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Magdi Allam, la realpolitik dal volto umano.

San Benedetto del Tronto | La recente guerra in Iraq, il Medio Oriente, l'informazione in Italia: a colloquio con il noto giornalista, prossimo vicedirettore del Corriere della Sera.

di Giovanni Desideri

L'analisi delle questioni che affronta è sempre accurata, muovendo dai fatti verso le conclusioni, diversamente da chi impone le proprie conclusioni ai fatti, prima di conoscerli. Il linguaggio che usa è di una precisione 'scientifica', il tono della voce è pacato, cordiale, mai emotivo. Semmai fedele al detto di Spinoza: "a tutte le azioni alle quali siamo determinati da un affetto che è passione, possiamo senza di questo essere determinati da ragione" (Etica, IV, P59). Se venga prima la chiarezza delle parole o quella delle idee non è facile dire: l'insieme fornisce l'insegnamento di un modo di ragionare e di fare giornalismo letteralmente esemplare.

Origini egiziane (è nato al Cairo 51 anni fa), Magdi Allam è in Italia dal '72. Giornalista del quotidiano 'la Repubblica' da più di vent'anni, tra poco meno di un mese assumerà la carica di vicedirettore del 'Corriere della Sera': "la qualifica ma non la funzione", precisa, "visto che continuerò a fare ciò che facevo prima, ovvero ad occuparmi, 'sul campo', di Islam, Medio Oriente, immigrazione".

Lo incontriamo in margine alla presentazione del suo ultimo libro (Saddam. Storia segreta di un dittatore, Mondadori, Milano, 2003, pp. 259, 17,60 €), avvenuta ieri sera, venerdì 8 agosto, presso la Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto, a cura della libreria 'la Bibliofila'.

I temi di cui lei si occupa sono quelli su cui si riversano molte apprensioni da parte degli italiani.
È vero, ma questo mette ancora più in risalto l'importanza di una informazione corretta, che garantisca al lettore il diritto di essere informato e di formarsi poi, autonomamente, un'opinione sui fatti. È questo che permette la pacifica convivenza con gli immigrati e una perfetta integrazione: la conoscenza non distorta della loro cultura. L'Italia ha una grande tradizione di accoglienza, ma deve completare quella trasformazione culturale, già in corso, che consiste nel considerare gli immigrati come una risorsa e non più come un problema. Il Medio Oriente o l'immigrazione erano questioni esotiche fino a 10 anni fa, mentre oggi fanno parte della politica interna del nostro Paese, visto che abbiamo fra gli altri 30 mila musulmani con cittadinanza italiana, persone che rappresentano ormai un patrimonio spirituale acquisito, un fenomeno non più congiunturale, ma strutturale. E l'integrazione richiede una cultura dell'immigrazione, dunque una corretta informazione.

L'informazione in Italia corrisponde oggi a questi parametri?
In generale, il problema dell'informazione è oggi quello di selezionare le notizie rilevanti dal flusso enorme di tutte le notizie disponibili. E un'adeguata opera di selezione delle notizie poteva permettere di evitare l'undici settembre, visti i molti segnali che già si erano avuti di un possibile grande attentato. Il giornalismo italiano sta evolvendo a seguito della tendenza generale ed è affidato sempre più a specialisti di singoli argomenti piuttosto che a giornalisti che si occupano un po' di tutto, come avveniva in passato, magari con uno stile forbito e letterario. Oggi si richiede e si sviluppano competenze sempre più approfondite: 'competenza' ed 'esperienza' sono i requisiti che ci avvicinano ad un modello anglosassone di giornalismo.

Sulla recente guerra in Iraq pensa che sia stata data una buona informazione? Ancora non si sono trovate armi di distruzione di massa.
Ritengo che sia stato un errore, da parte degli americani, tentare di convincere i propri cittadini e il mondo della necessità di rimuovere Saddam Hussein usando l'argomento delle armi di distruzione di massa. Queste armi non solo esistevano in Iraq, ma sono anche state usate, negli anni '80, sia contro gli iraniani, sia contro la stessa popolazione irachena. Ogni giorno si scoprono fosse comuni con migliaia di cadaveri e se in precedenza si parlava di circa un milione di persone uccise da Saddam, oggi questa cifra dovrà essere rivista al rialzo. Ma per questo sarebbe stato meglio parlare senza giri di parole di 'ingerenza umanitaria', come nel caso del Kosovo. Saddam Hussein è responsabile di crimini contro l'umanità e l'intervento per rimuoverlo aveva quindi una legittimità sostanziale, anche se non ha ricevuto la legittimità formale delle Nazioni Unite.

Prima di questa guerra milioni di persone hanno manifestato nel mondo chiedendo la pace: una posizione sbagliata?
No, al contrario. Coloro che hanno manifestato lo hanno fatto per una causa certamente nobile. Ma hanno commesso l'errore di dichiararsi contrari alla guerra senza dichiararsi ugualmente contrari al regime di Saddam Hussein. Così lo stesso Saddam ha potuto sostenere fino all'ultimo che i pacifisti fossero con lui. In alcuni casi, poi, la contrarietà all'attacco militare mascherava solo la difesa di interessi nazionali, come nel caso della Francia, che aveva un contratto in sospeso per il petrolio iracheno per 5 miliardi di dollari.

Gli americani hanno difeso interessi puramente umanitari?
Quello che è avvenuto in Iraq per più di vent'anni giustificava un intervento da parte della comunità internazionale. Non dobbiamo dimenticare che gli iracheni vivevano già in una condizione di guerra, sin dall'insediamento di Saddam Hussein al potere, alla fine degli anni '70. Egli si è reso responsabile del genocidio del suo popolo, di una vera e propria pulizia etnica nei confronti dei curdi, oltre che di un paio di guerre, contro l'Iran e il Kuwait. Migliaia di villaggi curdi sono stati distrutti. Per questo dobbiamo avere l'umiltà e la volontà di non ragionare solo nei nostri termini di occidentali che vivono comodamente e disquisiscono se la guerra sia giusta o meno. Dobbiamo invece prendere in considerazione il punto di vista degli iracheni, che sognavano di liberarsi di Saddam Hussein e oggi ci sono riusciti.

Ma ora che la guerra è finita i problemi non mancano: la democrazia si può davvero esportare?
Nel dopoguerra gli americani hanno commesso più errori di quanti ne abbiano commessi intervenendo per liberare gli iracheni dal loro dittatore. Sarebbe stato importante, per esempio, coinvolgere l'intera comunità internazionale almeno nella gestione del dopoguerra, evitando di imporre le proprie decisioni al popolo iracheno. Ma su questo c'è ancora modo di correggere il tiro. Un altro problema che permane e che non è emerso solo con il dopoguerra è l'alto tasso di violenza che c'è in Iraq, a causa della presenza di residue formazioni paramilitari e di combattenti, circa 6 mila, inviati da Bin Laden. La democrazia dovrà essere costruita direttamente dagli iracheni o non sarà. Ma quello che dall'esterno appare necessario è un doppio livello di democrazia o di rappresentatività: dal basso, per dare voce alle varie etnìe irachene (curdi, sunniti, sciiti, turcomanni), e dall'alto, per gestire una comune politica economica (la gestione del petrolio) e di difesa. In ogni caso la democrazia è una pratica vissuta, un atteggiamento mentale, e non un'imposizione che possa scendere dall'alto.

09/08/2003





        
  



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