edifici cardini della sua città.: l'ippodromo, l'agorà, il tempio di Tiberio, la basilica, il ginnasio.

S'informò anche circa la popolazione, venuta dai paesi vicini, sulle personalità che avevano accettato di domiciliarsi e sulla suddivisione delle terre.

Quella prima giornata di lavoro era passata presto sia per l'arrivo di Filippo e per la pausa che era stata piuttosto lunga, che per il lungo giro prima dell'assegnazione del lavoro.

Comunque, la giornata lavorativa per un libero era di 10 ore ed andava dall'ora prima fino alla decina con una pausa per l'aristodeipnon, una colazione: la cessazione era segnalata dal suono di un corno: mentre gli operai smettevano, gli schiavi facevano altre due ore prima di essere riportati in uno squallido dormitorio, dove della paglia faceva da letto.

Shimon ed Andreas, invece, venivano portati in una prigione, che era situata nell'interno della casa nella parete parallela al lato lungo del rettangolo, nell'angolo sinistro, dove c'erano due finestre che guardavano verso il colle: erano una ventina di uomini scortati da due sebasteni; avevano attraversato il portico, rasentato il triclinium estivo e la piscina, poi avevano svicolato tra una doppia siepe di bosso ed erano arrivati a destinazione.

Mentre attraversavano la parte interna, Shimon rivolgeva occhiate significative ad Andreas che testimoniavano la rabbia contro la ricchezza e lo sfarzo dei re ellenisti e il proprio disgusto contro i costumi romanizzati, specie perché incontravano statue di dee nude, di Amorini, impudici e lascivi: Andreas leggeva tutta la disapprovazione e il dolore del fratello per la vista di tanta abiezione e temeva qualche rabbiosa manifestazione di ostilità.

Andreas sbuffava temendo qualche gesto inconsulto, ma pensava che ormai la prigione era vicina. Infatti dopo pochi passi, entrarono in una grande stanza, forse da adibire a magazzino e per allora facente funzione di prigione: lì giunti i due si sistemarono.


Uno zelota

In prigione trovarono già altri detenuti, che erano arrivati prima, dopo aver svolto altri incarichi.

Shimon si era subito accaparrato l'aria di una finestra e si era rifugiato col pensiero verso gli alberi della collina per potersi separare dagli altri per una preghiera personale a Dio, in direzione di Gerusalemme, non potendo fare quella corale ed aveva invitato Andreas ad avvicinarsi.

I due poi si erano rivolti a guardare gli altri prigionieri, che erano nello stanzone: erano uomini diversi per abiti, per lingua e per formazione e per provenienza e perfino per crimine.

C'erano due zeloti e un pubblicano, che a loro sembravano più famigliari rispetto ad altri siriaci e Batanei: la ristrettezza del luogo e la solidarietà tra uomini dello stesso pensiero determinano occasione di colloquio e una volontà di comunicazione specie in situazione di difficoltà e di miseria.

Andreas poi giovanilmente era desideroso di conoscere, mentre Shimon, sempre accigliato, se ne rimaneva alla finestra e voleva ritrovare il proprio equilibrio, standosene coi suoi pensieri rivolti ai suoi figli. Shimon si isolava, Andreas invece si era avvicinato ad un galileo, come lui, più o meno della stessa età, ed aveva fatto amicizia perché Shimon lo vedeva confabulare già animatamente.

Anzi subito dopo Andreas lo aveva presentato a lui, come Lebbeo 17ben Josiph, di Nazareth.

Era un bel giovane, alto, tutti ricci neri, con due baffi pronunciati e con basettoni lunghi, molto agile, dagli occhi vivaci.

I due fraternamente si erano accoccolati in un angolo e parlavano fittamente.

Lebbeo aveva poi presentato a Shimon e ad Andreas, Itzahac, un suo compagno, un uomo di poco più anziano, chiuso e scontroso, un tipo duro come Shimon, che ora si era accostato alla finestra, silenzioso: la comunicazione è sempre difficile tra due, che parlano poco.

I Siriaci avevano occupato quasi tutta la stanza e avevano isolato un ometto, gracile gracile, di origine galilaica, con due occhietti volpini, che guardavano dappertutto arrogantemente e che puntavano con disprezzo gli altri, proprio di chi misura il denaro in tasca.

Andreas aveva raccontato la tempesta, aveva mostrato come le guardie li avevano prelevati dalla spiaggia, bagnati, come erano stati imprigionati perché avevano sconfinato: lui e suo fratello erano pescatori, che campavano con la pesca, grazie alla loro barca ed erano zelanti della fede.

Lebbeo aveva confidato come lui ed Itzahac avevano fatto un ‘irruzione armata contro i sebasteni, che scortavano una carovana romana da Filadelphia a Cafarnao: essi avevano intenzione di derubarli e di spartire la preda con gli ebionim, ma, vistisi circondati, avevano detto che stavano andando alla ricerca di ladri, che si erano impossessati del loro bestiame: una bugia, quando serviva, era perdonata da Adonai!

E rideva Lebbeo, contagiando anche Andreas: era una risata che scaricava la paura di essere crocifissi, che significava sfida ai romani e che voleva essere atto coraggioso contro ogni autorità.

Egli aggiungeva di essere stato reclutato da Menahem, il figlio più giovane di Giuda, che predicava come il padre che i Galilei avevano un solo padrone e che pagavano denaro solo a Dio e che non dovevano niente a nessuno.

Andreas al sentire il nome di Menahem18 l'eroe zelota giovane, che era sulla bocca di ogni giudeo e nel cuore di ogni betullah, capì che il suo amico era uno zelota vero, un combattente, un canaah.

28/12/2009





        
  



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