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San Benedetto del Tronto | Un anno dopo e solo un anno dopo, il Tsunami è tornato ad essere per un giorno un evento globale da celebrare e ricordare.

di Renato Novelli


Per undici lunghi mesi precedenti, tutti coloro che avevano usato la figura retorica del “disastro più grande della storia che ha provocato la riposta umanitaria più generosa della storia”, avevano rigorosamente cancellato l’evento. Tutti ricordiamo anche l’enfatizzazione sulla “prima tragedia con la quale si era misurata la società globalizzata.” Questi appelli centrati sulle emozioni senza informazioni, sono ingialliti come foglie ed è difficile trovarne tracce serie.

Le celebrazioni segnate da veri e propri spettacoli della pietà e della memoria, sono state caratterizzate dalla scettica e limitata partecipazione dei sopravvissuti e delle vittime del Tsunami. In Tailandia, per esempio, un alto numero di villaggi, insieme ad organizzazioni di massa come le Federazioni dei piccoli agricoltori, pescatori ecc., hanno organizzato una manifestazione a parte, alternativa a quella ufficiale del 26 Dicembre.

Ma una riflessione “globale” vale la pena di tentare di farla, anche se in un a direzione opposta a quella seguita ai giorni del maremoto nel 2004.
La prima conseguenza coerente del Tsunami dovrebbe essere l’abolizione della cooperazione allo sviluppo e degli aiuti internazionali realizzando una vera e propria mutazione delle politiche umanitarie e di solidarietà. I buoni motivi sono pressoché infiniti, ma il Tsunami ne ha sottolineato clamorosamente almeno due:

1) il fallimento sostanziale della traduzione della mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale in aiuti concreti ed efficaci. Questo fallimento non è dovuto ai noti e sperimentati paradossi delle politiche internazionali di assistenza, ma ad un incontro mancato con il dinamismo e la concretezza della domanda delle vittime che si è dimostrata molto più attiva e determinata di quanto si pensasse
2) l’incapacità di cogliere gli aspetti specifici della trasformazione delle economie locali, che non erano determinati da una semplice logica di ricostruzione, ma richiedevano e richiedono una produzione di idee e strategie fondate sulla mutazione antropologica che al di là dell’emergenza, un evento come il Tsunami comporta.

I dati della deriva sono abbastanza eloquenti. Secondo i calcoli della Banca Mondiale, il 65% dei fondi disponibili non sono stati mai spesi. A Sri Lanka, per esempio, di due miliardi di US dollari di aiuti promessi, solo un miliardo è stato consegnato al governo e di questo, solo 141 milioni sono stati investiti realmente. Già da Aprile del 2005, il numero di pasti da distribuire era in eccedenza rispetto alla domanda reale e dovevano essere buttati in mare. Eppure ad Aceh, ci sono ancora 500.000 persone che dipendono dalla distribuzione delle razioni quotidiane del World Food Program per la sopravvivenza. Solo una minoranza dei senza casa (almeno 1,8 milioni di persone) ha ricevuto una nuova abitazione. Sempre ad Aceh ci sono ancora 67.500 nelle tende e 50.000 circa in baracche.
In parte, gli aiuti internazionali sono un film già visto in altre mille occasioni.

Ad Aceh le popolazioni colpite hanno coniato il titolo di ONG 24 ore, per le tante sigle che sono arrivate con i fondi dell’immediata emergenza e sono sparite in poco tempo, spendendo a caso. Molti altri programmi, funzionano con i coordinatori residenti che hanno bisogno di condizioni base costose come l’auto con autista ecc. Ma la polemica facile sull’inettitudine e le storture della cooperazione, non sono i responsabili principali del fallimento degli aiuti per il Tsunami. Al fondo delle accuse, qualcuno potrebbe rincuorarsi con qualche dato positivo, come i 500.000 bambini che possono andare in scuole provvisorie, ma funzionanti. La deriva della mobilitazione umanitaria globale è il risultato di una pianificazione complessa che affonda per due fattori divenuti sempre più strutturali, mese per mese, intervento per intervento:

a) i labirinti amministrativi dell’organizzazione degli aiuti e le elaborazioni della ricostruzione, centralizzate e distribuite tra soggetti eterogenei
b) la sottovalutazione della risposta delle popolazioni locali e le difficoltà ad incontrare le domande di assistenza, programmazione, consulenza che da queste risposte sono scaturite

Quando il Tsunami si è abbattuto sulle coste dell’Oceano Indiano, molti operatori già presenti nei paesi colpiti hanno subito avanzato proposte agli enti pubblici e ai donatori in genere, indipendentemente dalle loro competenze. Gli operatori che non c’erano hanno iniziato la corsa sul luogo del disastro per preparare proposte. Pochi si sono accorti già allora della straordinaria risposta delle popolazioni colpite. Ci vollero giorni perché gli aiuti arrivassero nelle zone più devastate di Aceh e nessuno avvertì l’importanza di saper imparare dai sistemi di sopravvivenza che le vittime ancora in vita avevano inventato. Forse tutte le vicende di questo lungo anno di emergenza e ricostruzione erano già scritte in quel mancato incontro.

Dal nuovo sistema di allarme che l’ONU sta costruendo con i paesi rivieraschi, alla ripresa e allo sviluppo economico delle zone colpite, si è partiti dal presupposto che sono i tecnici e i donatori a sapere cosa è necessario per cancellare gli effetti del maremoto. Agli sfollati case, ai pescatori barche, ai bambini scuole, a tutti assistenza psicologica riabilitativa, agli operatori turistici nuovi mercati e il ritorno dei turisti fuggiti. Elementare Watson nelle linee generali gestite altrove, maledettamente complicato nell’attuazione articolata gestita localmente con il coinvolgimento diretto delle vittime.

08/02/2006





        
  



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