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Il Consigliere Primavera a 360° sul rapporto tra coppie di fatto e istituzione famigliare

San Benedetto del Tronto | "Si cerca di evitare che un milione di cittadini italiani subiscano le conseguenze di una vacatio legis anacronistica, che non permette ai conviventi di godere di una serie di opportunità"

di Daniele Primavera*


Gentile direttore,
voglio innanzitutto ringraziarla dello spazio che ha dedicato al tema del rapporto tra coppie di fatto e istituzione famigliare; in un momento in cui i media sembrano avere a cuore solo sensazionalismo e antipolitica, è un grande piacere sapere di aver contribuito, con la semplice presentazione di una mozione, all’apertura di un dibattito che mira ad oltrepassare l’ordinaria attività amministrativa e a proiettarsi nel vasto universo dei diritti civili individuali.

Proprio per questo motivo mi pare opportuno provare ad illustrare il senso della nostra iniziativa, spesso fraintesa e contrastata senza alcuna consapevolezza; tanto che sono piovuti per settimane commenti di personaggi politici che, pur non disponendo del testo ancora in via di elaborazione, si sono sperticati in condanne e sproloqui, mostrando di essere acriticamente attaccati a un preconcetto (o peggio, obbedienti a una gerarchia).

C’è stato persino chi ha presentato una contro-mozione, che paradossalmente è stata protocollata prima della nostra… A costoro non risponderò, poiché credo che la povertà intellettuale e il pregiudizio di certe manifestazioni sia sotto gli occhi di tutti.

Vorrei, invece, cogliere l’occasione per aprire un dibattito ancora più ampio. La mozione, infatti, non ha semplicemente lo scopo di sancire una volontà politica del consiglio comunale; è, in primo luogo, uno spunto per un ragionamento laico, libero, critico su quello che la legislazione consente e riconosce, ma soprattutto sulle condizioni della famiglia tradizionale nella società attuale e sul rapporto che la legge deve instaurare con essa.

Comincerò col fornire qualche dato.

In Italia sono più di 500.000 le coppie di fatto, unioni affettive formate cioè da persone che non hanno contratto un vincolo matrimoniale ma hanno deciso, ad ogni modo, di convivere stabilmente. Si tratta di un fenomeno in espansione, anche se in Italia la convivenza è una condizione relativamente rara. In Francia, ad esempio, le coppie conviventi non sposate sono circa il quintuplo.

Tuttavia, già oggi appare chiaro che le coppie di fatto non sono un fenomeno marginale della società italiana se, come dice l’Istat, coinvolgono più di un milione di individui. Occorre dunque evitare che una libera scelta possa tramutarsi in discriminazione.

La seria e importante legislazione che definisce il diritto di famiglia non è oggetto del contendere politico; non si tratta di apportare una qualche revisione alle prerogative già attribuite all’istituto matrimoniale. Si tratta, invece, di evitare che un milione di cittadini italiani subiscano le conseguenze di una vacatio legis anacronistica, che non permette ai conviventi di godere di una serie di opportunità che sono invece concesse a tutti gli sposati fin dal giorno stesso del matrimonio.

In particolare, se queste opportunità individuali (come, ad esempio, la reversibilità della pensione, o il diritto all’eredità) fossero effettivamente attribuibili solo agli sposati, saremmo di fronte a una duplice discriminazione: verso chi decide di convivere, rifiutando (legittimamente, io credo) l’impostazione del contratto matrimoniale, e verso chi non può che convivere, come gli omosessuali, ai quali non è riservata alcuna forma di riconoscimento sociale delle relazioni affettive. In quest’ultimo caso tale discriminazione appare ancora più odiosa, perché contribuisce a foraggiare antiche e barbare avversioni verso chi manifesta un orientamento sessuale diverso dall’eterosessualità.

Ecco dunque che questa mancanza di legittimazione legale si tramuta in intolleranza; si tratta di un alibi che chiunque, consciamente o no, può decidere di utilizzare a piacimento (“non ho nulla contro i gay, purchè se ne stiano a casa loro, non manifestino in alcun modo la loro preferenza sessuale e non pretendano di essere equiparati alle persone normali” appare la vergognosoa posizione dominante sottintesa da questa abominevole negazione di diritti).

Qualunque iniziativa di legge non può che tener presente questi ed altri dati, nel tentativo (a mio modo di vedere estremamente tardivo) di allineare la legislazione italiana a quella delle più grandi democrazie europee. Tanto per citare cosa succede all’estero, ricorderei che in Francia la legge sui Pacs è operativa del 1999; in Germania del 2001; in Belgio del 2003; l’Olanda molti dei riconoscimenti che oggi chiediamo fin dal ’79; il Regno Unito ha una legge dal 2005, come pure la Spagna; e così via. E spesso queste legislazioni sono venute da governi conservatori, non da pericolosi rivoluzionari armati.

Ma l’Italia, in effetti, è in buona compagnia: nell’elenco dei paesi che non prevedono ancora una legislazione siamo insieme a tutti gli stati dell’ex blocco sovietico, oltre a quella grande nazione notoriamente liberale che è la Turchia, che nel 2006 si è resa colpevole di “sole” 400 violazioni accertate dei diritti dell’uomo (fonte: Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) e dove, tanto per essere chiari, le associazioni gay vengono chiuse direttamente dalla polizia in funzione della “legge per la tutela della moralità”.

Fin qui possiamo circoscrivere il problema strettamente legale, per il quale i DiCo – e, conseguentemente, l’approvazione della nostra mozione che ne incoraggia l’adozione - rappresentano una prima risposta; magari insufficiente, ma bisogna pur cominciare.

Vale però la pena di non essere timorosi ed aprire anche il dibattito su un’altra questione, che ha indirettamente a che fare con la mozione da noi presentata, ma che rappresenta ora un terreno di confronto importante.

In Italia infatti il dialogo su questi temi, che poteva essere affrontato all’interno di una atmosfera civile e di reciproco rispetto, ha assunto toni carichi e inaccettabili. Ricordo non molto tempo fa la cauta posizione di Gianfranco Fini, che disse: “Se ci sono diritti o doveri delle persone che non sono tutelati perché fanno parte di un'unione e non di una famiglia servirà un intervento legislativo per rimuovere la disparità. Naturalmente quando parlo di persone mi riferisco a tutti” – con chiaro riferimento all’universo GLBT (Gay, Lesbo, Bisex e Transgender).

Il clima infuocato che viceversa osserviamo, a mio avviso, è dovuto al fatto che questo dibattito laico mette in discussione, per la prima volta da almeno 30 anni, la leadership culturale della gerarchia cattolica nel nostro paese. Scopertasi in assoluta minoranza, la gerarchia ecclesiastica non ha potuto che alzare i toni su questo argomento (così come fece nella già fallimentare battaglia sul divorzio del 1974).

Con tutto il rispetto che nutro per il mondo cristiano e cattolico, al quale sono stato spesso vicino e che guardo con amicizia, ricorderei che la linea della chiesa è stata e continua ad essere quella di definire rigidamente forme e metodi della sessualità umana, indicando come peccato tutto ciò che esuli dal sesso svincolato dalla sua funzione riproduttiva (l’opposizione radicale ai metodi contraccettivi, chimici o meccanici che siano, ne è la prova).

Questo è perfettamente lecito all'interno di una comunità religiosa; e non mi passa neanche per la testa di discutere l'opportunità di tale scelta.

La domanda però a cui oggi la società, e ancor di più la comunità politica, debbono fornire una risposta è un’altra; se è giusto che lo stato adotti il metro di giudizio della teologia solo per la paura di che alcuni politicanti hanno di perdere il consenso grazie al quale sopravvivono, o se si debba ricercare una legislazione davvero liberale, che garantisca a tutti i cittadini pari diritti, oltre il loro orientamento sessuale e la contrattualizzazione dei propri rapporti affettivi.

La società ha già risposto a questa domanda: il 67% degli italiani, una maggioranza che in parlamento sarebbe schiacciante, guarda con favore all’ingresso di unioni diverse dal matrimonio, così come avviene all’estero.

Ma si sa, il popolo è spesso più “avanti” di chi li governa. Adesso sta alla politica dare una risposta seria, che sappia guardare oltre l’abituale gioco delle parti tra maggioranza e opposizione. Stavolta è in gioco qualcosa di più importante di una coalizione o di un governo, e se le speculazioni restassero fuori dalle stanze della politica sarebbe un grande segno di maturità culturale.

*Gruppo Consiliare PRC - S. Benedetto

16/02/2007





        
  



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