Fecondazione medicalmente assistita
| Una norma che ignora il paese reale.
di Tonino Armata
L'approvazione della legge sulla fecondazione medicalmente assistita non riuscirà, come credono quanti l'hanno voluta e votata, a chiudere il dibattito sul problema, che ha visto incerte e divise quasi tutte le forze politiche, e che ha spinto molti parlamentari (dell'una e dell'altra parte) a fare ricorso alla "libertà di coscienza", rifiutando dunque le decisioni ufficiali del partito d'appartenenza.
Il tema non è chiuso per almeno vari motivi ed ordini di considerazioni. Da una parte esiste la possibilità del ricorso al referendum (o su tutta la legge o su alcuni articoli) cui stanno concretamente pensando non solo i radicali ma anche molte organizzazioni femminili e gruppi e centri che da anni si occupano del problema. Dall'altra esiste la possibilità del ricorso alla Corte, sostenuta da un folto e assai qualificato gruppo di giuriste, che contesta la legittimità di alcuni articoli della legge che si pongono in contrasto o con alcune norme già iscritte nella nostra Costituzione o alcune precedenti sentenze della Consulta.
C'è un passaggio nel documento dell'Associazione Donne Giuriste che mi è sembrato particolarmente puntuale, proprio perché non si carica di argomentazioni giuridiche ma fa tesoro della nostra comune esperienza: "Sappiamo" è scritto in questo documento "che le definizioni di regole attorno alla procreazione non può prescindere dalla condivisione: l'esperienza degli anni in cui l'aborto era reato dimostra che se la regola posta dallo Stato non corrisponde alla speciale competenza femminile, quella regola sarà disattesa".
E infatti il problema non può considerarsi chiuso, sia pure dopo l'approvazione della norma perché è difficile, per non dire impossibile, mettere fuori legge una pratica che ormai da molti anni fa parte della nostra cultura, del nostro costume e della nostra realtà.
La prima bambina nata, come sappiamo, in provetta, in Inghilterra, è ormai una donna adulta. Il primo bambino nato in Italia in provetta è ormai, a sua volta, adulto e in grado di procreare. Si calcola che oggi in Italia circa due bambini su cento siano nati e nascono grazie ad una delle numerose, e diverse, tecniche di riproduzione assistita che non rispondono - come qualcuno in vena di polemica accusa - al desiderio egoistico di avere un bambino "su misura" (maschio, biondo, alto e magari, dotato per la musica, per la matematica o per la letteratura) ma più semplicemente e drammaticamente al desiderio e al bisogno di avere un bambino nato dal proprio grembo.
Nessuno riuscirà a convincere la maggioranza delle donne, che questa sia una colpa, a meno che non venga assunta come regola assoluta la norma di bioetica del Cardinale Tettamanzi secondo il quale la "colpa" della coppia "che si affida alla fecondazione assistita sarebbe quella di non affidarsi responsabilmente a Dio, ma a se stessa, al potere che l'attuale tecnologia le offre".
In questo modo per continuare con le parole del Pontefice, gli sposi sono in colpa perché "si attribuiscono un potere che appartiene solo a Dio; il potere di decidere in ultima istanza la venuta all'esistenza di una persona umana".
Ma è proprio questo il punto più delicato: ciò che il Pontefice e la Chiesa considerano una colpa, un peccato può, deve automaticamente diventare legge dello Stato? Detto in altri termini: ciò che la legge considera "peccato" o "colpa" deve essere considerato "reato" da una legge dello Stato? L'identificazione del peccato e del reato cancella il principio di laicità dalla nostra legislazione, ci fa fare un brusco passo indietro. (Si pensi, per fare un esempio, al divorzio condannato dalla Chiesa e consentito in Italia dal 1970, o all'interruzione volontaria della gravidanza considerata peccato grave dalla Chiesa e consentita - almeno finora - dalla legge 194.)
Ora, dopo il divieto di quella fecondazione assistita eterologa, pur praticata ormai da anni anche in Italia, è facile immaginare che molte coppie (le più abbienti, naturalmente) aggireranno la severità della legge facendo ricorso ai centri specializzati di Barcellona, di Madrid, di Parigi o di Atene. Saremmo così di fronte a un tragico, paradossale ricorso storico.
Venticinque anni fa le donne che in Italia non potevano abortire andavano ad abortire a Londra, oggi un analogo viaggio dovrà essere affrontato non per liberarsi da una gravidanza indesiderata ma, al contrario, per ottenerla. Con l'aggravante, per coloro i quali vi faranno ricorso, che ottenere una gravidanza è assai più lungo, complicato e costoso che interromperla.
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20/02/2004
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