Elegia del Rumore ragionato
| REGGIO EMILIA - Il deus ex-machina della no-wave newyorchese non smette mai di stupire
di Paolo Rossi
Parto da Bologna alle 20:30,quaranta minuti di ansiogeno viaggio in treno (debbo fuggire il controllore...) e sono a Reggio Emilia alle 21:15.
Giusto in tempo per essere al Lab.Aq16 entro un quarto d'ora, voglio assistere all'opening act (Permanent Fatal Error) del concerto di stasera; l'ultimo appuntamento della rassegna jazz del centro sociale reggiano vede come protagonista il geniale Arto Lindsay, cantante-chitarrista-compositore capostipite di quella no-wave newyorchese che agli inizi degli anni '80 fece gridare al miracolo e allo scandalo.
Sono ormai passati venticinque anni da quando gruppi come i DNA, i Lunge Lizards e gli Ambitious Lovers (tutti e tre avevano avuto la fortuna, insieme coi Golden Palominos di annoverare fra le proprie fila lo stesso Lindsay) legittimavano l'incrocio tra il free jazz di stampo ayleriano e colemaniano e l'armonioso feedback chitarristico: una musica fortemente emotiva ed in tensione quindi,adatta ad esprimere il decadente caos metropolitano.
Chiusa la parentesi americana Arto si dedica alla sua altra grande passione,la musica brasiliana. A metà anni '90 lo vediamo infatti nei panni del produttore: Caetano Veloso e Vinicius Cantuària soprattutto,poi Brian Eno,Laurie Anderson e gli Avion Travel.
La sua attività di musicista lo porta a calcare di nuovo le scene nel 1996 con l'album "Mundo Civilizado" e nell'anno successivo con il doppio "Noon Chill". Ed è appunto sul repertorio di queste due produzioni che è orbitata l'esibizione di ieri. Coadiuvato da David Roth (sintetizzatori, drum machine) e dall'egregio Melvin Gibbs al basso, Arto Lindsay ha espresso chiaramente quella che è la sua estetica musicale:pura poesia urbana.
La sua dodici corde deflorata da muri di feedback è il contraltare di un omogeneo tappeto sonoro intessuto di caldi battiti funky/trip hop che lasciano spesso spazio ai calienti motivi brasiliani.
Tanto di cappello alla sezione ritmica ma la cosa che più colpisce, oltre alla chitarra, è la sua voce languida, come di un Chet Baker del duemila: un timbro pacato e soffuso che non sembra risentire delle diavolerie sonore di cui sopra e anzi si staglia su di azzurrini orizzonti (il mare di Rio de Janeiro?) che sovrastano il grigio e avvilente asfalto della Grande Mela.
A fine concerto c'è chi chiede ancora ad alta voce "Washing Machine", noto episodio in cui la chitarra di Lindsay sembra rispondere alla centrifuga di una lavatrice. Chiaramente non viene accontentato, ma va bene così.
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15/11/2005
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