Lasciate stare il 25 Aprile!
| " Inaccettabile equiparare la nostra Resistenza alla rivolta fondamentalista in atto in Iraq".
di Tonino Armata
A un anno dalla conquista di Bagdad, l'Iraq è precipitata nel caos. Mentre si combatte a Falluja, la rivolta dilaga ormai in tutto il Paese, dalla capitale dove lo sterminato e miserabile quartiere di Sadr City offre rifugio e protezione agli estremisti sciiti, al triangolo sunnita tra Falluja, Ramadi e tikrit controllato dai fedelissimi di Saddam, fino alla zona di Bassora e Kerbala in mano "all'Armata del Kahdi" come si definiscono gli uomini dell'iman Al Sadr.
Ai combattimenti, alle imboscate e ai massacri si è aggiunta la pratica dei rapimenti, già praticata largamente in Libano dagli Hezbollah.
L'America, il Paese più potente e ricco del mondo, il suo esercito supertecnologizzato, rischia di perdere la guerra contro le migliaia di combattenti senza divisa che, armati di Kalashnikov e lanciarazzi, si muovono compatti agli ordini dei leader religiosi e dei vari capi tribù, i quali, hanno dichiarato la Jihad non solo contro gli americani della "coalizione dei volenterosi" (dai giapponesi ai polacchi) ma contro tutti gli stranieri al loro seguito, siano essi operatori delle varie organizzazioni umanitarie, funzionari delle agenzie addette alla ricostruzione del paese o giornalisti.
Ricordate la statua di Saddam scalata con allegra spensieratezza un anno fa da un giovane marine e poi rovesciata dal suo piedistallo nella piazza principale di Bagdad? Era l'immagine della vittoria, lontana ormai anni di luce. Quell'ingresso a Bagdad non era una vittoria ma una tagliola, una trappola. Uscirne sarà terribilmente difficile.
Nelle dichiarazioni di Bush e dei suoi consiglieri, quella cominciata un anno fa, doveva essere una guerra contro Saddam e il pericolo del terrorismo. A un anno di distanza, Washington ha dovuto ammettere che le armi di distruzione di massa, come aveva ripetutamente ammonito Hans Blix non c'erano.
E il terrorismo ha continuato a fare le sue vittime innocenti, da Karachi a Istanbul, da Amman a Madrid. Oggi siamo tutti meno sicuri di ieri. In compenso, la cosiddetta guerra preventiva ha raggiunto due obiettivi fino a ieri impensabili: ha consentito la saldatura, che sembrava impossibile, tra i due Islam, quello sunnita e quello sciita, e contemporaneamente ha aperto le porte dell'Iraq e il suo vasto territorio alle ambizioni del fondamentalismo islamico e ai progetti e le possibilità di azione di Al Qaeda e di tutte le organizzazioni terroristiche.
La guerra contro l'Iraq, voluta da Bush e da Blair in orgogliosa solitudine, solo confortati in Europa dal consenso di Berlusconi e di Aznar, senza tener conto delle riserve e delle ragionevoli obiezioni di Francia e Germania e condotta, altrettanto orgogliosamente, sotto comando esclusivo americano, si è rivelata un disastro dal punto di vista militare e politico. La guerra, dichiarata ufficialmente conclusa con la vittoria degli Usa ormai un anno fa, continua.
Con sempre maggiori perdite umane. Non siamo di fronte a "episodi circoscritti" e controllabili, come le aveva definiti nel corso dell'ultimo dibattito alla Camera il Ministro Martino, ma di fronte a una rivolta generalizzata che nessuna sa come e quando potrà essere sconfitta. Abbiamo diritto di conoscere tutta la verità su quello che sta accadendo.
Ma abbiamo anche il diritto di conoscere quale sia oggi la posizione dell'Ulivo e la sinistra, ancora diviso fra coloro i quali chiedono il ritiro immediato delle nostre truppe e coloro i quali subordinano la nostra presenza a un intervento Onu a un cambio della attuale struttura di comando, da realizzarsi a tempi brevi, anche prima della scadenza del 30 giugno.
Attendiamo dall'Ulivo e dalla sinistra una posizione unitaria, motivata e credibile. Lo spettacolo d'una sinistra divisa, su un tema di tale importanza, rischia d'apparire insieme tragico e miserando. Non tale comunque da aumentare la credibilità e la fiducia di uno schieramento politico, il quale, si candida, con le prossime elezioni, al governo del Paese.
Per finire. Qualcuno ha proposto di convocare una nuova grande manifestazione per la pace per il 25 aprile, data nella quale si celebra tradizionalmente il 25 aprile 1945, giorno della liberazione. C'è in questa proposta il tentativo, non innocente né casuale, di stabilire una inaccettabile equiparazione tra la nostra Resistenza e la rivolta fondamentalista in atto in Iraq.
So bene che non mancano tra di noi alcuni nostalgici del terzomondismo i quali leggono ciò che accade in Iraq in chiave di "guerra di liberazione". Sono di solito gli stessi, o gli eredi di coloro, i quali, a suo tempo salutarono come un fatto democratico e progressista l'avvento del regime di Khomeini in Iran.
E sono coloro, i quali, si compiacciono di stabilire una impropria analogia tra i seguaci di Ho Chi Min, tra l'Iraq d'oggi e il Vietnam di ieri, trascurando il fatto che i vietcong non si proposero mai di conquistare alla loro cultura e alla loro religione i nostri Paesi.
Sono, per dirla tutta, coloro i quali, pensano che il vero nemico da sconfiggere oggi non sia il terrorismo, non sia Bin Laden, non sia Al Qaeda, ma l'America. E' una posizione che non condivido e che, a mio avviso, va apertamente contestata e battuta quando, soprattutto quando, si manifesta tra le fila della sinistra.
|
24/04/2004
Altri articoli di...
Le strade musicali dell'Ebraismo nel compendio cinematografico di David Krakauer

Una serata di emozioni e scoperte

Betto Liberati