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Chiedo scusa se parlo di me stessa (e non di Maria)

| La razza in estinzione.

di Antonella Roncarolo

Sarà che sono un'inguaribile romantica (anche se la storia d'amore di Elisa di Rivombrosa non ha generato in me nessun occhione lucido, anzi un forte senso di nausea che mi ha spinto immediatamente a spegnere la tele), ma ritengo che il momento migliore per andare al cinema e godersi un bel film sia il primo spettacolo del pomeriggio, quando c'è poca gente in giro e la giornata si preannuncia ancora lunga.

E' evidente che la mia è una letteraria ricerca del tempo perduto: durante gli anni dell'adolescenza, quando il tempo libero non era ancora rincorso tra i mille impegni del quotidiano, il primo pomeriggio mi vedeva, insieme allo stesso gruppo di amici, con in mano la gassosa che allora portava il mio cognome (oggi si chiama sevenap, ma non è la stessa cosa), e il "moretto" della pasticceria Giammarini (oggi si chiama merendina pochemon, ma non è la stessa cosa), entrare nel buio della sala del cinema e  attendere con stupore che partisse l'incanto delle immagini.

Complici due domeniche di pioggia e freddo, ho ripercorso con mia figlia adolescente, i sentieri della memoria e sono tornata al cinema al primo spettacolo del pomeriggio.

La prima domenica la scelta è caduta su "Rivincita di Natale" di Pupi Avati. Premetto che faccio parte dello zoccolo duro degli ammiratori di Avati: sarà che è nato nella città che più amo, Bologna, sarà che è un appassionato di jazz, ma penso che un regista che ha girato film come "Una gita scolastica", "La casa delle finestre che ridono" e "Magnificat" meriti un posto nell'empireo del cinema internazionale.

Il suo ultimo film è bello, il regista con perizia ed eleganza, aiutato da attori in ottima forma, fotografa impietosamente, attraverso una partita di poker,  il degrado attuale della società italiana e la disgregazione di valori quali la lealtà, l'amicizia e l'onore.

Ma il mio non vuole essere un commento al film, ma un'osservazione sociologica: quando sono entrata al cinema (Cinema delle Palme, sala piccola), c'erano, noi comprese, sei persone. Pensavo di essere molto in anticipo e che sarebbe entrata altra gente, invece la porta è rimasta chiusa per tutta la durata del film.

La domenica successiva la scelta cade sull'ultimo film di Silvio Soldini "Agata e la tempesta", cinema Calabresi, sala grande, sempre in compagnia di mia figlia. Arriviamo un po' in ritardo, le luci sono già spente.  Scegliamo due posti centrali e ci godiamo lo scorrere delle immagini fatte di tonalità agrodolci, a tratti sconfinanti nel surreale. La messinscena ha i colori d'una favola aerea ed intenerita, racchiusa fra una citazione del "Grande Gatsby" e le note suadenti di "More". Echi di epoche lontane, quando sognare non era ancora peccato.

Scorrono i titoli di coda, le luci si accendono, conto le teste: questa volta è andata meglio, siamo in otto. Chiedo conferma in biglietteria, non c'è stato molto pubblico, meglio pane e cioccolata con la Cucinotta.

Mi butto in un calcolo: considerando le cento sale italiane (abbondo naturalmente) dove in questi giorni stanno dando questo film arrivo ad ottocento spettatori che moltiplicato per quattro spettacoli al giorno (ad essere ottimisti)siamo a 3200, ma voglio essere ancora più ottimista, magari a Genova, città natale di Soldini ci saranno più spettatori, arrotondiamo a 4000!!!

Ma quanto siamo lontani dai 12 milioni della Rivombrosa o dagli otto milioni di Bisturi per non parlare del Grande Fratello o di Sanremo.

Mi tornano in mente le parole di Giorgio Gaber, (mi manca tanto!),  già citato nel titolo di questo mio scritto, "ma forse sono io che sono una razza in estinzione".

04/03/2004





        
  



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