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Jacques Derrida è morto

| Il filosofo deceduto nella notte tra venerdì 8 e sabato 9 ottobre

di Giovanni Desideri

Sapere o no che un personaggio noto fosse malato non diminuisce la sorpresa generata dal titolo che leggiamo a un certo punto su un sito Internet: “x è morto, all’età di, in una clinica di (o "nella sua casa di"). Era da tempo malato”. Ecc. La notizia divulgata chiude allora il cerchio di una vita, indipendentemente dal fatto che per alcuni inizi semplicemente l’epoca della posterità. Tale è il caso di Jacques Derrida: il filosofo è morto nella notte tra venerdì 8 e sabato 9 ottobre, all’età di 74 anni, in una clinica parigina, dove era ricoverato da circa tre settimane. Era malato di cancro al pancreas.

Derrida era nato il 15 luglio 1930 a El Biar in Algeria. Aveva studiato all’École Normale Supérieure di Parigi, insegnato alla Sorbona, all’École des Hautes Études en Sciences Sociales, in diverse università degli Stati Uniti, dove era molto letto e discusso, anche in ambito letterario (aveva dedicato testi a Joyce, Celan, Artaud). Nel 1983 aveva fondato il Collège Internazionale de Philosophie di Parigi. Autore di circa 80 libri, Derrida ha interpretato in maniera originale i classici (da Platone a Marx e Heidegger) e proposto riflessioni intorno a concetti come quelli di lutto, dono, ospitalità, amicizia. Non trascurando questioni di attualità: l’11 settembre naturalmente, ma anche l’università o l’Europa.

Molti dei libri di Derrida sono tradotti anche in italiano. A Torino il filosofo aveva ricevuto una laurea ad honorem il 30 ottobre 1998.

Inizia la posterità, aumenteranno le tesi di laurea dedicate ad un classico. Oggi è il momento del cerchio che si chiude: “è morto…”. I siti francesi mettono in secondo piano la guerra in Iraq e dedicano “la une” al filosofo (più discreti i media di altre parti del mondo): foto più notizia d’agenzia, copiata e incollata identica su tutti i siti. In un’intervista pubblicata da Le Monde il 19 agosto di quest’anno, Derrida ironizzava (per poi contestare): “sempre più spesso, essendo morta la maggior parte dei pensatori a quali venivo associato, vengo trattato da sopravvivente: l’ultimo rappresentante di una “generazione”, grosso modo quella degli anni ‘60”.

Nel 1992 una polemica divampò all’Università di Cambridge tra partigiani e avversari di Derrida: la laurea “honoris causa”, che i primi avevano proposto, fu effettivamente assegnata 336 voti contro 204. Soprattutto lo stile ellittico, ben poco analitico, di Derrida, inducevano gli avversari ad applicare l’etichetta riservata alla filosofia in generale, a intermittenze regolari: “impostura intellettuale”.

La risposta affidata a Le Monde nella stessa intervista: “Rinunciare, per esempio, ad una difficoltà di formulazione, ad una piega, ad un paradosso, ad una contraddizione in più, perché altrimenti non verrò compreso, o piuttosto perché il tale giornalista non sa leggerla, né sa leggere il titolo di un libro ma crede ugualmente che neanche il lettore o l’ascoltatore capirà e che l’auditel o il suo sostentamento ne soffriranno, è per me una oscenità inaccettabile. Come se mi si chiedesse di inchinarmi, di asservirmi o di morire per una stupidaggine.”

Il meno che si possa dire, proprio come si ripete ogni volta, è che muore l’ultimo degli intellettuali carismatici. L’epoca dei “maître à penser” si chiude. Restano sulla scena, come diceva ancora Derrida in quell’intervista, gli “intellettuali mediatici”, autori di opinioni mediatiche di massa, a larga diffusione: “la responsabilità oggi è urgente e chiama ad una guerra inflessibile alla doxa”. Kraus, in altri termini: “una delle malattie più diffuse è la diagnosi”.

10/10/2004





        
  



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