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"La salvezza..dall'Egitto"

San Benedetto del Tronto | La IV puntata(Seconda parte) del romanzo"L'eterno e il regno" di Angelo Filipponi

di Angelo Filipponi

Anno di Roma 783 - consoli M. Vinicio e L. Cassio- anno 30 d.C.

Tiberio fece uccidere A.Gallo, marito della sua ex moglie, dopo averlo accolto in modo del tutto particolare, per cui la vittima subì un trattamento, incredibile, che non era mai toccato a nessuno: nello stesso giorno, in cui si trovava a banchettare presso Tiberio e beveva con lui la coppa dell'amicizia, venne condannato in senato cosicché venne inviato un pretore ad arrestarlo e a condurlo via per essere sottoposto alla condanna.

Dione Cassio, Storia Romana, LVIII,3,7

Seiano mosse false accuse anche contro Druso (figlio di Germanico e di Agrippina), avvalendosi dell'aiuto di sua moglie.

Infatti, poiché intratteneva relazioni adulterine con le mogli di quasi tutti i cittadini importanti, venne a sapere tutto quello che essi dicevano o pensavano ed inoltre le rese collaboratrici, promettendo loro che le avrebbe sposate.

Cassio Dione, Storia Romana, LVIII,3,8

Seiano stava diventando sempre più potente e temibile a tal punto che i senatori e gli altri cittadini si rivolgevano a lui come se fosse l'imperatore, mentre tenevano Tiberio in poco conto.

Quando Tiberio venne a saperlo, non sottovalutò il problema né se ne disinteressò, dato che temeva che designassero Seiano imperatore in aperta contrapposizione a lui: in ogni caso non fece nulla apertamente poiché Seiano aveva un'enorme influenza su tutta la guardia pretoriana (Seiano era capo dei pretoriani dal 20, quando il padre, che condivideva l'incarico con lui, divenne Prefetto di Egitto, e le aveva riunite nei Castra praetoria cfr. Tacito, Annales, IV 2 ,1-2 - Svetonio, Tiberio 37) e si era guadagnato l'appoggio dei senatori, asservendoli parte con doni, parte con promesse e parte con l'intimidazione.

Inoltre si era reso amici tutti i collaboratori intimi di Tiberio a tal punto che gli veniva subito comunicato quello che diceva o faceva, mentre nessuno informava Tiberio di quello che faceva Seiano.

Tiberio, dunque, lo raggirò perseguendo un'altra tattica: lo designò console, lo chiamò compagno delle sue preoccupazioni, ripetendo l'espressione "mio Seiano", che palesava non solo quando scriveva al senato, ma anche al popolo: gli uomini, ingannati da questo comportamento che ritenevano sincero, innalzavano ovunque statue di bronzo in onore di entrambi, scrivevano i loro nomi insieme nei documenti e portavano dei seggi dorati nei teatri sia per l'uno che per l'altro; alla fine venne decretato che venissero designati consoli insieme per cinque anni e che una scorta andasse incontro ad ambedue, ogni volta che rientrassero a Roma

Da ultimo poi sacrificavano alle immagini di Seiano come facevano con quelle di Tiberio

Dione Cassio, Storia Romana, LVIII,4.1-4.

Anno di Roma 784 Consoli Tiberio e Seiano, anno 31

Quando venne a sapere che Druso, suo figlio, era stato avvelenato da sua moglie Livilla (figlia di Druso e di Antonia Minor) e da Seiano, che lui aveva associato agli onori strategici e che aveva reso sumboulos (consigliere) e uperetes pros panta (ministro in tutti gli affari) e che gli aveva dato in moglie Giulia, lo uccise.

Dione Cassio, Storia Romana, LVIII, 3,9

Quando Seiano stava preparando una rivoluzione, benché vedesse che già il suo genetliaco veniva celebrato come una pubblica festività e che in vari luoghi le sue immagini d'oro venivano esposte al culto, si decise finalmente di toglierlo di mezzo e più con l'astuzia e l'inganno che con l'autorità di un principe.

Infatti dapprima per allontanarlo con l'apparenza di rendergli onori se lo fece collega nel quinto consolato...

Poi dopo averlo ingannato col fargli balenare la speranza di stringerlo in parentela (N. B. precedentemente nel 25 aveva rifiutato di dargli in moglie l'ex moglie di suo figlio Druso, Livilla, ed ora sembrava volergli accordare Giulia, moglie di Nerone, figlio di Germanico) e di conferirgli la tribunicia potestas, quando meno se lo aspettava, lo denunciò con una orazione vergognosa e miserevole, in cui, tra l'altro, scongiurava i senatori di mandargli uno dei consoli con una scorta militare per accompagnarlo fino a loro, perché era vecchio e solo.

Per, sempre diffidente e temendo anche che potesse scoppiare qualche tumulto, aveva dato ordine in caso di necessità, di liberare suo nipote Druso, che teneva a Roma in stato di arresto e di affidargli il comando.

Aveva anche preparato le navi con cui pensava di cercare rifugio presso qualche legione e da una rupe altissima stava continuamente a osservare i segnali che aveva dato di innalzare da lontano, appena succedesse qualcosa per non essere costretto a subire ritardi a causa del tempo necessario a portare notizie.

Del resto una volta schiacciata la congiura di Seiano, non sentendosi affatto né più sicuro né più deciso per nove mesi consecutivi non uscì dalla villa, detta di Ione .
Svetonio, Tiberio, LXV

Tiberio, simulata una malattia, inviò avanti Seiano a Roma, come se anche lui stesse per arrivare tra breve, dicendo che si separava da lui una parte del suo corpo e della sua anima e piangendo, lo abbracciò e lo baciò

In questo modo Seiano si esaltò ancora di più.

Seiano era così insuperbito in ragione del suo smisurato orgoglio e del suo grande potere che in poche parole sembrava che fosse lui l'imperatore e che Tiberio lo fosse di un'isola, dato che trascorreva il tempo nell'isola di Capri: la gente si assiepava premurosamente davanti alle porte di casa sua, preoccupata non solo di non essere vista da lu ,ma anche di comparire tra gli ultimi nell'andargli incontro, dal momento che venivano attentamente osservati ogni singola parola e ogni singolo gesto, soprattutto quelli dei primi cittadini

Dione Cassio, Storia Romana, LVIII, 4,8; 5,1.

Tiberio continuava ad inviare sia a lui che al senato molte e diverse notizie sul suo conto , ora dicendo di non sentirsi bene e di essere ormai sul punto di morire, ora dicendo invece di godere di ottima salute e di essere pronto a venire subito a Roma; ora elogiava Seiano in tutti i modi ora lo denigrava altrettanto profondamente e se, da un lato, onorava alcuni dei suoi compagni proprio per merito suo, dall'altro ne disonorava altri.

Perciò Seiano era ora in preda a grande esaltazione ora ad incontrollata paura, alternava uno stato d'animo all'altro: infatti da un lato, dato che era onorato, non aveva bisogno di temere, e quindi di tentare un colpo di mano ma, dall'altro, poiché veniva abbattuto, non gli consentiva né assumere un atteggiamento di audacia né intraprendere di conseguenza qualche impresa ardita.

I senatori mantenevano una posizione intermedia, privatamente si preoccupavano della propria sicurezza, ma pubblicamente cercavano di ingraziarsi Seiano per varie ragioni tra le quali emergeva il fatto che Tiberio aveva designato sacerdoti insieme a Gaio sia Seiano che il figlio di lui: così gli conferirono l'imperium proconsulare (anthupatiken ecsousian), inoltre votarono che coloro che di volta in volta diventavano consoli dovessero esercitare la carica secondo l'esempio di Seiano (kata to ekeinou zeloma).

Tiberio dunque lo onorò con le insegne sacerdotali, ma non lo convocò per conferirgliele anzi, sebbene Seiano gli avesse chiesto di trasferirsi in Campania, avanzando come scusa la malattia della fidanzata (Giulia o Giulia Livilla?) il principe gli ordinò di rimanere dov'era, dato che sarebbe arrivato lui stesso, da lì a poco.

Per queste ragioni, allora, Seiano si trovava nuovamente in un diverso stato d'animo. Si aggiunga anche il fatto che Tiberio, dopo aver designato Gaio sacerdote, lo elogiò e lasciò intendere che lo avrebbe reso suo successore al trono.

E Seiano avrebbe dato il via ad una ribellione sfruttando soprattutto il fatto che i soldati erano pronti ad obbedirgli in tutto se non avesse percepito che il popolo andava fiero della fama, di cui godeva Gaio per il ricordo di suo padre Germanico; in un primo momento, infatti, pensò che anche i soldati fossero dalla sua parte ma, come si rese conto che essi sostenevano la causa di Gaio, si perse di animo.

E mentre si pentiva di non aver dato inizio ad una ribellione durante il suo consolat, gli altri cambiavano non solo per queste ragioni ma anche per il fatto che Tiberio aveva prosciolto un nemico di Seiano, il quale dieci anni prima era stato scelto per governare la Spagna e che in quel tempo, invece, proprio per iniziativa di Seiano si trovava sotto processo per alcune accuse; per tal caso il principe, allora, in questo periodo, concesse una forma di immunità a coloro che stavano per entrare in carica come governatori di alcune province o a coloro che stavano per assumere qualche altro incarico pubblico. Inoltre in una lettera indirizzata al senato in cui si parlava della morte di Nerone,Tiberio nominò Seiano chiamandolo semplicemente col suo nome, senza l'aggiunta dei titolo consueto.

Infine, dato che si tenevano sacrifici per Seiano, il principe vietò che ciò avvenisse per chiunque altro e, siccome venivano anche votati molti onori a favore di lui, impedì anche che si deliberasse qualsiasi cosa in suo stesso onore.

In verità, aveva già vietato questa pratica, ma a quel tempo rinnovò il divieto proprio per Seiano: del resto uno che non consentiva che si facesse qualcosa del genere neppure per sé, non lo concedeva certo ad un altro.Per questo motivo dunque la gente cominciò a disprezzare Seiano ancora di più al tal punto che era piuttosto evidente che faceva di tutto per evitarlo e per non rimanere sola con lui.

Quando Tiberio si rese conto di ciò, con audacia, confidando sull'apporto del popolo e del senato, lo attaccò.

Dopo aver diffuso la voce secondo cui gli avrebbe conferito la tribunicia potestas (ecsousian demarchiken, carica che comportava il potere di veto- ius intercessionis- e di coercizione -ius coercitionis -e il diritto di presiedere le assemblee popolari e del senato- ius agendi cum populo et cum senatu e che rendeva la persona fisica inviolabile dando la sacrosantità -) in modo da coglierlo il più possibile di sorpresa inviò in senato una comunicazione contro di lui, servendosi di Nevio Sertorio Macrone, che egli aveva preposto segretamente al comando delle guardie del corpo e che aveva precedentemente istruito su tutto quello che si doveva fare. Questi, giunto a Roma, di notte, come se si fosse presentato per qualche altro affare, comunicò le istruzioni a Memmio Regolo, che era console in quel momento (il suo collega L. Fulcinio Trione, invece, era dalla parte di Seiano) e a Grecino Lacone, che aveva il comando dei vigiles..

Quando Macrone, allo spuntare dell'alba, salì sul Palatium (l'assemblea del senato, infatti, stava per riunirsi nel tempio di Apollo) incontrò Seiano, il quale ancora non era entrato in assemblea e vedendo che era turbato per il fatto che Tiberio non gli aveva comunicato nulla, lo rincuorò dicendogli in via privata e confidenziale che gli stava portando il conferimento della tribunicia potestas.

Seiano, rallegratosi molto per questa notizia, si precipitò in senato: Macrone allora rimandò nel castro pretorio i pretoriani, che accompagnavano Seiano e che si trovavano nei pressi del senato dopo aver mostrato il potere di cui era investito e dopo aver dichiarato di recare una lettera, con cui concedeva loro dei doni da parte di Tiberio.

Quindi, dopo aver collocato i vigiles intorno al tempio, al posto dei pretoriani, entrò nell'interno, consegnò la lettera ai consoli ed uscì prima che venisse letta una sola parola; diede poi ordine a Lacone di rimanere di guardia sul luogo, mentre lui si diresse di fretta verso il campo pretorio per evitare che scoppiasse qualche ribellione.

Nel frattempo fu letta la lettera.

Era lunga e non conteneva un'unica serie di accuse contro Seiano, ma dapprima qualche faccenda di altro genere poi un piccolo rimprovero sul suo conto, di nuovo qualche altra questione e dopo ancora una critica nei suoi riguardi; nella parte finale diceva che due senatori, che avevano una stretta relazione con lui, dovevano essere puniti e che lui dove essere tenuto sotto custodia. Tiberio infatti non ordinò esplicitamente di mandarlo a morte, non perché non volesse ma perché temeva che nascesse un tumulto; in ogni caso, dato che sentiva che neppure il viaggio di rientro a Roma sarebbe stato sicuro, mandò a chiamare uno dei due consoli Questo era tutto quello che la lettera rivelava ma era possibile ascoltare e vedere molti e diversi effetti che ne conseguivano.

Quando Regolo lo chiamò, egli non gli prestò ascolto non tanto per orgoglio (ormai infatti era già stato umiliato) quanto perché non era abituato a ricevere ordini . Appena il console, alzando la voce e contemporaneamente puntò il dito verso di lui , lo chiamò una seconda volta ed una terza dicendogli: "Seiano, vieni qui" egli rispose semplicemente:"E'm, che stai chiamando". E dopo un poco, Seiano si alzò e Lacone , che intanto era rientrato, gli si pose accanto. Quando alla fine venne completata la lettura della lettera, tutti insieme inveivano contro di lui e lo insultavano, alcuni perché avevano subito delle ingiustizie da parte sua, altri ancora perché compiaciuti della sua caduta. Sulla condanna a morte di Seiano Regolo non fece votare i senatori né tutti insieme né solo alcuni per paura che qualcuno gli si opponesse e che, di conseguenza, ne nascesse un tumulto, dato che Seiano contava molti parenti ed amici; invece dopo aver interrogato un solo senatore e dopo averne ottenuto il consenso sulla carcerazione di Seiano,condusse l'imputato fuori del senato ed insieme agli altri magistrati e a Lacone lo portò giù in prigione. In quella circostanza si sarebbe potuto constatare la fragilità umana, in tutti i suoi aspetti, tanto che nessuno mai più avrebbe potuto insuperbire fino a quel punto.

Infatti, colui che tutti avevano scortato al senato come il migliore, ora era trascinato in prigione come uno qualsiasi; colui che in precedenza avevano ritenuto degno di molte corone, ora era incatenato e messo in ceppi; colui che proteggevano come un padrone, era guardato a vista come schiavo fuggitivo e ne veniva scoperto il volto, quando tentava di nasconderlo; colui che avevano adornato con la toga orlata di porpora, lo schiaffeggiavano; e, infine, colui di fronte al quale si inchinavano e a cui sacrificavano come se fosse un dio, ora veniva condotto a morte. Inoltre, la gente, che lo incontrava, inveiva insultandolo per gli assassini di cui si era reso responsabile e continuava a deriderlo per le speranze disattese. Abbatterono, distrussero e trascinarono via tutte le immagini che lo rappresentavano, proprio come se stessero infierendo sulla sua persona, ed egli divenne così spettatore di quello che avrebbe sofferto di lì a poco. Per il momento lo avevano gettato in carcere, ma poco dopo, proprio nello stesso giorno, il senato, quando si rese conto dei sentimenti della popolazione e quando vide che non era presente nessuno dei pretoriani, dopo essersi riunito nel tempio della Concordia, nei pressi del carcere, condannò a morte Seiano.

In seguito a questo verdetto fu gettato giù dalle Gemonie, e la folla continuò ad infierire per tre interi giorni sul suo cadavere, che in seguito venne buttato nel fiume. Per decreto furono messi a morte anche i suoi figli, e la figlia, che egli aveva fatto fidanzare con il figlio di Claudio, venne prima violentata dal carnefice, dato che non era lecito che una fanciulla illibata venisse giustiziata in carcere. Sua moglie Apicata, invece, non fu condannata, ma quando venne a sapere che i suoi figli erano morti e vide i loro corpi sulle Gemonie, si ritirò, e dopo aver scritto una lettera di denuncia sulla morte di Druso, accusando la moglie di lui Livilla, a causa della quale lei stessa era in qualche modo entrata irrimediabilmente in conflitto con suo marito Seiano, la inviò a Tiberio e si tolse la vita. Così Tiberio lesse la lettera, e quando entrò in possesso delle prove di quanto era stato scritto, mise a morte Livilla e tutti gli altri. Ho anche udito, però, che Tiberio avesse risparmiato Livilla per via di sua madre Antonia, la quale, invece, di propria iniziativa fece morire la figlia d'inedia.

Dione Cassio, Storia Romana, LVIII,9-1

La salvezza... dall'Egitto

Da un corriere era stata portata una lettera ad Erode Antipa, che subito l'aveva girata a suo cognato con l'ordine di provvedere immediatamente.

Sembrava la risposta della pronoia (provvidenza) alla angoscia di Agrippa: Dio inviava Gavriel per un messaggio di speranza, per guidare il figlio, come un padre severo, che di tanto in tanto accarezza, dopo tante bastonature.

Era una lettera di Alessandro Lisimaco Alabarca1, che pregava il tetrarca di inviargli una nave carica di balsamo ed erbe medicinali varie, di aromi di Perea, e di frutta di Esdrelon, come il solito, e diceva che aveva accreditato la somma già nella banca maggiore di Alessandria e che il suo agente, il suo trapezites poteva già servirsene.

C'era una preghiera finale: aveva bisogno di tektones per la ristrutturazione della villa di Cànopos destinata da tempo a quel suo figlio degenere e chiedeva di inviargli quella squadra, composta di Galilei, che già aveva lavorato per lui alla grande sinagoga: la riteneva molto affidabile e discreta per un lavoro, raffinato, in una casa, pur destinata ad un apostata.

Ad Agrippa si comandava da parte di Antipa di eseguire l'ordine e di condurre con sé Jehoshua e i suoi compagni: non si ammettevano scuse.

Agrippa si sentiva offeso dall'ordine perentorio del cognato, ma ingoiò il rospo perché pensò che il Signore forse indicava la strada dell'Egitto: dall'Egitto era iniziata la rinascita del popolo ebraico, dall'Egitto era iniziato il ritorno alla terra promessa, dall'Egitto erano venute le migliori speranze per i giudei nel corso della storia, anche se l'Egitto era la terra del male, della sensazione, del peccato.

Lui, il peccatore, l'agoranomos di Tiberiade, tanto inviso ai suoi corregionali e ai pagani, avrebbe tratto beneficio dall'Egitto.

Non ho più nulla da perdere. Pensò Agrippa e sorrise.

Perciò, accolse l'ordine con gioia, nonostante l'ira per il tono di imposizione e la forma di coercizione del tetrarca.

Era Alessandria il primo emporio del mondo, il punto di incontro di tutte le razze e civiltà, mercato delle droghe arabe, delle perle del mare persiano, delle gemme indiane e della seta cinese, la capitale dell'industria tessile e della carta.

Il suo porto, in cui confluivano le merci d' Africa, dell'Oriente e dell' Europa, era il più grande del Mediterraneo; le sue sette odoi (vie) lunghissime e ampissime,orizzontali, tagliate da quattordici vie verticalmente, creavano una trama piacevole, ordinata e funzionale di abitazioni, arricchita da Templi egizi e greci e da sinagoghe: il visitatore era ammirato e dell'armonia, creata da Dinocrate di Rodi, il suo costruttore, e della spettacolarità dei monumenti costruiti successivamente.

Certo Alessandria era la città più industriosa e ricca della terra, più colta ed evoluta di Atene, meno popolosa solo di Roma.

Di quella città aveva molti ricordi e tutti piacevoli: quella città gli portava fortuna e poi la compagnia di quel tekton gli era gradita.

Trasmise subito, allegramente, l'ordine a Sila che ordinò ad Jehoshua di prepararsi per un viaggio in Egitto, insieme al suo padrone, che avrebbe pagato le spese di viaggio sia per lui che per i suoi compagni: il mastro non obiettò, anzi una luce si accese nei suoi occhi, indefinita.

Furono inviate lettere per coordinare il trasporto delle merci fino a Cesarea, dove sarebbero state imbarcate su una delle tante navi da carico dell'Alabarca.

Agrippa e i suoi, fatti i preparativi, giunti insieme ai tektones al porto di Cesarea, si imbarcarono alla volta di Alessandria.

Le navi dell'alabarca anche quelle da carico, erano lussuose e confortevoli per i naviganti di riguardo, che avevano camere con cuccette, stanze con vasche, saloni per la conversazione e per le compravendite.

Le navi dell'alabarca erano case galleggianti, a piani sovrapposti.

Soprattutto erano veloci.

Il viaggio di tre giorni passò in un attimo e permise la conoscenza reciproca di Agrippa e di Jehoshua, accomunati dalla medesima fede, dalle abluzioni (che potevano fare secondo il rito in una cabina-piscina, appositamente allestita per gli amici), dalle preghiere comuni e dalla stessa esaltazione per la venuta del Regno dei Cieli. I due parlarono molto in quelle ore, di ozio, si scambiarono confidenze, simpatizzarono, come suole accadere tra persone che hanno in comune, sostanzialmente, la stessa cultura.

Agrippa conosceva Alessandria ed anche Jehoshua la conosceva: due modi diversi, due angolazioni differenti di una stessa conoscenza: uno l'aveva vista con gli occhi di un erodiano, l'altro da banausos.

I due erano sulla prua della nave e guardavano il mare sconfinato mentre i marinai erano impegnati nelle loro mansioni e i rematori assicuravano una velocità costante di tre miglia all'ora.

Agrippa, mentre lasciava il porto di Cesarea, diceva: Ero bambino quando perseguitato da mio nonno, fuggimmo in Egitto e riparammo in casa del vecchio alabarca, io, mia madre e i miei fratelli, accompagnati da Teudione, subito dopo la morte di mio padre: i miei occhi di bambino videro per la prima volta il faro, il porto, il Sebasteion: mi dissero che andavamo a vedere i cugini.

L'alabarca d'Egitto da sempre sposa una donna asmonea o erodiana: perciò dalla linea materna l'alabarca è cugino per innumerevoli rivoli di sangue comune.

Anche Jehoshua aveva da narrare una storia simile, legata perfino allo stesso Erode, che l'architetto narrava timidamente, in modo confidenziale: Anch'io bambino, appena nato, fui portato in Egitto perché tuo nonno aveva sentito dire di un maran, che era nato e aveva deciso di uccidere tutti i bimbi di Bethlem: mio padre, io, mia madre ed i fratelli fummo costretti a vivere a Pelusio per quasi sette anni.

Abbiamo la storia in comune, tecton, sorrise Agrippa, che ora cominciava a trovarsi a suo agio con Jehoshua: aveva sentito parlare di molti giudei fuggiti in Egitto per sfuggire alla persecuzione di suo nonno; ma non commentò.

Agrippa seguitò a confidarsi: sono tornato una seconda volta ad Alessandria con Germanico 2 e con lui ho visitato l'Egitto, come suo legatus: che trionfo l'entrata in Alessandria! La folla era impazzita: acclamava il giovane comandante, vincitore dei Germani ed ora pronto a combattere i Parti, si prostrava, lo chiamava Heracles, dio Soter. Fummo accompagnati a vedere la tomba di Alessandro: Germanico che lo considerava suo modello, pianse, come temendo qualcosa, come presago della sua morte. Ci portarono a vedere le Piramidi: discutemmo sulla piccolezza umana a sera, durante la cena. Andammo a visitare, accompagnati dai sacerdoti di Amon-Ra, la città di Amenofi IV, Akhetaton, dopo un lungo viaggio sul Nilo di circa 1600 stadi.3

Al centro della città si erge il tempio con un recinto, lungo 5 stadi per tre: si entra nel santuario per un viale fiancheggiato da sfingi: non vedemmo alcun obelisco, ma tutti altari, circondati da tavole offertorie.

Vedendo il tempio più piccolo dedicato a Tiy la regina madre, Germanico pensò ad Antonia e celiò: ce la vedi, Agrippa, mia madre Dea! La dea dei commercianti!

Lì leggemmo l'inno al sole ed io ancora spesso lo recito .Quanto è bello! Senti!

Quando tu spunti all'orizzonti tu irradi, come Aton;

le tenebre si dissipano quando tu lanci i tuoi dardi: le Due terre sono in festa, gli uomini si svegliano, balzano in piedi, sei tu che li fai alzare: e si lavano, prendono le loro vesti.

Le loro mani adorano il tuo sorgere, la terra intera si mette al lavoro.

Tutti gli animali si rallegrano, gli alberi crescono, gli uccelli volano dai loro nidi.

I battelli discendono e risalgono il fiume perché ogni cammino si apre, quando tu ti levi.

I pesci saltano verso di te, i tuoi raggi penetrano fino al fondo del mare...

Agrippa, dopo aver recitato enfaticamente l'inno, seguitò a narrare.

Ci portarono poi, lungo il Nilo, fino a Tebe e da lì a Siene e ad Abu Simbel : l'opera di Ramses II 4 ci apparve nella sua maestà ed io in cuor mio pensavo alla grandezza del faraone e la commisuravo con la saggezza e giustizia di Mose, suo fratello e nostro legislatore.

Tutto ci turbò con la maestosità, ma, senza fiato, restammo davanti alle quattro statue sedute di Ramses scavate nella roccia ad ornamento del tempio della Trinità Amon-Harakte-Ptah, anch'esso scavato nella montagna.

Attoniti e muti rimanemmo davanti alle sei statue, di Ramses, in piedi, e della regina Nefertari, che ornano l'ingresso del tempio della dea Hathor, anch'esso costruito sulla roccia.

Io chiesi licenza a Germanico ed andai a visitare i luoghi dove il nostro popolo era stato prigioniero, al nord, a Pitom e lì piansi davanti ad altri schiavi che ora impastavano la terra con la paglia per fare mattoni: vidi chiaramente quale prova Dio ci fece superare prima di farci ritornare ad essere un popolo libero.

Ed Agrippa seguitava a narrare di Germanico, che, tornando verso Alessandria, invece andò a vedere i colossi di Memnone 5 e che, pressato da Agrippina, la dolce sua sposa, visitò la tomba di Nefertari6 e il tempio di Atshepsuth7.

Jehoshua, da parte sua, marcava la grandezza della cultura Egizia, la sua storia secolare, ma ne vituperava i costumi, da lui conosciuti da bambino e poi, da giovinetto ,quando era venuto con suo padre a costruire la grande sinagoga.

La sapienza egizia è rilevabile per ogni popolo: ma per noi giudei, che abbiamo una storia anch'essa secolare, la cultura è la legge, la sapienza è la sapienza di Dio.

Dio è la nostra vita, Dio ha scelto noi come popolo ed ha scelto te e me come figli prediletti: noi siamo niente, ma lui ci farà grandi; noi nulla possiamo fare ma lui tutto: per noi ha preparato una

strada luminosa, diceva convinto Jehoshua, in tono profetico.

Agrippa seguitava a raccontare la vita trascorsa con Germanico e poi quella con Druso di Tiberio 8 in Illiria e in Pannonia.

Il servizio militare veniva enfatizzato con ricordi anche stupidi, ma significativi anche per mostrare la diversità dei due duces romani, ambedue ora venerati come divi.

Raccontava ormai, a ruota libera e diceva tra l'altro :ora siamo ospiti dell'Alabarca, che ha avuto la disgrazia di un figlio degenere, maledetto (Oh! Non bisogna mai nominarlo, né pronunciare neanche il suo nome, davanti a lui!).

Eppure li avessi visti pochi anni fa!

Tra padre e figlio c'era un'intesa perfetta: il padre amava quel figlio più di se stesso, lodava la sua potenza fisica, le sue qualità spirituali e la sua intelligenza: avrebbe dato per quella rara perla tutto il suo avere e la vita stessa; e il figlio stravedeva per il padre: tutto muta su questa terra!

Ora tutto è cambiato: il figlio è lontano dal padre e il padre dal figlio.

Agrippa seguitava a narrare del figlio dell'alabarca.

Improvvisamente il rapporto si era rotto: per il figlio il padre era un ricco giudeo amico dei romani, che però si beffavano di lui, ridevano di lui gran sacerdote ed usuraio, dileggiavano il nome stesso giudaico.

Il giovane non disse più le preghiere, né santificò il Sabato, né le feste: si vergognava della circoncisione stessa.

Dopo l'efebia, una sera fuggì da casa, andò a Cirene e lì si arruolò come soldato: la casa dell'alabarca da allora rimane in lutto.

Jehoshua ascoltava ed ogni tanto raccontava qualcosa, ricordando volentieri gli insegnamenti di suo padre, un sacerdote, che gli aveva insegnato il mestiere di tekton, ma soprattutto la via della giustizia.

Ed Agrippa chiedeva sul carattere di Yosip9 come per imprimersi la figura di un padre che mai aveva conosciuto, come per capire il modo di essere padre, dopo aver visto il fallimento educativo di sé, come padre.

Allora il galileo parlava, come se dovesse insegnare, con dolcezza, rievocando la figura paterna. Come artigiano Josip aveva lavorato al tempio e aveva costruito il santo dei santi, insegnando il mestiere ai sacerdoti: solo i sacerdoti possono costruire la parte più segreta del tempio, tu ben lo sai!

Era un giudeo giusto, che dedicava tutto se stesso alla legge, ai figli, alla sua donna, quando non lavorava: il venerdì sera e il Sabato raccontava la storia della nostra famiglia: prediligeva tra i nostri antenati Jehudah di Yaqob, più di Isai: gli sembrava un gran padre e un buon marito, il modello di giudeo familiare, mentre David e Salomone, nella loro grandezza, appartenevano alla nazione non alla famiglia: lui così si sentiva un davidico, che seguiva le grandi orme della sua stirpe.

Egli aggiungeva: mio padre sembrava severo ma era solo burbero: diceva sempre che un figlio cresce bene con la frusta, ma lui con lo sguardo domava ogni suo figliolo, con la voce e, raramente, con la mano.

E come ogni sacerdote sapeva narrare e spesso univa alla storia ebraica e familiare vicende fantastiche: alla mia nascita raccontava che una stella brillò nella notte, che angeli davano la notizia ai pastori che vennero a visitarlo, che re magi caldei giunsero a Bethlem dopo un lungo viaggio per portare doni.

A mia madre, che aveva sognato poco prima del parto di avere nel grembo un fuoco che ardeva il mondo, mio padre, da profeta, spiegò che il bimbo avrebbe diffuso l'amore e la sapienza in ogni parte della terra e sarebbe stato maran.

Ad Alessandria, quando venni con lui, che lavorava con tanti altri alla grande sinagoga vedevamo qualche volta l'alabarca.

Tutti guardavano l'alabarca e lo invidiavano per la ricchezza, ma lui diceva: La vera ricchezza è Dio e aggiungeva di non invidiare l'emporos: un uomo, quanto più è ricco, tanto più è infelice; Shaddai, l'altissimo è con gli umili!

Egli perciò mi esortava a separarmi dagli altri pagani e dagli ellenisti e a sognare il Regno dei cieli: era un vero maestro di vita.

Nei momenti di sconforto e di dolore mi tranquillizzava, mostrando se stesso tranquillo e fiducioso in Dio: Adonai è con noi che soffriamo; Adonai è presente.

Adonai, nostro padre ama il sofferente,figliolo! Era la sua conclusione preferita.

Ed Jehoshua, anche lui concludeva, ridendo, che in lui dominava l'educazione paterna, impostata sulla tradizione ed invitava Agrippa ad amare gli emporoi, ma a separarsi: certo dobbiamo amarli, ma vegliare ed essere guardinghi:gli emporoi sono fratelli pericolosi, piacevoli, buon parlatori e possono corrompere la nostra anima: il nostro esempio di amore e di giustizia può loro giovare per ritrovare la via del padre.

I due, stando insieme, trovarono che, al di là della differenza di vita, molti pensieri erano vicini e che anche come età non erano poi tanto lontani.

Alessandria, la città di Alessandro Magno, era in vista.

Era uno spettacolo superbo ,degno di una pittura, quello che si mostrava ai loro occhi.

Sembrava un'isola tra due lingue di mare, un'isola su cui sfavillavano luci di varia luminosità.

Agrippa si faceva subito loquace e mostrava la grandiosità del Faro, opera di Sostrato di Cnido, una torre, alta circa 29 cubiti, di pietra, a vari piani, che gradatamente si restringevano, sulla cui cima era acceso un fuoco di legna resinosa, riflesso da specchi concavi.

Le parole di Agrippa, pur precise e appropriate, erano poca cosa di fronte allo spettacolo non solo della torre, ma di una città regale, che appariva splendida nella sua unicità.

Come era grande Alessandria, come era felice la sua posizione, come era bella a vedersi!

Veniva incontro per prima l'isola di Faro, che appariva come un lamed inclinato, attorniata da minuscoli isolotti, su uno dei quali il nocchiero puntava, là dove c'era il faro, ben collegato con forti bastioni all'isola grande, unita da un enorme ponte, al continente e alla città: L'eptastadio.

Esso divideva il porto di Eunostos, (racchiuso tra l'asta lunga del lamed e la città, al cui vertice c'era il tempio di Poseidon) dal porto grande, che inglobava il porto regale, posto ad oriente.

La fortificazione naturale dell'isolotto di Faro e della penisola (che a guisa di lingua si allungava dal continente, dove si alzava il tempio di Iside Lochia) era stata potenziata con mura ciclopiche.

I lagidi avevano creato dei bracci portuali, che racchiudevano il grande porto, comprendente anche un isolotto spelacchiato.

La nave, ora, entrata nel porto, puntava verso il porto regale, una insenatura naturale racchiudente un golfo, dove si allineavano superbi nella loro bellezza, il palazzo regale, il Mausoleo di Alessandro Magno, La Biblioteca, il Museo e il Sebasteion.

La città era posta su una striscia di terra, simile ad una lingua rettangolare che separava una grande laguna da un braccio di mare, formante un porto naturale.

Entrati nel porto regale, la città si presentava nella sua regolarità di vie e oltre l'agglomerato urbano, ampissimo, s'intravedeva altra massa di acqua, che era il lago Mareotide, dove un altro porto, raccoglieva le navi che veleggiavano sul Nilo.

La posizione di Alessandria, commentava Agrippa, è unica al mondo: eppure Alessandro aveva temuto che essa nascesse in luogo infausto, quando scelse il sito, grazie al verso di Omero10.

Agrippa rievocava poi la fondazione ad opera del Macedone.

Quando fece tracciare la pianta della città, i geometri si servirono di farina bianca, in mancanza di gesso, per segnare le linee sulla pianura di terra nera.

Essi delinearono un'area circolare con un perimetro interno, racchiuso tra due linee, che costituivano la figura di una clamide.

Il re era lieto.

Improvvisamente dal fiume e dalla palude vennero numerosissimi uccelli, di varia grossezza e specie, che formarono come una nuvola e non lasciarono nemmeno un filo di quella farina: il re rimase sconvolto.

Allora Aristandro di Telmesso, il suo indovino, lo consolò dicendo: "tu o re, fondi una città che sarà ricchissima e che nutrirà uomini di ogni genere".

Ora non c'era più tempo di discorsi, la nave era sul molo: bisognava prepararsi per lo sbarco.

Gli ospiti dell'alabarca

Nella grande sala del palazzo dell'Alabarca, nel rione Delta, erano in attesa un giovane romano, esile e pallido e Filone, che erano già in buona conversazione.

I due si conoscevano da tempo e frequentavano la casa dell'alabarca: il romano era nipote di Gaio Galerio, il prefetto della città e Filone era il fratello minore di Alessandro.

L'uno era stoico, l'altro platonico: ambedue, eclettici, tesi a formare una filosofia nuova, come episteme (scienza). Il primo si basava sulla tradizione occidentale, il secondo su quella giudaico-orientale: davano due risposte alternative alla cultura tiberiana teurgico-magica, incentrata sulla vita umana naturale, segnata dagli astri.

Quella mattina era speciale: il romano veniva per congedarsi dai suoi amici perché tornava definitivamente a Roma, dopo quindici anni di permanenza in Egitto; suo padre, grande retore, lo richiamava nella capitale: voleva che si riunisse a lui e al fratello ed approfittava del contemporaneo ritorno a Roma del cognato, che finiva il suo mandato per raggiunti limiti di età.

Il giovane diceva al suo amico, che egli venerava come un maestro e rispettava per la superiore visione della vita, per l'anzianità e per la disponibilità dimostrata in tanti anni: devo tornare a Roma da mio fratello e da mio padre, che hanno fatto grandi progetti su di me e devo essere presentato a Seiano.

Ben ha pensato tuo padre, o amico: Seiano ora, che sta per avere la tribunicia potestas (e Filone marcava il sintagma in latino) associato al potere dall'imperatore, praticamente è il signore dell'impero: da lui dipende l'amministrazione, tutta l'auctoritas è in lui: l'imperatore, chiuso nel suo dolore, è in Campania , si disinteressa del potere e spera che Dio provveda al figlio di suo figlio Druso e cerca negli astri i segni della sua elezione: a lui, saggio, non interessa se il popolo dice che Seiano è signore dell'urbe e lui di un'isoletta.

Certo, il piccolo Tiberio ora avrà un tutor, potente, il partito claudio un capo e i giuli avranno un antagonista forte, capace di ostacolare le pretese imperiali di Antonia ed Agrippina, che hanno già pronto il loro Nerone11 il migliore dei figli di Germanico.

Tiberio ha cercato di guidare la mano di Dio, eleggendo Seiano, ma sarà la pronoia a decidere i destini dell'impero: la volontà di Dio è sempre perfetta, Dio fa sempre il bene dei suoi figli, concluse lo stoico, anche se viene il male.

Il giovane filosofo tossiva: era divorato da una tosse stizzosa quella mattina, a nulla era giovato il clima alessandrino in tanti anni, specie di Canopo, e diceva: il logos certo ordina il mondo: la providentia accorda anche le dissonanze, crea armonia dai contrasti, poiché il Dio, nella sua eternità, vede e fa sempre il meglio per l'uomo: Tiberio indaga la Tuche, legge i segni astronomici, interpreta Trasillo.

Essi stavano spostando il problema dalla politica umana alla pronoia/providentia, usando ora l'uno ora l'altro termine: era stato un costante punto di discussione tra i due, che erano rimasti nella loro personale convinzione, pur dopo tanti incontri.

Lo spagnolo, avendo una formazione pratica, occidentale, neanche era stato scalfito dalla coscienza orientale di Provvidenza, intesa come un disegno divino sull'uomo, che essendo materia, creatura, una nullità, non ha sue possibilità operative positive, ma solo deve attendere dal creatore ogni grazia per salvarsi, per entrare nella sua luce, così da essere un eletto.

L'occidentale da romano, infarcito di cultura ellenistica, era convinto che l'uomo era autarchico nella sua ricerca e che le possibilità infinite di conoscere il theos dipendevano dall'individuo, che nella sua tensione verso il divino incontra il suo creatore: neanche lo sfiorava l'idea che, così dicendo, mostrava la superbia dell'uomo, inconcepibile per un orientale, innalzava il valore dell'individuo, cosciente di poter ricercare con le proprie forze Dio, negato dalla cultura giudaico-persiana, rilevante l'abisso tra creatura e creatore.

Da greco, era convinto che noi uomini, particella divina, partecipiamo di Dio e siamo scintilla che tendiamo naturalmente al padre e vi confluiamo come goccia al mare, come pulviscolo aeriforme all'etere e costituiamo la storia di Dio stesso: da qui la teoria del fuoco eterno di Zenone, di Cleante e di Crisippo, congiunta con la presunzione del civis conquistatore e padrone del mondo, dio tra gli altri uomini.

I due arrivavano sempre a parlare di pronoia e si scontravano sugli opposti in quanto, pur filosofi, avevano alla base una religione differente, che li faceva divergere.

L'uno, da stoico ed ellenista, riteneva che male e bene erano permessi e voluti da Dio per fortificare l'uomo: Dio, come un padre, che proibisce al figlio e lo punisce, agisce per rettificarlo mediante la prova (peirasmòs), che è la palestra con cui l'uomo è reso sapiente, prudente e buono; l'altro da giudeo e platonico, parlava di Dio Ktìstes e del suo logos divisore, che opera provvidenzialmente in quanto Ktistes e demiourgos del creato.

L'arrivo dell'alabarca, che quella mattina per l'occasione aveva chiamato il Maestro di Giustizia dei Terapeuti, Ruben, perché facesse da arbitro, desse ulteriori indicazioni ed indicasse una probabile via di soluzione al problema, fu una sorpresa: essi lo vedevano nel pomeriggio, normalmente, perché era impegnato nei suoi infiniti affari.

Il più grande emporos dell'impero, il referente di tutti i commercianti asiatici e perfino di tutti quelli del regno parto, l'unico al mondo, capace di unire l'imperium romano e parto aveva un'attività frenetica, un ritmo impossibile per un mortale.

L'uomo più ricco della terra, amato ed odiato e soprattutto invidiato da romani, greci e parti era raro vederlo anche per i familiari: era più facile incontrare un re che cercare di trovare l'alabarca, prezioso come l'imperatore.

L'uomo più ricco del mondo aveva bisogno solo del tempo: la giornata era troppo breve, le ore troppo corte, i minuti inesorabili nella loro velocità.

Aveva un impero da amministrare sia come proprietario terriero, che come industriale, come commerciante, e specie come banchiere.

Le sue proprietà terriere, maggiori, si diceva che erano in Egitto, ma anche in tutta l'Africa: intere zone lungo il Nilo, vaste pianure in Libia, in Tripolitania in Byzacena e Mauritania erano piantate a grano con cui riforniva Roma e l'Italia.

Aveva messo le mani sulle pianure costiere betiche, tarraconensi, narbonensi e viennensi e perfino in Sicilia e in Tuscia, nel Peloponneso, in alcune isole greche e in punti strategici dell'Asia minore.

L'alabarca, inoltre, aveva piazzato emporeia in tutto il bacino del Mediterraneo, dove c'era una comunità di giudei, che praticamente lavoravano per lui e come commercianti e come agenti bancari, tanto da poter vendere, grazie alla velocità della sua flotta, rapidamente la polvere d'oro, la tartaruga e l'avorio, vetri e profumi in tutto l'occidente e da arrivare a vendere tela perfino in Britannia e da produrre vesti nazionali per le popolazioni indiane ed arabe.

All'alabarca il tempo non bastava per dare ordini, per fare riunioni, per stabilire quantità di derrate da inviare nelle varie parti del mondo, per spedire navi da carico, per ricevere legazioni.

Era fortunato l'alabarca ad avere dioichetai (amministratori) abili come lui, che guidavano e controllavano il giro di affari, che facevano funzionare trapezai (banche) in tutto il mondo: ogni porto aveva una sua succursale suoi agenti, sullobistai (cambiavalute ed usurai) e trapezitai (gestori di banco e direttori di banca).

L'alabarca era l'alabarca, il magistrato supremo, l'etnarca dei Giudei di Alessandria, che comportava da una parte il ruolo di esattore delle tasse e da una altra era capo spirituale della comunità giudaica, che aveva un proprio tempio a Leontopoli, pur avendo sacro il monte Sion col tempio di Gerusalemme.

Oltre, quindi, all'attività di riscossione delle tasse, data in subappalto a greges di pubblicani, che erano anche suoi agenti privati, Alessandro era il capo della ekklesia (comunità) alessandrina: era il sommo sacerdote del tempio egizio, il capo del sinedrio, dei 70 senatori alessandrini, la guida spirituale di quasi tutti i giudei ellenisti, salvo pochi dissidenti cirenaici.

E come capo spirituale egli soffriva perché era considerato un corrotto, un impuro, uno scismatico dagli ortodossi di Palestina, che vivevano separati dai goyim.

Non aveva pace l'alabarca: la sua attività era continua: la sua abilità eccezionale, la sua compostezza proverbiale: sapeva dettare lettere a più tachigrafi contemporaneamente e lavorare ad altri progetti con agenti che gli relazionavano circa le sue entrate ed uscite, svolgeva allo stesso tempo la funzione di guida spirituale e di amministratore finanziario del Tempio di Leontopoli; era anche il referente per tutto l'occidente dei pubblicani romani e il commerciante all'ingrosso maggiore del mondo, di ogni genere di prodotti: perle, o nafta, grano o sale, profumi o agrumi tutto doveva passare per le sue mani e quindi avere la mediazione tramite suoi agenti e subagenti.

La sua casa era la sua banca centrale, accanto alla Borsa, vicino al Sabasteion, sul porto: era una vera reggia, inferiore solo a quella imperiale, costruita con i materiali più raffinati e secondo le tecniche migliori e per il riscaldamento e per la refrigerazione.

Si diceva che in ogni punto egli potesse ascoltare i discorsi fatti dai suoi agenti, che pur erano numerosissimi e che avevano ognuno una propria stanza, in cui veniva trattato un specifico settore di cui era responsabile: chi gestiva la seta, chi la porpora, chi prodotti agricoli, chi i beni voluttuari, chi i materiali edili, chi preziosi per donne, chi altre cose.

Ogni dioichetes aveva un gruppo di agenti con a capo un trapezites che faceva l'usuraio e regolava gli affari di sullobistai, di obolostatai (saggiatori dell'autenticità delle monete) piccoli rivenditori, ed altri subagenti che o tenevano piazze in zone calde del Mediterraneo o viaggiavano come rappresentanti, con l'obbligo di mandare settimanali relazioni ad Alessandria.

Una corrispondenza, dunque, capillare univa la periferica col centro.

L'alabarca raccontava spesso la lezione data da Calano, il gimnosofista, ad Alessandro sulla necessità della centralità: aveva steso una grossa e larga pelle e aveva mostrato che se si collocava in uno degli angoli, gli altri si alzavano e poi aveva mostrato, ponendosi a sedere al centro, che la pelle rimaneva ben tirata in ogni punto.

Io, diceva ridendo l'alabarca,  che così voleva dare un suggerimento spiritoso ai romani, mi siedo sempre al centro e da Alessandria amministro il mondo; anche l'imperatore dovrebbe fare lo stesso. E un impero di tale proporzioni economiche e finanziarie oltre che religioso, doveva essere guidato da una mente eccezionale.

Si parlava di un esercito di agenti e si faceva il numero di 2000 uomini, fedeli e sicuri, senza contare la manovalanza.

Chi regnava su questo impero, doveva avere appoggi politici: l'alabarca era amico della famiglia imperiale dal periodo di Cesare, anzi i suoi antenati avevano fatto affari con i Lagidi e perfino con Pompeo, che era stato chiamato arabarca Asiae, assimilato al sommo pontefice giudaico ellenistico.

Ma con Ottaviano suo nonno e poi suo padre avevano fatto gli affari più grandi: il figlio e nipote di un argentarius e un nummularius non si lasciò sfuggire il mercato egizio.

I suoi famigliari erano amici di Arieo Didimo12, il letterato, il Calcentero, per il cui amore Ottaviano salvò Alessandria dalla distruzione: questi aveva presentato al triumviro il vecchio alabarca che si era offerto di finanziare la campagna contro Antonio e Cleopatra, correndo pericoli mortali..come d'altra parte aveva fatto durante la guerra alessandrina col favorire Giulio Cesare, imbottigliato da Achilla e Potino.Se Antipatro, padre di Erode militarmente ebbe merito nella battaglia di Pelusio, ancora maggiore fu la funzione economica e sacerdotale del vecchio alabarca che spinse i giudei a liberare Cesare e a favorire Mitridate Pergameno: Cesare ebbe, da allora, sempre cari l'alabarca, Antipatro e Hircano II, insomma tutto il giudaismo.

La riduzione dell'Egitto a provincia imperiale dopo la vittoria di Azio, aveva favorito il rapporto tra l'imperatore e l'alabarca, che ebbe in appalto la Banca reale e divenne il numero due, dopo il prefetto, in terra egizia.

In effetti il prefetto era una pedina dell'alabarca che gestiva per lui, sia il monopolio agricolo che la riscossione delle tasse, avendo considerevoli profitti, data la capillare organizzazione.

Il conservatore Tiberio aveva seguitato la politica di Augusto ed Alessandro aveva decuplicato il suo già immenso capitale, facendo da collegamento tra l'impero romano e quello parto raggiungendo con le sue carovane e con le sue navi anche i regni interni e facendo profitto, in nome della sua serietà professionale, della sua ricchezza e della civiltà romana.

Dove arrivava l'alabarca, finiva la cultura tradizionale, attaccata dalla moda, dalla lussuria, dal benessere: in una parola con lui iniziava l'ellenizzazione.

Egli era l'avanguardia delle legioni romane: lui ben lo sapeva e perciò Tiberio lo prediligeva: mentre aveva punito e cacciato i giudei della capitale perché oltranzisti, aveva ribadito i prostagmata lagidi ed anzi aveva sancito la superiorità dei giudei ellenisti sulle altre etnie, quella greca e quella Egizia.

Così facendo aveva riconosciuto la situazione di fatto: la popolazione alessandrina era costituita da 1.200.000 cittadini, di cui 500.000 giudei, (abitanti prevalentemente in tre dei cinque rioni, in cui era divisa la città, sparsi anche negli altri) e 700.000 greci ed egizi, in contrasto fra loro, ma ostilissimi al gruppo dominante.

I giudei, ad ondate si erano stanziati ad Alessandria a cominciare da Psammetico fino all'epoca di Alessandro e dei primi Lagidi: ma con Onia IV, l'antenato dell'alabarca si era costituita una grande comunità giudaica nel 146 a. C., che attraverso varie vicissitudini e gravi pericoli mortali, aveva conseguito l'egemonia tra le etnie, nel periodo augusteo e tiberiano.

I giudei potevano dire di dominare Alessandria e l'Egitto: essi reggevano quasi tutti i nomoi, i topoi e le chorai, svolgevano le professioni migliori: patroni, commercianti all'ingrosso e al minuto, industriali della carta, medici, insegnanti , banchieri, rivenditori di stoffe.

Avevano però nemici acerrimi tra i greci ed egizi: Apione,13 il grande studioso di Omero era la sintesi dell'odio congiunto delle due etnie inferiori, che cercavano di congiungersi ed attendevano un'occasione propizia politica per abbassare la cresta al gallo giudaico.

Dunque Alessandro Lisimaco era un signore riverito nell'impero, il re del commercio, l'alabarca e Filone, suo fratello, diverso come inclinazione, era un filosofo e tra i più grandi del mondo: giustamente disse Germanico al suo arrivo ad Alessandria entrando nella sua villa di Canopo: stirpe di re è quella degli alabarchi, viri mirae opulentiae, ingenii praeclari

Filone, comunque, quella mattina era sorpreso, anche se conosceva la multiforme intelligenza del fratello e la sua grande generosità: certo Alessandro voleva a suo modo partecipare alla discussione ed aveva trovato chi avrebbe parlato come egli avrebbe voluto, ma mai avrebbe fatto.

Ruben, un suo vecchio amico ed antagonista, divenuto il capo dei Terapeuti alessandrini era con lui.

Seneca era meno sorpreso: la casa dell'alabarca era una reggia dove andavano e venivano uomini di ogni colore, religione e razza: l'élite del mondo passava di lì: tre personaggi erano con l'alabarca.

Venne presentato Jehoshua al romano e al fratello col titolo di architekton, mentre per il cugino Agrippa, che era di casa e che conosceva la famiglia dei Seneca, ci furono un saluto ed un inchino reciproco.

Ruben neppure salutò.

L'ospite di riguardo era Ruben, un vecchio con la barba bianca, con la tunica di lino, altissimo, e sembrava ancora più alto per la magrezza: era un contemplativo, a disagio per le sale ampie, per le colonne corinzie, in mezzo agli addobbi rigidamente giudaici.

Il romano, cadaverico ed impacciato, si era alzato e alla romana aveva salutato distrattamente il capotekton (che era quasi della sua stessa età ) ed Agrippa, che conosceva di fama, dicendo lentamente il suo nome ,Lucio Anneo Seneca, di Cordova.14

Davanti al terapeuta Seneca rimase ancora più confuso, data l'aria semplice ed estatica del terapeuta, che sembrava disdegnare la casa e il padrone e l'ospite, specie romano.

Seneca conosceva i terapeuti, uomini che vivevano nel litorale del lago Mareotide, lontano dalla città, che leggevano la Bibbia, adoravano il Sole, durante il giorno e cantavano la notte: campavano di niente, i più mangiavano due volte ogni settimana, i più santi una volta e facevano una grande assemblea, in cui si riunivano tutti insieme il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua: glielo aveva detto Filone, che lo aveva informato sul loro sistema di vita ascetico ed estatico.

Sapeva che essi lasciavano tutto il loro avere e professavano la povertà, rinchiusi entro la misera loro stanzetta, intenti al commento, secondo l'ermeneutica dei padri.

I migliori giudei, esseni, di tutto il mondo venivano da vecchi in Alessandria, considerata la sede centrale di tutto il movimento contemplativo, sia per la clemenza del clima che per la tranquillità

spirituale che potevano trovare non lontano dalla foce canopica.

Non solo maschi, ma anche donne vivevano nella comunità, distintamente.

Una sola costruzione era imponente, posta in alto, quella che era la loro sinagoga e il loro luogo di riunione, dove era anche un muro che separava i due sessi.

Le altre erano tutte casette, semneia o monasteria, che circondavano, in basso, ad intervalli regolari la sinagoga e costituivano tre anelli, con vie confluenti verso il centro: il tutto era su un poggio circondato dal fiume, che faceva un'ansa, quasi circolare, che avvolgeva la collinetta verdeggiante, dove essi facevano le rituali abluzioni con un piccolo perizoma.

Ora il terapeuta capo di Alessandria, il saggio che leggeva ancora la Torah in caratteri ebraici ed aramaici secondo la loro regola, era famoso per le sue interpretazioni dia sumbolon15, era lì, convocato dall'alabarca.

Lui, il venerato anche a Gerusalemme dalla sanhedrim, riconosciuto specie in Palestina come la fonte più autorevole del giudaismo, esaltato perfino da Yohanan Ben Zaccai e da Gamaliel, gli eredi delle grandi scuole di Shammai e di Hillel, era pronto a parlare.

Apriva la bocca, ma lo faceva come a stento, il santo, disabituato al parlare: obbediva faticosamente come per un'imposizione; egli per forza maggiore era lì, ed allargava la bocca, ma non uscivano suoni e poi finalmente dalla bocca cominciò a formarsi un qualcosa di sonoro, che veniva fuori dalla gola, quasi un parto difficile.

L'uomo, che apriva la bocca per pregare e per fare l'augurio mattutino al fratello vicino di buon commento, faticava chiaramente a parlare con estranei: somigliava ad una donna in travaglio, che, avendo un parto faticoso, soffriva e sudava nervosamente, ed istericamente si liberava dal peso.

La sua parola,ponderata, però era dolce, il suo pensiero lucido, la sua comunicazione affabile, nonostante gli scatti improvvisi, i cambi di tono: la sua parola era diretta verità, manifestazione di Dio, euforica convulsione a volte, dolce pazzia talora, spirituale cibo per l'uditore.

Il vecchio sembrava un essere di un'altra dimensione, anche Jehoshua ne era conquistato: parlava della shekinah tra gli uomini, come se ne fosse partecipe, come la sentisse, come se fosse rapito in un'altra sfera, estatico ed impersonale.

Filone interruppe e parve che lo facesse malvolentieri, ma certo lo fece per favorire la comprensione del romano.

L'alessandrino prese la parola , aprendo in effetti la discussione, citando Numeri (17,13) ...e restò tra i morti e i vivi.

Poi aggiunse, come precisazione, il logos sacro corre tra i morti e i vivi e subito fa terminare la distruzione.

Dopo aver citato i versetti iniziali della Genesi pone il teorema della creazione dal nulla e la distinzione tra attività demiurgica ed attività creativa proclamando che Dio è ou demiurgos monon allà kai ktìstes.

In questo Filone mostrava la creazione come kosmos, opera del sommo artigiano (poietes), trascendente ed ineffabile, unico, lasciando aperto il problema della materia creata dal nulla e del logos demiourgos.

Aveva parlato con competenza Filone.

Il nipote di Galerio lo sapeva bene perché ricordava un suo libro ed ora aveva quasi riportato le stesse parole.

Agrippa leggeva inoltre nella sapiente presentazione del problema anche la volontà di fare bella figura con Ruben, ritenuto conservatore e legatissimo alla tradizione.

Ruben aveva un'espressione assorta, lontana.

Egli rispose con calma a Filone, come se non fosse in casa di un emporos, ma fosse ancora in Dio: la sua faccia risplendeva di luce, manifestando la pienezza della luce divina.

Egli diceva in tono pacato e lento: a noi non capita ciò che succede agli assistenti dei malati che possono contrarre la malattia e morire: noi siamo separati da una palizzata massiccia, conficcata nel mezzo, che respinge ogni incursione e ogni assalto del male sul bene, della parte peggiore su quella migliore.

Poi, si rivolse al parente scendendo ad un tono confidenziale: Tu certo, Filone, tu sai, che in Esodo 14 ,20 si legge: eiselthen e nephele mese tes te Aiguptiakes kai tes Israelitikes stratias (si alzò in mezzo la nuvola tra la schiera d'Egitto e quella di Israel) e sai anche come Dio creatore (Ktìstes) tramite la nuvola, non permise alla stirpe atea e dissoluta egizia di inseguire quella temperante ed amica di Dio, quasi fosse un'arma di difesa e di salvezza per gli amici e di offesa per i nemici.

Filone capiva il pensiero di Ruben.

Egli sapeva che l

10/12/2009





        
  



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