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Il futuro senza la Fiat: Turani ci spiega perché ripercorrendo la storia dell’azienda torinese.

San Benedetto del Tronto | Oggi che la Fiat si appresta a mutare completamente la fisionomia con la quale siamo abituati a rappresentarcela, il libro di Giuseppe Turani “Gli ultimi giorni della Fiat” rappresenta un’occasione per ripercorrerne personaggi e vicende.

di Maria Teresa Rosini

La Fiat ha rappresentato un punto di riferimento fondamentale nel definirsi della mappa della nostra appartenenza nazionale. Perfino oggi, nel suo apprestarsi a divenire qualcosa d'altro, meno italiana e più globale, riesce a farci percepire che anche noi saremo qualcos'altro, che in parte lo siamo già diventati.

L'esordio dell'automobile nell'immaginario collettivo degli italiani negli anni del "boom economico", bene non più destinato a pochi ma alla portata di molti con il corollario di possibilità ad essa legato, contribuì a cambiare profondamente nella nostra società la concezione del mondo, del tempo, del futuro.
Ed è stata soprattutto la Fiat, le sue automobili, ad accompagnarci in questo viaggio verso il progresso e la modernità.

Poi sono arrivati gli anni "settanta": la contestazione, gli scioperi a Mirafiori, la crisi petrolifera, gli scandali politici, il terrorismo.
All'immagine esaltante di un progresso senza intoppi e controindicazioni, al volto di un futuro sempre benevolo e quasi paterno, ha iniziato a sostituirsi quello tormentato e inquieto del moltiplicarsi di variabili e contesti economici, dell'imprevedibilità degli effetti, della contestazione del capitalismo e dei suoi dogmi come unico orizzonte e prospettiva per il futuro.
Con la lunga crisi del mercato dell'auto, il balletto degli incentivi a sostegno delle vendite e dell'occupazione, la globalizzazione e i suoi nuovi protagonisti, la messa in discussione delle relazioni industriali e del ruolo dei sindacati, arriviamo all'attualità.

Oggi che la Fiat si appresta a mutare completamente la fisionomia con la quale siamo abituati a rappresentarcela per divenire qualcosa di diverso che ancora forse non riusciamo bene a capire, il libro di Giuseppe Turani "Gli ultimi giorni della Fiat" da Sperling& Kupfer, rappresenta, soprattutto per tutti coloro che non sono esperti o operatori nelle relazioni economiche, un'occasione per ripercorrerne personaggi e vicende mettendo a fuoco della grande azienda torinese fasi ed episodi di cui non sempre abbiamo colto e compreso i risvolti all'interno della nostra più ampia vicenda nazionale.

Turani ci fa da guida con la sua incontestabile autorevolezza di analista del mondo economico, di conoscitore e memoria storica dell'universo Fiat, e con la semplicità di linguaggio e la scioltezza della narrazione che sono prerogativa di coloro che dalla complessità di analisi approfondite sanno riconsegnare ai lettori, magari in sintesi di poche battute, il senso complessivo di un evento o di una serie di vicende.


L'esordio della Fabbrica Italiana Automobili Torino risale all'inizio del 900. Nell'entusiasmo favorito dall'avvento delle prime automobili e dall'ebbrezza della velocità in coloro, pochi, che avevano denaro per accedervi, scaturì l'idea che vi dovessero essere anche automobili italiane. E che occorreva che qualcuno le fabbricasse.
Fu un'impresa iniziata in molti che trovò nel senatore Giovanni Agnelli, nonno omonimo del più familiare a noi "avvocato", il dirigente incaricato di organizzare la produzione e guidarla dopo esserne stato escluso, in un primo momento, dai soci. Senonchè intravedendo nell'auto il business del futuro, Giovanni Agnelli riuscì, a sua volta, a scalzare tutti gli altri, nonostante un processo intentato contro di lui il cui epilogo lo lasciò proprietario unico.
Portatore di una visione della società che Turani definisce "socialdemocratica", cioè "tranquilla e senza eccessive tensioni", il senatore riteneva che occorresse liberare le persone dalla preoccupazione dei bisogni primari attraverso una ricchezza "diffusa" che consentisse a tutti di accedere a beni di consumo, come l'automobile.

Ma fu dopo la fine della seconda guerra mondiale, in una fase in cui la nazione si apprestava a decidere cosa sarebbe diventata e come avrebbe orientato il proprio sviluppo economico, che l'idea di Vittorio Valletta (alla guida dell'azienda dalla fine del periodo bellico fino alla metà degli anni sessanta) di creare un grande polo di produzione industriale dell'automobile, si impose nonostante le titubanze della politica, dando all'Italia una brusca accelerazione alla quale forse la nostra società non era pronta e condizionandone, in qualche misura, il destino.
L'Italia infatti assunse il modello-occidentale-consumistico-automobilistico che, nel bene e nel male, ha determinato i destini della nazione.

A Gianni Agnelli, subentrato a Valletta a metà degli anni sessanta, il merito di aver dato una fisionomia più razionale e moderna all'azienda contribuendo, con la sua personalità e il suo fascino, anche a costruire ed alimentare il mito della famiglia Agnelli, percepita quasi come la "vera casa reale italiana", e della Fiat come emblema del successo e della ricchezza, fiore all'occhiello del nostro sistema industriale.

Dopo gli anni spensierati della crescita (pochi), e le lotte operaie del 69, la storia dell'azienda torinese si è consumata in fasi alterne, spesso impegnata in una continua "gara per non fallire l'anno successivo che ne ha distorto lo sviluppo".

In quella vocazione industriale assunta un po' forzatamente si è orientato anche lo sviluppo della nazione che oggi arriva, secondo Turani all'epilogo: la grande industria non può più rappresentare per l'Italia un'ulteriore possibilità di sviluppo e già da tempo i fatti si sono incaricati di rendere questa realtà perfettamente leggibile attraverso la progressiva perdita dei "pezzi" che costituivano il patrimonio industriale di maggior lustro per la nazione.

Il passaggio da un'economia di produzione ad un'economia di servizi, di sviluppo tecnologico e di ricerca, è un processo il cui innesco nelle nazioni occidentali più ricche e progredite data ormai alcuni anni.
Questa epocale fase di trasformazione imposta da dure leggi economiche( la concorrenza globale e le economie emergenti) e dalla velocità con la quale lo sviluppo scientifico e tecnologico ha rivoluzionato modi e tempi delle iniziative imprenditoriali, avrebbe dovuto, a giudizio di Turani, essere "cavalcata": lo stato cioè avrebbe dovuto elaborare strategie e politiche di sviluppo coerenti con i tempi, in modo che la nazione arrivasse a questa fase di dislocazione produttiva già con progetti atti a favorire una riconversione del lavoro.

Se tutto ciò non è stato e ne stiamo drammaticamente constatando le conseguenze nel mercato del lavoro e non solo, è nell'urgenza di nuove scelte non più rinviabili che oggi dobbiamo apprestarci, in un contesto generale certo molto più complesso e ostico, ad elaborare un'idea di sviluppo e un indirizzo da dare al futuro del paese.

"Le automobili si fanno dove conviene farle" è la sintesi estrema di Turani (e della Fiat) e a questo apparentemente banale dato di realtà, seppure avremmo da obiettare in molte direzioni, dovremo piegarci un po' tutti.
La politica oggi non ha più, in fondo, alcun vero interesse nei confronti delle vicende Fiat, ed altrettanto la Fiat non prevede la politica italiana come elemento che possa in qualunque misura condizionare le proprie scelte.
Inutili, secondo Turani, le recite a soggetto tra politici, sindacati e Fiat che hanno animato le pagine dei giornali in questi mesi.
" I tempi cambiano e la politica e la società non possono fermarli. Possono solo prenderne atto e predisporre le alternative".

05/08/2010





        
  



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