Ieri sera a Firenze c'era anche Lucio Dalla, che come me sarà arrivato da Bologna.

Non credo però che abbia dovuto affrontare la bufera di neve sulla E 35 e la snervante coda creatasi tra le uscite nord e sud del capoluogo toscano, perché al momento del mio arrivo realizzavo che i cancelli non sarebbero stati aperti prima delle 19:30 (il mio orologio segnava le 17) e già il cantautore felsineo sedeva comodamente al caldo nel bar del teatro sorseggiando un thè.

Seduto in macchina la mia memoria risaliva ai due bellissimi, perfetti concerti dello scorso luglio, tenutisi all'Auditorium di Roma e nella milanese Villa Arconati.

I Sigur Ros mi avevano stupito per la capacità d'esecuzione, l'intensità dello show (due ore e mezza tiratissime) e le splendide scenografie.

C'erano tutti i presupposti dunque per assistere di nuovo ad uno dei migliori live-set che una band possa offrire al giorno d'oggi.

Introdotti dalle Amina (il quartetto d'archi che poi accompagna i musicisti islandesi per tutta la durata dell'etereo viaggio-spettacolo) Jònsi, Georg, Orri Pàll e Kjartan fanno il loro ingresso in scena accolti da un boato. I primi due brani del nuovo album, Takk e Glòsòli, vengono riproposti con lo stesso gioco di ombre cinesi che questa estate mi aveva lasciato a bocca aperta. Identico sarà l'impatto emozionale della chiusura, affidata alla # 8 del terzo disco, "Untitled" , meglio conosciuto in Italia come "Quello con le parentesi".

In mezzo, altri dieci brani estrapolati sempre dall'ultimo "Takk" , dal precedente "Untitled" appunto e dal secondo "Agaetis Byrjun" , purtroppo ancora sconosciuto ai più; mi sarei stupito del contrario, il passaggio dalla Fat Cat alla Emi ha incrementato la visibilità del gruppo decretandolo uno dei più "cool" del momento.

L'aggettivo calza a pennello per quanto riguarda l'immagine (creata dai media e da MTV) della band ma non è sicuramente inerente alla loro forma d'arte.

Sì, perché meglio di Bjork i Sigur Ros sono riusciti ad esportare la colonna sonora della loro terra, di quell'Islanda gelida e ventosa che spietata cattura i suoi abitanti.

E allora l'archetto con il quale Jònsi Birgisson (cantante-chitarrista) accarezza la sua Les Paul non è un semplice strumento, ma l'egida che squarcia il cielo plumbeo e fa penetrare, caldo e consolante, l'umile tepore di chi è così sensibile da trasporre in musica tali sentimenti.

Pieni e vuoti, detto e non detto, voci sussurrate e passaggi d'inaudita violenza sono l'accompagnamento ideale per quel feedback cristallino che si libra nell'aere fiorentino e abbraccia gli spettatori in trance; perché... beh, perché la stagione del freddo è arrivata anche qui da noi. Il concerto termina alle 23, dopo un'ora e mezza; un po' deluso mi dirigo verso la mia auto, quattro mesi fa avevano suonato cinquanta minuti (non sono pochi) in più.

Ma andatelo a dire a tutti quelli che con gli occhi lucidi escono dal Saschall: per loro la prima volta è stata tale e quale alla mia.

Stupenda.