Architetti e politica nella provincia, sfortunata ma non troppo, come la nostra
San Benedetto del Tronto | Qualche mese fa Vittorio Gregotti, nel rispondere ad una domanda sul rapporto esistente tra architetto e politica, ha affermato, che un architetto fa politica, quando vota nel seggio elettorale.
di Arch. Marco Mattioli
Una risposta provocatoria, che esprime quel disincanto nei riguardi della politica sempre più e soltanto sinonimo di amministrazione, e di pudore verso il ruolo esagerato che spesso gli architetti si danno. Renzo Piano, che rispetto a Gregotti è sicuramente meno “impegnato” politicamente, ha, invece, affermato che, se un architetto non sente la necessità di cambiare il mondo, non è un vero architetto.
Anche se autorevoli, queste affermazioni possono essere condivise oppure no. In altre parole, chi prova a fare l’architetto nella provincia italiana, quella sfortunata ma non troppo, come la nostra, di fronte a queste affermazioni denota, normalmente, un certo distacco, perchè non può dedicargli il giusto tempo, impegnato com’è a stare dietro alle avventurose attività di un cantiere o alle interpretazioni delle autistiche norme di un regolamento edilizio.
Alle difficoltà ed ai tempi biblici tanto di un cantiere, quanto di una pratica edilizia, propri della provincia, sfortunata ma non troppo, corrispondono, però, quei tempi morti, che solo la provincia, sfortunata ma non troppo, concede. Tempi di stasi lavorativa, che ognuno – se ne ha voglia – può occupare, però, con particolare ed insospettabile profitto: si ha il tempo per autopromuoversi (sulle riviste, sul web, nelle mostre, etc.), per leggere o per rileggere, per progettare senza committente, ma, soprattutto, se proprio non si vuol perdere tempo, si può cogliere l’occasione per pensare alle cose fatte e, soprattutto, alle cose da fare.
“Pensare”, un privilegio a cui pochi hanno la fortuna di dedicare del tempo. Allora le affermazioni dei “giganti” ci sembreranno più vicine ed i “grandi” problemi, che non ci fanno dormire la notte, ci sembreranno più lontani, più piccoli, in quanto ci appariranno per quella che è la loro effettiva dimensione: giocare a palla alta, di prima, con un solo tocco, anche quando il campo non ha mai conosciuto un filo d’erba e la piccola tribuna laterale, l’unica, è fatta di tubi innocenti. Palla al volo, di prima, sempre, in scioltezza.
Da quella tribuna cadente sembra “risuonare”, con quel ritmo inconfondibile, quello slogan, che un tifoso dall’identità a me sconosciuta gridava e che tutti quelli della mia generazione hanno ascoltato provenire da chissà quale parte degli spalti del vecchio campo sportivo: “Svegliamoci!, svegliatevi!, svegliamoci!, …svegliatevi!”. Una “sveglia” per la compagine locale, quando questa dava segni di stanchezza o di deconcentrazione. Una “sveglia” per gli architetti e per la politica!
Proviamo allora a proporre, senza correre il rischio di essere fraintesi, alcune riflessioni sul tema del rapporto tra architetto e politica, calandole, in modo da essere meno sfuggente, nella realtà locale della città e del territorio in cui viviamo, e che ognuno dovrebbe, nei limiti delle proprie possibilità e capacità, contribuire a migliorare.
Il sottoscritto ed altri colleghi architetti hanno sostenuto, ognuno nei limiti delle proprie possibilità, l’attuale Sindaco – abbiamo fatto politica, come dice Gregotti –, e questo non solo perché si opta per un programma politico o si nutre una particolare stima per il candidato, non solo per mettersi alle spalle l’esperienza amministrativa della destra, ma – e soprattutto – per cambiare in meglio la città in cui viviamo.
Per farlo, però, si deve avere un’idea di città ed il coraggio di prefigurarne una futura. La città, che immagino, è una città capace di rigenerarsi, di rinnovarsi, scrollandosi del peso delle sue stupide paure e delle banalità, che il saccente di turno spaccia per oro colato, credendoci tutti con l’anello al naso ed intenti alla caccia nella foresta.
Per farlo, dunque, occorre coraggio: sia da parte della politica, sia da parte degli architetti, i quali, in particolare, potrebbero almeno provare a cambiare, se non il mondo – come sostiene Piano –, almeno la città, la nostra città.
Ritengo, che San Benedetto non possa più permettersi il lusso di ignorare le risorse intellettuali che, anche nella provincia sfortunata ma non troppo, come la nostra, esistono.
Questa, però, è una scelta che spetta esclusivamente alla politica, e che dipenda proprio da questa scelta la possibilità di dimostrare con i fatti – e non soltanto con le parole – la discontinuità con l’amministrazione precedente e di marcare la differenza tra la destra e la sinistra:
– sospendendo la trasformazione del lungomare, ripensandone radicalmente il progetto;
– costituendo un laboratorio di progettazione urbanistica per il nuovo Piano Regolatore Generale, per definirne l’assetto strutturale ed il piano operativo;
– bandendo per le aree strategiche della città (il porto, l’area Brancadoro e la Sentina) dei concorsi nazionali ed internazionali di progettazione;
– incaricando i migliori architetti locali a progettare le opere pubbliche più importanti (piazze, arredo urbano, edifici pubblici, etc);
– incentivando gli interventi eco-sostenibili, urbanistici ed edilizi;
– premiando la qualità architettonica degli interventi.
C’è una generazione di architetti, che vive con una certa amarezza la condizione della propria città e con disincanto la possibilità di poterla migliorare. Forse, per la stessa amarezza e per lo stesso disincanto Aalto chiamò la propria barca “nemo propheta in patria”: scherzando, ma non troppo, anche se si vincesse il Pritzker Prize, nella provincia italiana, quella sfortunata ma non troppo, come la nostra, si rischierebbe, al massimo, di essere ignorati, ancóra una volta.
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06/11/2006
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