Occhi aperti/ Occhi chiusi
| Note su cinema e dintorni
di Dante Albanesi
Occhi aperti
Il samurai cieco di Kitano
Martedì 17, ore 21.30, cinema Calabresi, il cineforum "Buster Keaton" porta finalmente a San Benedetto "Zatoichi", ultima follia di Takeshi Kitano, forse l'autore più indefinibile del cinema contemporaneo. Nato a Tokyo nel 1947, Kitano è stato comico televisivo, conduttore, telecronista sportivo, opinionista, poeta, autore di canzoni, scrittore. All'estero raggiunge la fama con il ruolo del sergente O'Hara in "Furyo" di Nagisa Oshima (1982). Prende poi parte a vari polizieschi, specializzandosi nella parte del criminale yakuza. Nel 1989, durante le riprese di "Violent Cop", sostituisce il regista e riscrive quasi da capo la sceneggiatura: è l'emergere, casuale e avventuroso, di un grandissimo creatore di immagini.
I film di Kitano sono cinema muto. Senza parole, quasi senza azione. Storie strane dove la morte di un uomo ha meno importanza di un'onda che si consuma sulla spiaggia. In opere come "Boiling Point" ('90), "Sonatine" ('93), "L'estate di Kikujiro" ('99), "Brother" (2000), la violenza si converte in genere comico, il gioco di un bambino in rito religioso. Kitano esplora un'inedita fusione tra clownerie infantile e romanticismi irrazionali ed estremi, intrisi di un gusto quasi grottesco per le repentine esplosioni di furore, dove la spettacolarità dell'atroce di Peckinpah incontra il sorriso amaro di Buster Keaton. "Zatoichi" è tutto questo: un samurai cieco (o che finge di esserlo) dai capelli biondo platino, in difesa di un villaggio dove il sangue scorre a fiotti come in un videogioco e dove ogni festa si conclude in un tip-tap.
Occhi chiusi
Gli Oscar visti dall'Italia
Uno degli aspetti più pietosi della critica cinematografica nostrana (sui giornali, ma soprattutto in televisione) è la sua prona devozione verso i Premi Oscar. Ogni anno, verso la fine di gennaio, prende puntualmente il via l'inutile chiacchiericcio su nomination e favoriti, grandi esclusi e dive ingioiellate; e in tanto beota entusiasmo, mai una voce che provi ad analizzare obiettivamente il fenomeno (come dovrebbe fare qualsiasi giornalista degno di questo nome).
Mai un articolo che provi a spiegare come gli Oscar abbiano il rilievo culturale di una sagra di paese, essendo l'unico premio cinematografico al mondo dove non si conosce la lista completa dei votanti, dove i membri delle case di produzione (dal direttore generale alla segretaria) sono anche membri della giuria (un lievissimo conflitto di interessi), dove la categoria "Miglior Film" accetta soltanto pellicole in lingua inglese (razzismo o idiozia?), dove in definitiva il film che vince più statuette è anche quello che ha incassato di più. E che grazie a quelle statuette continuerà ad incassare ancora.
Giungla del cinema, agli Oscar vince sempre il più forte. E in questa fauna sempre uguale, alla stampa italiana tocca il ruolo della scimmia che ride spaurita e applaude, com'è d'obbligo al cospetto degli USA, Signori della Guerra e dello Spettacolo.
|
17/02/2004
Altri articoli di...
Le strade musicali dell'Ebraismo nel compendio cinematografico di David Krakauer

Una serata di emozioni e scoperte

Betto Liberati