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Di nuovo avanza uno "strano soldato"

Carassai | Se la Manuli per il piceno non è e non è stata soltanto un impianto, ma un luogo intorno al quale si sono sviluppati paesi e frazioni. Se la Manuli è patrimonio pubblico, allora vogliamo appropriarcene oppure no? Forse di nuovo avanza uno "strano soldato"

di Mario Bedini - Massimo Martelli*

Il vento della crisi soffia sempre più forte e qualcuno ne raccoglie i frutti. Gli effetti della perversa spirale fatta emergere dalla bulimia dei subprime e dalla sfera virtuale dei crediti al consumo precipitano nella realtà, con la contrazione della domanda, con la crisi dei settori produttivi, con i licenziamenti, con l'aumento della povertà diffusa, con la perdita dei diritti, con un'ulteriore contrazione della domanda e così via.

Massicce dosi di insulina contabile alle banche e briciole di social card: lo Stato, seppur disequamente, paga; o meglio, i sudditi-cittadini pagano la disequità dello Stato a botta di decreti "anti-crisi", condoni d'oro, riciclaggio di capitali all'estero, via libera alla cementificazione (ulteriore) della penisola, grandi opere, ritorno al nucleare civile, chiusura delle piccole e medie industrie strozzate dai debiti, incremento dei cassintegrati e dei licenziati.

Certo, la crisi è globale e le marachelle del modello liberista dobbiamo pagarle tutti, o quasi. Siamo al momento della solidarietà universale di classe e dell'austerità interclassista: ciascuno solidale alla propria fascia di reddito, tutti austeri (ricordatevi come faceva la spesa, a detta del figlio, la mamma di Berlusconi) e ottimisti a oltranza (chi ha i soldi li spenda, chi non ce li ha se lo immagini di farlo: perdere il sorriso, questo mai).

La crisi è globale e si salvi chi può, ma le crisi si sa, come sempre accade, stimolano l'immaginazione: in questo povero Paese di lavoratori senza lavoro, il futuro - salvo un collasso climatico globale - sta negli investimenti e nell'imprenditoria, nel fatto che il sistema in un modo o nell'altro si cura da sé.

Può sembrare di no ma ci sono molte analogie tra due tragici eventi in atto in Italia, distanti tra loro centinaia di chilometri eppure molto vicini nella fattispecie: la crisi della INNSE PRESSE di Lambrate (prima Innocenti, poi Iri, poi Demag), che vede in questi giorni gli operai impegnati in duri scontri con le forze dell'ordine e quella della MANULI ad Ascoli Piceno, che di fatto dopo 40 anni si appresta a lasciare il territorio con l'apertura della procedura di mobilità per 375 dipendenti (praticamente tutte le maestranze).

Naturalmente ciò che accomuna questi due eventi è il fatto che si tratta di fabbriche e che la crisi in atto non ha soltanto ripercussioni nell'ambito produttivo (il famoso Pil) ma anche rispetto al tessuto sociale ad esse strettamente connesso: la falcidia di posti di lavoro, l'impoverimento dei soggetti interessati, delle loro famiglie, del territorio da esse abitato e vissuto e così via.

Si tratta per giunta di due stabilimenti storici, ciascuno dei quali ha rivestito un'importanza socio-economica incalcolabile nelle rispettive zone di insediamento: l'Innse per l'eccellenza delle qualifiche delle maestranze e delle commissioni, la Manuli, in aggiunta, per aver contribuito alla sopravvivenza di un territorio fortemente penalizzato in risorse e in crisi industriale e occupazionale da tempi immemorabili.

Quaranta dipendenti per Lambrate, trecentosettantacinque per Ascoli Piceno: ecco il numero degli agnelli da sacrificare alla crisi globale. Proprio in relazione a questo, al palinsesto consueto che si usa allestire pubblicamente ogni volta che c'è la necessità (o il dovere) da parte di qualcuno di fare bene il mestiere virtuoso dell'imprenditore, le analogie Lambrate-Ascoli Piceno aumentano.

La Innse è presidiata da 14 mesi ed è stata autogestita dagli stessi operai dopo che il padrone, tal Silvano Genta, decide di fare bene il mestiere dell'imprenditore e di buttarsi sulla speculazione: acquisita la fabbrica per una cifra ridicola (700 mila euro) pensa bene di bloccare le commesse e di cominciare a smantellare e a vendere i macchinari, contestualmente all'invio delle lettere di licenziamento, al fine di acquisire per sé qualche milione di euro.

La zona di via Rubattino, dove ha sede la ditta, interessa poco dal punto di vista produttivo e occupazionale perché può permettere ben più consistenti investimenti sul versante immobiliare: terreni, case, licenze da vendere per la società Aedes, proprietaria dell'intera zona (e alla quale il signor Genta deve diversi milioni di euro per arretrati per non aver pagato l'affitto).

Dunque, per quanto alla Innse non manchino commesse, bilanci positivi, alta professionalità, le ragioni dello sciacallaggio speculativo e del rilancio del sofferente settore immobiliare pesano a vantaggio della chiusura dello stabilimento.

Alla Manuli non va poi tanto male, per quanto fiaccata negli anni, dal punto di vista della formazione professionale e dalle modalità di assunzione, dall'impiego massiccio di lavoratori a cottimo o con contratti "flessibili" rinnovabili settimane per settimane e turni di lavoro non proprio edificanti.

Lo "zoccolo duro" dei dipendenti storici (quelli che in virtù di un contratto a tempo indeterminato - di quel tipo che non se ne fanno più - vengono presi a calci in culo con più difficoltà) ha addirittura contribuito all'esportazione di tecnologia e competenze nel lontano Oriente, in Cina, dove da qualche anno è stato costruito un nuovo stabilimento.

Insomma, la Manuli nel mondo, tutto il mondo sa di Manuli: infatti, la messa in mobilità di un così cospicuo numero di dipendenti fa sentire aria di delocalizzazione, profumi d'oriente, dove una ciotola di riso fa salario e un santino fa attrezzatura di sicurezza.

Nulla di ufficiale, per carità e qualcosa forse sapremo dopo l'incontro dell'azionista della Manuli Rubber Industries con l'incredulo presidente della Regione Marche Spacca. A dire il vero tutti sono stati colti di sorpresa: dal presidente della Provincia Celani al sindaco di Ascoli Castelli (autore, tra l'altro, della suggestiva espressione "11 settembre del Piceno"), dall'assessore per "il lavoro e la legalità" Di Micco ai sindacati tutti. I dipendenti allo stupore devono aggiungervi lo sgomento e la paura per il futuro.

Innse e Manuli hanno dunque in comune il fatto di subire l'eutanasia causa crisi globale: nel primo caso perché il rilancio passa per forza nelle mani e nelle menti dei bravi imprenditori, forse ancora beffardamente sostenitori della vecchia e schifosa tesi che la ricchezza dei pochi provochi e rimorchi anche quella dei molti, anche se finora non ha prodotto che omicidi sul lavoro e una moltitudine di nullatenenti.

Nel secondo caso perché la ricetta del rilancio aziendale passa sempre attraverso i tagli al costo del lavoro e siccome, per quanto tagliuzzato e umiliato, in Italia il lavoro costa ancora troppo (senza contare i lacciuoli imposti da un bolscevico Statuto dei Lavoratori in vigore ormai da quasi quarant'anni), allora è necessario andare altrove, sulla rotta dei paradisi della manodopera a costo quasi zero, ché tanto sono "negri" e come campano o crepano non frega quasi a nessuno.

Tuttavia il vento della crisi rischia anche di gonfiare gli incendi sociali e di estenderli capillarmente: se gli operai francesi sequestrano manager e dirigenti per reclamare una giusta e cospicua buonuscita, in Italia, addirittura, di uscire gli operai non intendono proprio.

Lo vediamo questi giorni a Lambrate, dove quattro lavoratori e un delegato sindacale Fiom, in barba alle forze dell'ordine chiamate a difendere gli interessi degli speculatori, si sono barricati su un carroponte a 12 metri di altezza per rivendicare la dignità del loro lavoro, delle loro competenze e della loro vita. Solidarietà universale di classe? Chissà. Di sicuro, non certo austerità interclassista, che lasciano volentieri al Governo e alle sue menzogne.

Che cosa faranno i dipendenti della Manuli? Quanto sono disposti a rischiare? Quanto mutuo soccorso questa ennesima e ignobile storia di delocalizzazione produttiva riuscirà a produrre? Sarà il caso di sostituire alla parola "concertazione" (prassi che i padroni dal '93 a questa parte non hanno promosso mai) la pratica del conflitto?

Se la Manuli per il territorio piceno non è e non è stata soltanto un impianto produttivo ma un luogo intorno al quale si sono sviluppati paesi e frazioni, reti parentali, relazioni sociali, piccole e grandi vicende individuali e collettive, se è ed è stata tutto questo, se la Manuli è patrimonio pubblico, allora vogliamo appropriarcene oppure no? Forse di nuovo avanza uno "strano soldato".

*entrambi dell'Associazione "Città Sommerse"

07/08/2009





        
  



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