Cerca
Notizie locali
Rubriche
Servizi

"Alabarca". V puntata parte II di "L'eterno e il Regno"

San Benedetto del Tronto | Continua con successo il romanzo del Professor Angelo Filipponi.

Filone sapeva che la lettura ermeneutica di Ruben, opponendo il bene, proprio dei figli di Israel, al male, tipico degli egizi, già tagliava in due il problema e lo scindeva per cui il prosieguo non lo turbava.

Comprendo, disse Filone, la nostra tipicità rispetto ai pagani, ed anche la differenza tra noi giudei ellenisti e voi giudei puri.

Ma perché parli solo di Dio Ktistes? La creazione dal nulla non comporta l'ordine e un Demiourgos?

Tu parli da platonico, non da Giudeo disse in tono severo il terapeuta, intenzionato a spiegare la figura dell'intermediario ed aggiunse:

To archangelo kai presbutato logo dorean edoken ecsaireton o ta ola gennesas Patèr, ina methrios stas to genomenon diakrìne tou pepoiekotos (il padre creatore di tutto l'universo diede all'Arcangelo e al Logos, venerabile sopra ogni cosa, il dono eccezionale di porsi in mezzo e di separare il creato dal creatore).

Alzando gli occhi come per distaccarsi e vedere l'invisibile, Ruben disse: egli è colui che intercede in nome del mortale, sempre infelice al cospetto dell'Incorruttibile, e contemporaneamente è ambasciatore del comandante presso i suoi sudditi.

Egli esulta per questo dono e si glorifica dicendo:" Ed io rimasi in mezzo tra il signore e voi (Deut. 5,5), io che non sono né ingenerato come Dio né generato come voi".

Ruben insisteva nel mostrare come Dio in quanto creatore, essente, ha in sé il logos che crea il Kosmos e lo dispone ordinatamente, dopo aver pensato alla quantità del me on (non essente / della materia ) senza fare distinzioni .

Tossicchiando, Seneca parlò stizzosamente e inopportunamente, della pronoia stoica, e fece un puntuale intervento.

Lo stoico diceva: niente viene dal niente; il theos anima il mondo e l'uomo, dall'interno vivificandolo, lasciando intatti i processi naturali ed umana: Seneca mostrava come conseguenza la scienza ellenistica e la volontà soggettiva di costruire la storia.

Agrippa era con lui solidale e faceva considerazioni antidogmatiche, secondo linee scettiche, arrivando alla sospensione del giudizio e rilevando che da diverse premesse si giunge anangasticamente a soluzioni diverse.

Il vecchio Ruben, invece, gelò tutti gli antagonisti: egli forse neanche aveva sentito gli altri, seguiva solo la sua interpretazione.

Il Vecchio faceva un suo monologo: non poteva avvicinarsi agli altri né lanciare ponti: era in una dimensione estatica.

Egli, perciò, andava diritto per la sua strada e mostrò a Filone che la sua interpretazione non aveva valore perché non leggeva il sacro testo e le sacre lettere, ma solo un testo, mal tradotto in greco, incapace di contenere lo spirito di Dio, perché manipolato dall'uomo.

Poi si rivolse al romano e gli faceva notare che il theos non può essere mescolato con la creatura, che puramente partecipa alla storia di Dio, altrimenti non sarebbe Dio.

Senza neanche menzionare la traduzione dei Settanta, Ruben ignorò Agrippa, scettico, lo sorvolò, lo guardò solo: l'occhiata, sembrò, di compatimento.

Quindi pontificava: voi romani e greci siete autarchici: guardate Dio dall'angolazione umana ed esaltate la grandezza dell'uomo: l'uomo, voi, come Dio, lo propugnate; voi sognate l'uomo, che può da solo conseguire la virtù e può tendere superbamente alla perfezione divina, come se a lui fosse possibile ascendere verso Dio; e voi greci-giudaici credete che il logos divisore, platoneggiante presupponga un demiurgo.

Perciò sentenziava: Noi giudei puri, interpreti della davar, siamo prima di tutto coscienti della nostra nullità e che la nostra azione e il nostro studio sono niente: è Dio che ha un suo disegno su di noi; noi nulla possiamo fare, noi siamo lo strumento che è animato da lui, la canna vuota, mossa dal vento, tramutata in arpa melodiosa, che canta la canzone di alleluia, come tutto il creato.

Noi, gli animali e le cose siamo niente, pur uniti, di fronte a Dio.

Noi giudei crediamo che i contrasti, la lotta tra bene e male, che riassume l'opposizione tra Dio e Mammona, saranno sanati col suo regno, che si verificherà quando lui invierà il suo Meshiah: la giustizia, allora, regnerà dovunque e noi, liberi e unici fra i popoli, indicheremo la via agli altri che non sanno, che sono goyim: questa è la missione del popolo giudaico.

Noi attendiamo e leggiamo la sua legge: le parole sono il logos, Filone: questo dicono le sacre carte: Bereshit Elohim merahefetim: la creazione dal nulla avviene senza demiurghi: la sua parola è legge: Sia luce. E fu la luce: Lo spirito, la parola e l'azione sono una sola divinità, unica, che si manifesta come potenza spirituale, verbale, prattica: ma voi avete perso la parola originaria e la traducete e la commentate in altra lingua: voi non appartenete alla luce, voi non siete fedeli, voi appartenete a Belial e a Mammona.

Dio è semplice e voi siete complicati, voi non siete puri di mente,ma agite secondo la menzogna perché vivete dove il male prevarica sul bene, dove il giusto è succube dell'ingiusto, dove i malvagi prevalgono.

Dio predilige Giobbe che soffre, che giunge alla negazione dell'uomo, divenuto reietto perfino a se stesso: quando il giusto è sprofondato nel male, quando arriva nell'abisso della sofferenza, quando finisce perfino la speranza, allora c'è la palizzata di Dio, che è il segno della giusta via, del percorso dell'elezione.

Dio scrive il giusto nel suo libro, lo purifica, tempra, rende santo: egli fa col giusto ciò che ha fatto per Israel, suo popolo, divenuto unico per la sofferenza, unico per la storia dolorosa, unico per la crescita spirituale, unico nella sua abiezione.

Il nostro Dio è un padre severo, che ama il figlio: il suo amore lo coglie chi soffre, chi è immerso nel male, chi muore straziato, chi accetta il dolore e sa leggere l'altra faccia del padre,quella della sua dolcezza, che promette elezione e resurrezione, ricompensa eterna, il suo Regno con la gloria centuplicata per l'eternità.

E a questo punto iniziava un'invettiva contro la società emporica: voi vedete solo il denaro e con esso vivete nella perdizione, fornicate , e create la donna come nuovo idolo e venerate Mammona e fissava l'alabarca, lo definiva avido, destinato a sprofondare nelle tenebre col suo denaro accumulato, lo bollava come nabal.

Poi attaccava i sadducei del tempio di Gerusalemme, che serpi, filoromani, mescolavano sacro e profano e minacciava con profezie oscure gli erodiani, che si credevano re eletti da Dio, mentre erano servi dei padroni e per contrasto pregava per i goyim, poveri peccatori, ignoranti, che veneravano animali come il toro, lo sparviero, il gatto, falsi dei.

Mostrava, poi, la dolce perfezione della retta via e la sua parola si rasserenava, il suo volto si spianava, il suo animo si quietava e i toni tornavano suadenti quasi fanciulleschi, mentre parlava del dolore, del sacrificio continuato,dell'anachoresis16 dei santi comunitari, fratelli esseni e terapeuti, dei confratelli del popolo di Palestina, che vivevano nella povertà e nella legge e in modo profetico finiva: Venite tutti a Sion, Adonai è con noi, il suo regno è vicino.

L'alabarca, cortesemente, temendo che Ruben potesse tediare i suoi ospiti, approfittava di quello stato sereno, con molto tatto, fermava quella voce, pronta di nuovo a condannare.

 

Lisimaco Alessandro alabarca

Lisimaco Alessandro era figlio primogenito di Lisimaco Alabarca e di una principessa di stirpe erodiana.

Gli alabarca avevano la funzione sacerdotale e quella di esattore delle tasse nel regno tolemaico ed erano per legge eletti dalla stirpe di Onia IV.

Essere Alabarca ad Alessandria significava essere etnarca ed avere l'universale rispetto sia dei greci che dei giudei specie dopo la vittoria di Cesare a Pelusio e dopo quella ancora più importante di Campo dei Giudei , dove il generale romano vendicò la morte di suo genero Pompeo e vinse Tolomeo XIII, grazie anche al valore militare di Antipatro, padre di Erode e all'aiuto finanziario degli oniadi.

Senza l'aiuto congiunto militare ed economico dei giudei Cesare sarebbe stato annientato dagli egiziani in quella maledetta guerra alessandrina, che risultò un trionfo per l'elemento giudaico: tradendo la dinastia lagide (Tolomeo XIII ed Arsinoe IV) i giudei si schierarono dalla parte di Cleopatra VII e dei romani e saltarono sul carro del dittatore trionfatore.

Che trionfo fu per l'ebraismo! a Gerusalemme iniziò la fortuna del padre di Erode e quindi della sua stirpe che divenne sovrana in Ioudaea ; in Egitto e in tutto il mondo orientale i banchieri giudaici furono favoriti nei loro commerci e col proselitismo si dilatarono in tutta l'oikoumene non solo romana ma anche partica ed oltre.

La massima espansione in senso economico l'aveva raggiunta, comunque, l'alabarca Lisimaco Alessandro, il cui impero economico non aveva confini, perché era stato protetto da Augusto prima, ed, ora, era familiaris di Antonia e di Tiberio e loro epitropos.

Nessuno più dell'alabarca, comunque, poteva capire Ruben, il suo discorso e la sua stessa condanna: egli lo capiva più di suo fratello, ellenizzato, più del romano e di ogni altro presente: lui era stato educato in aramaico e per tradizione doveva insegnare al suo primogenito la lingua dei padri, con l'ebraico, per leggere il santo libro: lui a Leontopoli, solo, leggeva di tanto in tanto i rotoli coi segni antichi e quindi lui sapeva la verità, ma viveva da peccatore perché doveva pensare al benessere della comunità sia spirituale che temporale, e popolo e sacerdozio: tutto era sotto il suo controllo anche l'attività dei banausoi , di ogni carpentiere navale, di ogni servo: ogni costruzione (da quella navale a quella di un pittura) era sotto la sua religiosa direzione in quanto lui era l'eletto del Signore e la sua parola era divina

Egli aveva una doppia natura, come la sua carica: in lui spirito e materia si fondevano, preghiera e denaro si unificavano

indissolubilmente: le masse di fedeli avevano bisogno della parola di Dio e lui era interprete del libro.

Le masse avevano bisogno di beni materiali, perché dotate di corpo e lui era la fonte che elargiva sempre ed era inesauribile proprio perché c'era un flusso che circolava in modo che l'acqua ritornava allo stesso punto e il denaro rientrava nelle sue casse come elemosina, come voto, come donativo.

Il dramma dell'alabarca era di non potere cambiare: quello era il suo compito, quello che era stato di suo padre, di suo nonno, dei suoi antenati.

No: lui non poteva cambiare: doveva recitare quella parte obbligata.

Lui aveva diagrammata, che praticamente organizzavano in modo perfetto ogni lavoro e con quelli stessi diagrammata egli progettava la conquista del mondo, col suo esercito di banchieri e di cambiavalute, seguendo procedure flessibili, in modo graduale, avendo oltretutto methorioi, uomini posti nei punti nevralgici ai confini tra due stati,che facendo i cambiavalute determinavano la politica di quei paesi. Questi sapevano fiutare il momento opportuno per le loro offerte specie in momenti di crisi e, nel frattempo cambiavano il denaro straniero in dracme, denarii e talenti oppure davano garanzie con carte pagabili nelle trapezai ellenistiche, dopo aver calcolato il corrispondente in monete locali.

Doveva essere cambiata la struttura della chiesa (comunità) giudaico-egizia, certo; doveva essere mutata la struttura della dioicesis e separare i due poteri, certo: egli aveva tentato, come già suo nonno, di mediare, di chiedere assistenza, di dividere i compiti, di organizzare una gerarchia, di mettere a capo un suo vicario a Leontopoli, un altro ad Alessandria, un altro a Cirene, un altro a Cartagena e vari altri sparsi per il mondo.

Il tentativo si era risolto in un immenso guadagno perché il lavoro si era snellito, ma la sua attività era divenuta più stressante perché doveva controllare i vertici periodicamente, visitare le comunità trimestralmente, sentire la voce dei fedeli due volte all'anno.

Ora delegava il suo vice al tempio per i riti e solo a Pesach lui leggeva le parole sante, mentre gli altri ascoltavano le fonazioni dure dei padri ed ancora di più si radicavano nel culto e nella fede perché non comprendevano niente e il niente fomenta paura, mistero, isterismo religioso.

Lui, come persona, allora, aveva aumentato le elemosine, le buone azioni, i prestiti gratuiti e dilazionati, le elargizioni settimanali al tempio di Gerusalemme, le donazioni agli ebionim mensili, le doreai a tutti giudei, greci ed egizi ed aveva istituito centri di beneficenza per i fedeli e per i pagani: ciò, però, diventava anche un affare, perché organizzato nei particolari mediante commissioni, addette allo stanziamento del bonifico, all'individuazione dei bisognosi, all'elargizione, alle cerimonie. Tutto diventava un affare perché egli aveva un ritorno di gloria che gli fruttava altro denaro che rinvestiva e serviva da fondo per le offerte: nella sua banca questa voce aveva il credito più alto: non era la provvidenza, ma il suo sapere gestire pratico e funzionale.

La struttura, dunque, se cambiata, produceva di più: il sacerdozio di Onia era una perfetta creazione mista, che esprimeva la doppia natura umana e ne esaltava i valori con la sua organizzazione capillare: la burocrazia amministrativa, gli atti dell'archivio, i documenti del prestito agevolato e delle elemosine e gli anonimi uomini che lavoravano a testa bassa , nei sotterranei, per la fortuna della comunità oniade, erano le basi del successo dell'impresa dell'alabarca.

Allora cosa poteva fare il povero Alabarca?

Si ritirava nel deserto per un mese, lasciando gli affari ai suoi delegati, fedeli, ma quando tornava, niente era cambiato e lui riprendeva il suo posto come prima ed era ripreso lentamente nell'ingranaggio del denaro e del potere: aveva appena il tempo della preghiera, come svago.

Le rare volte, quando era rimasto ospite tra i fratelli terapeuti, egli riusciva a rigenerarsi, ma metteva a supplizio la sua anima, erosa scavata flagellata dai rimorsi e dalla coscienza di non essere puro: in lui veniva ingigantito il senso di colpa, già profondo in ogni giudeo che conosce Dio.

Era una paliggenesis apparente, come un boccata d'aria, pura per un moribondo come un otium effimero: subito veniva di nuovo inghiottito nella morte della ricchezza.

Certo, dovunque andasse, egli vedeva i segni della sua munificenza e della magnificenza alessandrina: vedendo le porte immense del Tempio gerosolomitano, opera sua, pagata a fabbri italici, provava emulazione con quelle fatte da suo padre e da altri antenati.ed orgoglio di essere oniade17.

Tutto il suo avere diventava potere, faceva crescere in lui la divinità della sua anima, capace di assimilare e fondere parola e contenuto, pensiero ed azione: egli si identificava con la forma, che sostanziata dalla realizzazione, era un inno alla personalità, alla sua figura di Alabarca, all'uomo, ad Alessandro Lisimaco: il successo era il naturale completamento della sua attività che aumentava la sua ricchezza. Lui conosceva il meccanismo perverso del denaro: una volta avviato, non si arrestava: era una ruota che correva lungo un piano inclinato, illimitato.

Ebbene lui si era abituato a condividere la sua spiritualità con la materialità, ad unire cose così opposte, a servire due padroni :lui e tutti gli ellenisti vivevano così, in modo neutro: seguendo la legge e pensando al denaro, riciclando il denaro con le opere buone, cercando di salvarsi mediante le opere buone, non potendo seguire la via della salvezza indicata da Mosè.

Egli a modo suo, comunque, spesso nella sua anima si sentiva peccatore e si condannava, ma gli altri lo glorificavano.

La sua tzedaqàh testimoniava la sua giustizia, anzi era segno della sua giustizia in quanto non dava al povero la decima soltanto né la faceva vedere mai, ma creava lavoro, dava dignità al bisognoso, rispettando il povero. Il suo dare, seppure nascosto, veniva propagandato da molte bocche di sfamati che, dopo aver mangiato, lavoravano per lui, ben retribuiti.

Uomini che prima morivamo di fame ora potevano dare tzedaqàh anche loro e, perciò, non potevano tacere e dovevano gridare il nome del loro benefattore.

Il benefattore, anche se tutto intorno a lui lo glorificava e lo esaltava come santo, come giusto, prediletto di Dio, soffriva .

Egli a malincuore doveva accettare ciò che sembrava e si condizionava scegliendo e vedendo ciò che era buono e ogni giorno si sentiva giusto, anche se interiormente si deplorava, sapendo che la via della giustizia era un'altra.

Era quindi continuamente in crisi: la sua azione, grandiosa e munifica e magnifica testimoniava la manifesta presenza di Shaddai su di lui, ma la sua anima era sempre irrigidita dal gelo del dubbio e dalla doppia sua natura di iereus e di emporos: nel complesso, comunque, pur da due voci dissonanti in lui si avvertiva una sinfonia armoniosa, in cui egli trovava un suo tipico kosmos.

La parola di Ruben puntualmente scatenava in lui la reazione, scompaginava quell'ordine armonioso conquistato faticosamente: Ruben nella solitudine, nella povertà, nella semplicità aveva trovato l'equilibrio definitivo, sapeva raccordare effettivamente parola ed azione, relazionare male e bene, vivere contemplando Dio: Ruben egli voleva che fosse la sua guida e il suo paradigma, ma la vita quotidiana lo distoglieva da questa volontà, con le urgenze immediate, in cui lui era intrappolato.

Tutto questo gli comportava la presenza di Ruben.

Ruben, ospite, scopriva l'umiltà della sua anima, trepida davanti alla sentenza della parola divina conosciuta e non applicata.

Ora doveva curare gli ospiti e doveva devertere (far deviare ) Ruben dalla sua arringa finale: egli lo conosceva bene come testardo, rigido inflessibile nelle sue decisioni. Ruben era stato così fin da bambino, educato all'emulazione da una famiglia di trapezitai concorrenti, da adulto, aveva abbandonato la sua ricchezza, data ai parenti, soprattutto a lui, suo cugino paterno, ed era diventato contemplativo, dopo anni di noviziato nel deserto.

Lo conosceva bene Ruben e perciò sollecitava Agrippa a far intervenire Jehoshua, che sapeva uomo zelante e buon parlatore.

Ed Agrippa, che era desideroso di far conoscere il suo Jehoshua, il suo profeta, lo invitava a parlare. Il Galileo, alzava gli occhi verso l'alto, anche lui, e senza guardare nessuno, diceva umilmente: le parole del reverendo padre sono conformi alla legge: la legge, nessuno,meglio di lui la conosce in Israele.

Il figlio dell'uomo viene per tutto Israel, per il suo gregge disperso: i giusti e gli ingiusti, i buoni e i cattivi; ma i giusti sanno già cosa fare ,sono nella luce e non hanno bisogno del pastore; il figlio dell'uomo va dove c'è la pecorella smarrita e la riporta al suo gregge.

Aveva detto questo Jehoshua: taceva Ruben, pensieroso sul ruolo del figlio dell'uomo che ricerca la pecora smarrita, mentre Seneca e Filone commentavano l'intervento del tekton e non comprendevano esattamente la novità rispetto al loro pensiero e a quello di Ruben, ma intuivano che c'era qualcosa di diverso nella sua espressione metaforica e parabolica.

L'alabarca era un ospite perfetto: aveva ingoiato l'invettiva di Ruben con un sorriso malizioso, aveva ascoltato le parole di Jehoshua, che gli prospettavano una via di salvezza perché Dio è sempre vicino al peccatore, come un padre ad un figlio degenere.

Ed ora invitava il terapeuta a rimanere con loro, ma sapeva già la sua risposta: un terapeuta non mangia nella casa di un emporos, con chi ama lo sterco di Belial.

Allora temendo che l'altro iniziasse una lunga diatrìba, lo accompagnava personalmente verso la porta, salutava per lui i suoi ospiti, lo consegnava al dioichetes, che avrebbe provveduto a riaccompagnarlo con i dovuti onori al suo monasterion.

Allora l'alabarca, tornato dai suoi ospiti li trovò ancora a discutere sul problema degli opposti irrisolto, nonostante l'intervento di Ruben e di Jehoshua.

Sentì che Seneca giudicava immoderato il linguaggio del Terapeuta, Filone lodava la parola,velata allegoricamente, di Ruben come santa secondo la dottrina dei padri, rigida nella sua verità ed Jehoshua riteneva perfetta la sua interpretazione , propria di un padre giusto e severo e il solo Agrippa ne biasimava la durezza confessionale, pur riconoscendo la santità.

L'alabarca sorrise dei commenti degli amici: loro non conoscevano Ruben, la sua volontà di scarnificazione personale, la via aspra percorsa per conseguire la visione della parola, la continua ricerca di Dio nella solitudine, nella preghiera, nella mortificazione del sensi, nella punizione della carne.

La santità dell'amico doveva essere valutata nel suo insieme, come fine di un percorso, basato sulla rinuncia graduale dei beni fino all'autodistruzione fisica per la purificazione dell'anima, giunta a contatto con Dio, nell'indifferenza della lingue umane.

L'alabarca, sorridendo disse: andiamo, amici, la cena ci attende; voi rallegrerete la mia casa e il mio cuore potrà esprimere la gioia per l'arrivo del cugino e salutare degnamente un famigliare che parte e comunicare col fratello filosofo.

Filone, mentre si spostava da una stanza all'altra nell'ampia casa dell'alabarca, aveva spiegato agli amici che Ruben era venuto perché non aveva potuto fare a meno: un santo non va dai commercianti da lui condannati e esorcizzati come servi di Mammona.

Egli era stato costretto dalla gratitudine perché l'alabarca, come etnarca della chiesa di Alessandria, provvedeva a lui e ai suoi: in quegli ultimi anni Alessandro Lisimaco con i suoi milites aveva ripulito tutta la zona ed aveva messo in fuga i briganti, che spesso andavano a rubare nei monasteria, aveva punito i giovani pagani che avevano fatto irruzioni nei recinti femminili, ed inviava derrate alimentari se la comunità era in difficoltà: i contemplativi vivevano solo di elemosine e le elemosine, a volte, non bastavano a sostenere più di mille bocche, anche se bocche moderate.

Alessandro allora intervenne: fratello, sembra che tu cerchi la mia difesa;, te ne ringrazio, ma Ruben sa che io, sommo sacerdote, pur considerato corrotto, ho un animo nobile e so mediare il commercio con la preghiera, l'attività spirituale con quella operativa e certo in cuor suo mi stima ed ama.

Lui, Ruben, pur brontolando, intuisce la mia dilacerazione e vuole convertirmi: io comprendo ed ammiro la sua scelta; mi auguro che anche lui comprenda la necessità della mia funzione oniade: lui da buon alessandrino, comunque, critica e disdegna la massa; e noi per lui siamo popolo che non sa, né può comprendere la via dell'estasi: noi abbiamo bisogno di avere simili giusti accanto, noi che non abbiamo la purezza d'animo per essere soli ed attenti alla voce di Dio.

Lui, perciò, evita la nostra frequentazione, ha paura di Mammona, teme la potenza diabolica, il fascino della vita brillante ed allora si irrigidisce nel rifiuto, diventa maschera, si chiude in contemplazione.

Solo un'altra volta é venuto, poco prima del tradimento di quel giovane, quel povero ragazzo romanizzato, e come ora, è stato riportato al semneo da guardie.

Quando già erano arrivati alla sala tricliniare, Agrippa chiedeva a Filone di dire, come informazione per il suo amico, quando l'alabarca aveva avuto la possibilità di tenere un suo corpo di guardia ed Jehoshua ringraziava con un inchino.

E' una lunga storia, Agrippa, esordì Filone, che si intreccia con la nostra toledoth: i nostri avi avevano ottenuto dai tolomei che un quarto delle truppe stanziate in Alessandria fossero giudaiche, comandate da Giudei, libere di osservare il Sabato e le ore di preghiera e tutte le altre regole tipiche di un giudeo, fissate in un prostagma. Da allora l'alabarca tenne truppe e poi dopo l'aiuto a Cesare nella guerra alessandrina, ebbe un suo corpo speciale come personale protezione. Nel periodo di Cleopatra ed Antonio, noi, oniadi, fummo onorati solo come capi religiosi e perdemmo il privilegio di aver milizie :ci fu assegnato solo un numero ridotto di milites per il sommo sacerdote e per la protezione del nostro tempio perché eravamo considerati uomini della pars ottavianea. Da Ottaviano noi avemmo, al momento del suo ritorno in Italia, dopo la vittoria sugli antoniani, la possibilità di tenere due reparti di vigiles e due di urbaniciani, alloggiati nello stesso quartiere generale, che svolgevano le normali mansioni del corpo e quelle specifiche di guardie personali.


La cena

La sala era enorme ed era addobbata con gusto, secondo le forme ebraiche.

I commensali venivano fatti sedere, là dove l'alabarca aveva stabilito: aveva posto Seneca alla sua destra ed Agrippa alla sua sinistra e Jehoshua, come umbra accanto.

Ora iniziava la cena, che si preannunciava intima, dato lo scarso numero di amici.

I commensali mangiavano serenamente ed ammiravano la bellezza e l' armonia del salone tricliniare e soprattutto ascoltavano i rumori dell'acqua, che dava ad ogni invitato l'impressione di essere all'aperto, anche perché c'era un meraviglioso addobbo floreale ed Agrippa si volgeva a spiegare ad Jehoshua, che da tekton apprezzava.

Questa casa, come ogni casa di proprietà dell'alabarca, è inondata di acqua: grandi vasche di deposito sono in alto e da esse derivano rivoli che sgorgano dalle pareti e dal pavimento che si raccolgono in un grande bacino a forma di conchiglia, che costituisce la piscina: architetti greci e giudaici si sono sbizzarriti a giocare con l'acqua, che ora vedi gorgogliare ora sprizzare ora precipitare con un dolce fragore.

Jehoshua guardava ammirato ed Agrippa aggiunse: Il loro nonno aveva ottenuto da Augusto anche l'autorizzazione a potenziare l'acquedotto in modo che l'acqua corrente fosse in ogni casa giudaica: sotto il governatorato di Cornelio Gallo18 poi ogni abitazione alessandrina anche greca ed egizia ebbe l'acqua tanto che la comunità sempre in conflitto etnico si ricompattò, cominciò ad avere qualche relazione di concittadinanza.

L'alabarca, sentendo Agrippa, intervenne: la nostra città è ricca di tutto, ma anche di invidia e noi giudei siamo i più invidiati perché il nostro Dio ci protegge e ci fa sempre prosperare di più.

In ogni città noi siamo invidiati, ma in una città cosmopolita, come Alessandria, dove tre religioni differenti convivono c'è una guerra tra i fedeli, che maschera rivalità economiche e predominio politico: noi giudei, protetti dalla gens Iulia, fioriamo, ma sappiamo come i nostri nemici urgano intorno a noi, ut leones rugientes.

Ormai dopo quasi un sessantennio la situazione nella città si è stabilizzata: i giudei sono gli indiscussi signori, emporoi; i greci costituiscono i philosophoi, dediti a parole al to philomathes (amore per la saggezza) etnia privilegiata, detentrice della cultura idolatra; gli egizi sono gli iloti, i poveri nella loro casa, pur detentori di una secolare civiltà, pur abili negli affari (to filochrematon), sono costretti a fare lavori umili, senza possibilità di una crescita.

Comunque, tutti siamo ad Alessandria aischrokerdeis, tutti aspiriamo alla ricchezza (anche se ripetiamo l'antico detto: l'avarizia è il più abominevole dei vizi), tutti vogliamo la ricchezza e se l'otteniamo, lottiamo per mantenerla e diciamo che il risparmio è una grande virtù e sprecare è correre verso la propria sventura.

Noi alessandrini sappiamo coprire la nostra avidità con motivazioni, siamo abili simulatori e commercianti istrioni.

Tutti viviamo bene perché Alessandria da opportunità di lavoro a tutti e tutti sono, anche gli egizi signori rispetto ai cittadini di altre città e delle campagne.

Noi alessandrini di qualunque etnia, perciò, siamo sinonimo di boria, di fanatismo,fece Filone: ci riteniamo naturalmente i migliori del mondo per la bellezza e storia del sito, per la superiorità culturale rispetto ad ogni altra città, Roma ed Atene comprese, e vantiamo la scuola medica ed asclepeia (ospedali) superiori a quelli di Epidauro e di Pergamo, una tradizione filosofica e letteraria di primo ordine, istituzioni scolastiche nemmeno comparabili con quelle altrui, collezioni d'arte, di rara bellezza, nel Museo, e una biblioteca rinnovata di 200000 volumi, dopo la distruzione cesariana (un tempo ce ne erano 700000), a cui lavorano permanentemente 9OO copisti.

Certo, siete i maestri del mondo, fece Seneca, celiando un poco.

Noi, diceva con orgoglio Filone, siamo davvero inventori: siamo stati i fondatori della meccanica con Ctesibio e i suoi discepoli, che inventarono anche la pneumatica, costruirono orologi, cannoni ad aria compressa, pompe da combattimento e antincendio: sono le machina ctesibia.

Il loro uso negli assedi, nelle costruzioni di porto, nei lavori pesanti è prerogativa alessandrina.

Noi siamo i migliori artifices perché sappiamo sfruttare la pressione atmosferica, la pressione del vapor acqueo e le leggi del sifone. Erone ora poi ha inventato l'eolipila come macchina a vapore, capace di generare forza meccanica e l' ha applicato come macchina ludica e la utilizza per gli spettacoli anche teatrali.

Il suo trattato sulla meccanica e sulla catottrica è utile per ogni artigiano, che sa operare applicando le leggi studiate dagli scienziati.

Anche il vostro Vitruvio Pollione19 dipende da noi: il suo decimo libro imita la nostra meccanica.

Certo, rise Seneca, tutto è vostra invenzione: in voi c'è stata la continuità di lavoro e di studio, la possibilità di applicare quanto si teorizza e si è passati dalla fase del logos a quella poietica e prattica: I nostri praefecti fabrum, seguendo il vostro esempio , sono diventati abili tectones ed ora formano una categoria di intoccabili. Voi avete avuto la fortuna di essere stati scientificamente all'avanguardia grazie alla politica lagide che permise di sezionare i cadaveri ed anche i vivi e di mantenere operante l'istituzione del Museo, che diffuse, oltre alle ricerche scientifiche, insieme con l'indagine medica, specie anatomica e chirurgica, lo scetticismo.

E' vero, Anneo, noi siamo fortunati, ma è stata la nostra superiore cultura a permetterci un progresso nella scienza e specie in medicina: dalla scuola di Erofilo a quella di Erasistrato si passò lentamente a quella empirica, metodica e pneumatica, in un crescendo di analisi scientifiche, favorite dal clima scettico e dalla ricerca scientifica, fece Filone: il medico alessandrino è ora uno scienziato, come il tecton, che sfrutta la ricerca. Perciò, noi alessandrini siamo così orgogliosi.

Siamo così orgogliosi da esser antipaticissimi: viviamo come se fossimo gli unici sulla terra pensando che solo l'alessandrino lavora e guadagna, sa godere della vita, sa fare politica ed è naturalmente filosofo, cosciente di avere assimilato il meglio di tutte e tre le civiltà. Gli altri popoli bollan, quind,i l'alessandrino come lunatico, selvaggio nell'odio e nell'amore, come eccentrico e soprattutto invidiosissimo.

Personalmente ritengo che gli egizi siano ottimi uomini come stirpe, ma contagiati dagli altri, che dominano: essi sono come vecchi indeboliti dall'età, diventati per necessità servi, proletari, troppo

legati alla tradizione patria, conservatori.

Come greci sono compresi tutti quelli di cultura ellenistica, provenienti da zone ellenizzate e specificamente da Grecia e Macedonia.

Essi sono gli eredi dei fondatori, hanno loro culti e loro prostagmata e sono politai, superbi dei loro diritti, convinti di essere ancora i vincitori anche se hanno perso il potere militare e politico internazionale e nella loro città anche quello cittadino, soppiantati da noi Giudei e non si rassegnano e sperano in una situazione favorevole e per ora tergiversano nell'attesa, in un ambiguo saluto di cortesia.

Noi, venuti da servi e da militari, nella maggior parte, siamo divenuti dapprima Meteci (metoicoi), poi coi Lagidi siamo stati equiparati ai greci e coi Romani siamo diventati l'aristocrazia cittadina: è chiaro che gli altri, meno ricchi, politicamente meno rappresentati a Roma, non possono amarci.

L'alabarca, allora, precisò, dopo aver proposto un brindisi agli alessandrini, gente volubile ed estrosa, comprendendo anche Seneca, che era alessandrino di adozione: saremo pure fanatici, ma siamo il centro del mondo, tutto confluisce ad Alessandria, che tutto ridistribuisce e soggiunse: certo noi giudei appariamo i più fanatici di tutti gli alessandrini perché, oltre ai difetti propri dell'alessandrinismo, abbiamo l'abitudine di separarsi per motivi religiosi: nessuno mette in dubbio il nostro valore, intelligenza, attività, organizzazione, ma tutti odiano perfino il nome giudaico e per i costumi ancora persiani e per la superiorità culturale e commerciale: la nostra maggiore colpa è di non lasciare nemmeno le briciole agli altri, ma solo ai confratelli e questo suona offesa mortale, se letta da uomini ostili.

Sul piano culturale certo anche noi dobbiamo molto, come i greci, agli egizi, ma né noi né i greci siamo grati e ci arroghiamo il diritto della novità.

Gli egizi, allora, dicono, riprendendo Manetone, che noi giudei deriviamo da lebbrosi, che cacciati dall'Egitto migrammo in terra di Canaan, dove abbiamo avuto una mediocre storia e che solo nel periodo della ultima guerra punica abbiamo avuto un risveglio nazionale.

Essi affermano che ci siamo liberati dai Seleucidi per poi cadere sotto l'imperium romano e che la nostra cultura si riduce alla legge, che Toleomeo II fece tradurre.dai Settanta, per favorirci.

E contro i greci dicono che i loro semidei e dei come Dioniso, Perseo, Menelao sono uomini che hanno appreso la loro cultura dall'Egitto, che aveva già una tradizione culturale millenaria.

I greci, con Apione, pretendono di mostrare la superiorità greca sia sul piano culturale che

religioso, oltre che letterario. Io penso che in una città come Alessandria ognuno debba sentire Dio a suo modo, ognuno secondo la sua tradizione debba vivere, anche se penso che la più antica cultura egizia possa aver influenzato effettivamente sia noi che i greci.

Anch'io sono convinto, fratello, disse Filone, e vorrei pregarti di dimostrarlo con qualche esempio.

Alessandro non si lasciò pregare e disse: Voi certo sapete che io conosco il demotico, che è la lingua derivata dallo ieratico e dal geroglifico, e sapete che devo conoscere per clausola testamentaria nella nostra famiglia l'aramaico e l'ebraico: posso quindi fare un lavoro tecnico sul termine con cui si indica l'uomo, nella sua triplice divisione.

Gli egizi dicono che l'uomo è composto da tre elementi ket, corpo, ka spirito, in quanto intelligenza divina che anima ogni creatura, ba anima, come personalità spirituale, volontà.

I Greci chiamano eidolon il corpo, nous lo spirito, come intelletto, psuche anima come volontà. Non è il caso di vedere anche la somiglianza con la vostra divisione stoica (sarkia, pneumation, egemonicon).

Noi stessi giudei dividiamo in corpo basar, spirito ruach e anima nefhesh.

Mi sembra chiaro che una certa influenza debba essere rilevata umilmente sia da noi che dai greci, anche se ognuno poi ha maturato la propria cultura in modo differente: forse noi dobbiamo accettare ciò che la romanitas ci ha insegnato, a convivere pure nelle differenze e a fare un popolo solo di tante genti.

Noi alessandrini anche in questo possiamo essere i primi, vista la varietà etnica che va oltre le tre stirpi egemoni: convivono qui nubiani, cirenaici, medi, arabi e occidentali di cui neppure conosciamo i nomi: noi dobbiamo convivere e come romani ognuno sia fanatico delle proprie conquiste nel rispetto degli altri.

Anneo vide che implicitamente era chiamato in causa e disse: nobili amici, noi latini diciamo che comunicare è già ascoltare l'altro pur differente e rispettarlo ed aggiungiamo saggiamente che dalla differenza e varietà etnica viene la grandezza di un popolo: noi, prima, abbiamo unificato il Lazio, poi l'Italia ed ora il mondo: io, di Cordova , vissuto a Roma ed Alessandria, sono l'esempio vivente della romanitas e come romano vivo in mezzo a romani: dovunque sia l'imperium c'è la lex romana che ci unifica con la sua iustitia e noi siamo liberi: noi siamo la civiltà: noi siamo ellenistici,cioè romani che hanno una cultura unitaria quiritaria connessa con quella propria della basileia macedonica, che aveva superato la cultura limitata della polis. Ora nel mondo ci siamo noi soli romani e i barbari.

Noi, come adulti, abbiamo raggiunto ogni equilibrio e viviamo in pace con giustizia e ci condividiamo il benessere; i barbari sono invece come adolescenti che combattono fra loro e sono pericolosi perché sono passionali, vitali e bisognosi di regola: noi li modereremo e daremo l'eudaimonia e li ingloberemo nel sistema greco-latino paritariamente.

Agrippa, ammiccando, disse allora: Anneo, bello, euprepon il tuo discorso, decens, proprio di un Romano!

Noi, di Gerusalemme, forse siamo ancora barbari: noi diciamo che gli alessandrini hanno la cacca sotto il naso (scusatemi, cugini) e che i giudei alessandrini sono davvero i più fanatici nei confronti perfino degli altri giudei dell'impero e di noi palestinesi: voi considerate gli abitanti della vostra terra di origine, contadini e stimate Yerushalaim vostra colonia: lì avete un cimitero, cinque splendide sinagoghe, infiniti alberghi, un asclepeion, vari ristoranti; lì passeggiate alteri, nelle vostre belle vesti ,facendo elemosine, stranieri rispetto alla massa di giudei palestinesi con i quali non avete niente in comune, neppure la lingua, odiosi per la ostentazione della ricchezza, fatta specie nel tempio: con le ricche offerte, fate impallidire perfino i farisei.

Certo neanche tra noi giudei esiste la comunicazione romana! Grazie, cugino, delle tue parole e della sua sincerità!

Noi lo sappiamo disse ridendo Filone e un po' ci giochiamo.

Noi amiamo, però, la nostra patria e sacro ci è il monte Sion; noi siamo diversi: voi vivete la fede dei padri in senso agricolo, puramente, noi peccando ci purifichiamo ogni giorno, presi dalla logica del denaro e del commercio e cresciamo, convinti che YHWH sia pietoso verso noi peccatori: seguiamo ed amiamo, però, lo stesso Dio, anche se lo preghiamo armai con lingue diverse.

Non so, cugino, quale delle due linee farà la storia, ma penso che la nostra sia più percorribile, più realistica, più ecumenica, più umana.

Dopo la precisazione di Filone, tutti avevano ripreso la discussione portando argomentazioni a difesa della propria tesi, lietamente.

La cena era stata piacevole e rigorosamente giudaica perché Filone in questo era tradizionale come anche suo fratello, il loro ospite romano era vegetariano e i due ospiti venivano dalla Palestina e quindi sicuramente avrebbero gradito cibi della loro tradizione.

La cena era stata generosa, ma non sontuosa, anche se l'utensileria era eccellente, i servi erano conformi alla signorilità della casa, i vini prelibati, i cibi Kasher.20

L'alabarca non ebbe riposo neanche durante la cena: due pause brevi interruppero la sua conversazione gradevole con gli ospiti.

Una quasi all'inizio: egli fu chiamato da Salampsio, sua moglie, di stirpe erodiana, una signora alta, imponente che salutò, ad occhi bassi, con molta semplicità, gli ospiti che non conosceva, e in modo familiare e gioioso i parenti: il marito esaltò l'economa, si disse fortunato per aver avuto una

compagna, innamorata fedele e discreta e la congedò dopo aver saputo che trapezitai di Marsiglia pregavano di poter salutare ed attendevano nella stanza accanto.

Al ritorno l'alabarca aveva trovato i commensali a parlare della donna alessandrina e di quella giudaica.

Le nostre donne, aveva detto Filone, sono la casa, il centro della casa, il perno della famiglia: noi alessandrini in genere riteniamo che la felicità sia nel vivere bene, borghesemente, con la propria donna e coi figli.

L'alabarca aveva aggiunto: noi alessandrini abbiamo una concezione più moderata rispetto a voi palestinesi perché noi abbiamo fuso le varie culture e le viviamo moderatamente e convinti individualisticamente che dobbiamo essere re sulla terra e soprattutto nella nostra casa.

Quindi amiamo la concordia tra i coniugi e fuggiamo, perciò, le etere, che popolano la nostra ricca città, pur belle, facili, desiderabili: esse sono la perdizione per l'uomo.

E siamo moderati nella scelta di ogni piacere specie della donna: l'uomo saggio, dice un papiro di Naucrati, deve tenersi lontano dalla donna bella ed irresistibile: anche altri non le resisteranno; deve invece scegliere la donna seria senza lasciarsi abbagliare dalle attrattive fisiche: la buona sposa è la buona massaia, quella di cui non si parla, quella che nessuno loda se non il proprio marito: devi essere fedele alla propria donna perché l'hai giudicata degna di amore e devi impegnarti ad amarla sempre di più e fidarti: anche lei farà così.

Voi latini dite, ante amicitiam iudicandum, post amicitiam credendum: noi applichiamo questa massima sia con l'uomo che con la donna: la giudichiamo degna di amore e poi fidiamo sempre in lei e lei fida in noi!

Se tu non trascuri la tua sposa, essa sarà trepida ed affettuosa verso di te, solo ed unico suo uomo: la moglie del saggio non ha amanti!

Voi giudei di Palestina, pur avendo la stessa concezione della donna, tendete a lamentarvi con

Cohelet: ho anche scoperto che la donna è più amara della morte: essa è tutta una rete, il suo cuore un laccio, le sue mani catene, ma ,come noi, dite meglio un piatto di legumi e con esso l'amore che un bue ingrassato e l'odio con esso.

Comunque noi giudei in genere teniamo le nostre donne chiuse ed evitiamo che esse abbiano contatto con uomini: noi le teniamo separate anche perché pensiamo che la vita maschile abbia regole diverse da quella femminile: affidiamo loro gli ambienti femminili, camere, gineceo, cucine e giardini e le impediamo la vita attiva e cittadina: la nostra è una società di maschi, che hanno il potere e che regolano la vita femminile.

I greci da secoli hanno liberato la loro donna dalla condizione di serva dell'uomo e di oggetto di piacere ed hanno apprezzato, grazie alle etere, il gusto della conversazione con le proprie mogli, anche se spesso le disprezzano, alla ricerca di amanti ed amasi, cadendo nei vizi contro natura.

E voi romani, nonostante i vizi appresi dai greci, avete grandi figure di donna, che operano politicamente per i mariti, che fanno politica e sono madri: la diva Augusta Livia, Antonia ed Agrippina esprimono tre modi diversi di essere donna e domina.

Certo, disse Agrippa, la nostra donna in Palestina vive da secoli secondo il costume giudaico puro: noi riteniamo indispensabile che la donna sia rigidamente chiusa, esemplare, educatrice di figli: neanche deve alzare lo sguardo davanti al suo marito signore.

Ogni giudeo, comunque, vive il suo rapporto teneramente con la sua donna, che è padrona assoluta nell'intimità della casa e domina, sa gestire le sue amicizie, e con la sua pietà attira la benedizione di YHWH sulla famiglia.

Beh! Fece Seneca: per quanto riguarda la donna romana certo ora dopo l'editto di Augusto sui costumi, la morale femminile si è alquanto contemperata, ma prima...

Prima, però, (ed ancora ce ne sono segni di impudicizia ed immoralità) la donna si era corrotta, divenuta anch'essa philoplutos e philotimos, ed era arrivata alla massima depravazione: Precia, Sempronia, Clodia, Giulia maior e minor ne sono esempi chiarissimi, che hanno mostrato come una donna possa rovinare gli uomini e a quale fondo di scostumatezza possa giungere: esse spesso sono i cancri delle famiglie.

Posso aggiungere che il più grande dei medici e fondatore della medicina affermava che alle donne non cadevano i capelli e che esse non soffrivano di podagra perché queste erano malattie maschili.

Ebbene ora le donne hanno anche queste malattie maschili, avendoci voluto imitare in tutto: infatti esse ci eguagliano in ogni cosa: passano le notti in veglie di piaceri, gareggiano come noi negli esercizi fisici in palestre, tracannano vino puro, rigettano vomitando quello che hanno mangiato e come noi, succhiano il ghiaccio per dare refrigerio alle viscere riarse.

Nella libidine poi ci superano perfino: destinate dalla natura a subire l'azione del maschio, gli dei e le dee le mandino in rovina!, le donne hanno inventato un genere così perverso di impudicizia che sono esse a cavalcare gli uomini, si comportano come etere, che danno e cercano il piacere sessuale, dimentiche della maternità: esse ci cavalcano, amici!

E tutti risero di cuore, leggendo l'indignazione dello stoico, di norma composto ed apatico.

I convitati sentivano ora la presenza delle donne, l' avevano già avvertita da tanti segni sia per la addobbo della sala tricliniare, sia per la disposizioni dei tori, i cui piedi di avorio luccicavano, che per la cura dei piatti e per l'ordine delle portate: di tanto in tanto, qualche grido di bambino, subito contenuto dalla voce di una donna, arrivava nella sala e faceva sorridere.

Ci fu un'altra pausa nella cena per l'alabarca.

Un servo una seconda volta aveva interrotto la sua cena: aveva detto che il direttore della Banca chiedeva di essere ricevuto per un affare urgente, a voce alta, davanti a tutti.

Dopo un po' comparve un giudeo piuttosto giovane, con la barba squadrata, che chiese di poter parlare davanti agli amici.

Avuto il consenso, informò di aver applicato il 7 per cento ai babilonesi, inviati da Asineo, che aveva chiesto il prestito e che aveva sottratto l'affare ai banchieri di Rodi, che pur prestavano al 6 per cento.

L'alabarca ringraziò il suo funzionario per l'affare, si congratulò ed uscì con lui per stabilire i dettagli dell'operazione finanziaria.

Filone spiegò che da tempo amici giudaici di Babilonia avevano chiesto un prestito per fare da tramite delle merci che altrimenti sarebbero passate per il mar Eritreo e sarebbero state acquistate da Callisto e che solo, dopo la garanzie del satrapo, era stata fatta l'operazione.

Quando rientrò l'alabarca, Agrippa, vedendo la soddisfazione dell'emporos, disse: ad maiora, cugino.

La cena andava rapidamente verso i pospasti: Seneca prese congedo un po' prima della fine, perché doveva presentarsi dalla zia, la sua benefattrice con cui accordarsi per la partenza, salutò tutti con un invito a rivedersi presto a Roma.

Si appartò con l'alabarca da cui seppe la situazione a Roma molto confusa a causa della lotta tra il partito giulio e quello tiberiano: Seiano sembrava intenzionato ad eliminare non solo i due figli maggiori di Germanico, già imprigionati ma anche la loro madre Agrippina, pur difesi dal popolo.

Alessandro disse impassibilmente mostrando solo dolore per la condizione della famiglia augusta e mostrando perplessità circa il comportamento dell'imperatore. Condannò fermamente l'eccidio di giudei fatto da Seiano nella capitale, deplorò la confisca dei beni giudaici e la distruzione delle sinagoghe e chiuse rivolgendosi a Dio. Adonai protegga il tuo viaggio e sia con te a Roma.

Filone si confidò con Agrippa e con la sua ombra dicendo che avrebbe amato tanto andare a Roma ma ancora di più a Gerusalemme, a vedere i luoghi dei padri e pregare al tempio: anche lui, spoudaios, sophos, veggente, doveva trovare il tempo per fare quel viaggio per ricercare la propria radice, per ripercorrere la strada fatta dagli antenati e per vivere una Pesach vera, come fuga dall'Egitto.

16/12/2009





        
  



2+3=

Altri articoli di...

Cultura e Spettacolo

04/04/2025
Una serata di emozioni e scoperte (segue)
31/10/2022
Il Belvedere dedicato a Don Giuseppe Caselli (segue)
27/10/2022
TEDxFermo sorprende a FermHamente (segue)
27/10/2022
53 anni di Macerata Jazz (segue)
26/10/2022
Il recupero della memoria collettiva (segue)
26/10/2022
Giostra della Quintana di Ascoli Piceno (segue)
23/10/2022
A RisorgiMarche il Premio "Cultura in Verde" (segue)
22/10/2022
Porto San Giorgio torna a gareggiare al Palio dei Comuni (segue)

San Benedetto

04/04/2025
Una serata di emozioni e scoperte (segue)
12/10/2022
Studenti omaggiano il Milite Ignoto (segue)
10/06/2020
Samb: Serafino è il nuovo presidente! (segue)
27/01/2020
Istituto Professionale di Cupra Marittima: innovazione a tutto campo. (segue)
25/01/2020
Open Day a Cupra Marittima, al via il nuovo corso Web Community – Web Marketing (segue)
19/01/2020
GROTTAMMARE - ANCONITANA 1 - 3 (segue)
13/01/2020
SAN MARCO LORESE - GROTTAMMARE 1 - 0 (segue)
10/01/2020
UGL Medici:"Riteniamo che gli infermieri e i medici debbano essere retribuiti dalla ASUR5" (segue)
ilq

Una serata di emozioni e scoperte

ASPIC Psicologia di San Benedetto del Tronto presenta il Centro Psiconutrizionale

Betto Liberati