I magistrati devono vivere la stessa vita di tutti
| Garantire questa possibilità ai giudici è importante come ed anche più che garantirne l'imparzialità e l'indipendenza.
di Ettore Picardi
Da quando ho avuto la fortuna e l'onere di essere stato nominato magistrato, nel non più recente anno 1990, questa professione sembra essere diventata sempre più al centro degli argomenti e delle discussioni quotidiane. Una prima considerazione in generale: senza dover per forza riandare alla storia di tangentopoli ed alla consueta e consunta berlusconeide( intesa come storia delle vicende giudiziarie dell'attuale Presidente del Consiglio), a me pare che la nostra vita e la nostra società, sempre più desiderose di libertà, non sappiano più cosa farsene delle regole.
Nel senso letterale della frase, ovvero sono estremamente indecise in materia. Qualunque società non può rinunciare ad avere regole di convivenza, ma se ne vorrebbero contemporaneamente annullare gli effetti collaterali negativi, quelli che si ritengono un eccessivo freno alle libertà ed alle dinamiche di questi anni.
Da parte sua il giudice, il magistrato più in generale, viene visto come la regola fatta uomo, amato ed odiato secondo l'opportunità del momento e dell'interessato. Un grillo parlante, in Italia moltiplicato per novemila, di cui non sappiamo fondamentalmente che fare: perchè nel particolare lo vogliamo come serve e piace a ciascuno di noi. Tuttavia le procedure ed i poteri chiedono necessariamente regole generali. Le opinioni spesso seguono invece momenti, umori ed interessi di parte.
In questo clima torrido ed incerto si sta polemizzando e discutendo molto della deontologia del magistrato. Il Parlamento lavora per disciplinare puntualmente i comportamenti professionali ed anche privati cui esso si deve attenere. Quando e come è punibile, quando deve parlare con la stampa, quando deve fare commenti, dove deve risiedere, chi deve frequentare, forse persino come deve decidere.
Non è mia intenzione svolgere una difesa banalmente corporativa. Anche se sono convinto che poche categorie come la nostra siano sottoposte ad un controllo disciplinare così incisivo e frequente. Sembra del resto giusto che ad un grande potere corrisponda una grande responsabilità (la citazione è roboante ma in realtà cinematografica e fumettistica, "Uomo Ragno"). Pertanto chi deve decidere importanti eventi della vita altrui deve dare garanzie di equilibrio e correttezza, superiori alla media delle altre professioni ed impieghi.
Soprattutto comunque non dimentichiamo che i magistrati non devono essere condizionati da fattori esterni. Attenzione però: qui non interviene solamente il saggio quanto logoro argomento dell'indipendenza, ovvero i potenti non siano lasciati liberi di intimidire i giudici. L'argomento è vero e centrale, ma non è il solo, non basta, la realtà presenta molte complessità. Io adesso voglio ricordare anche e soprattutto: che i magistrati facciano la stessa vita degli altri.
Abbiano amici, desideri, passatempi, passioni, progetti, amori, dolori, libertà. Non restino sovrani in castelli di carta e volumi di diritto, non siano isolati dal timore di essere giudicati e quindi di perdere autorevolezza. Non si nascondano per paura di sentirsi eguali e censurabili e quindi diventare diversi e inadatti. Trovino come qualunque altra persona la misura nelle cose e non fuori di esse. Ricordino ovviamente di essere seguiti se non addirittura circondati e che sarà chiesta loro una particolare coerenza: un po' come ai preti ed ai poliziotti.
Questa condizione richiede serenità ma non isolamento e fuga, attenzione ma non disperazione, comunicazione e non clausura. Le nuove norme deontologiche definiscano con chiarezza cosa il magistrato può fare o non, ma non lo opprimano privandolo della sua intelligenza delle cose e della interpretazione del proprio presente.
Solo capire bene la vita nelle sue molteplici forme trasforma le leggi in giustizia, o meglio in qualcosa che se ne avvicini. Le regole e le istituzioni, ma anche la gente, abbiano a cuore che i giudici siano capaci di questo, capire la propria e l'altrui vita. Rendiamoli sensibili e non prigionieri delle apparenze: sapranno essere imparziali e non soltanto apparirlo.
Nel senso letterale della frase, ovvero sono estremamente indecise in materia. Qualunque società non può rinunciare ad avere regole di convivenza, ma se ne vorrebbero contemporaneamente annullare gli effetti collaterali negativi, quelli che si ritengono un eccessivo freno alle libertà ed alle dinamiche di questi anni.
Da parte sua il giudice, il magistrato più in generale, viene visto come la regola fatta uomo, amato ed odiato secondo l'opportunità del momento e dell'interessato. Un grillo parlante, in Italia moltiplicato per novemila, di cui non sappiamo fondamentalmente che fare: perchè nel particolare lo vogliamo come serve e piace a ciascuno di noi. Tuttavia le procedure ed i poteri chiedono necessariamente regole generali. Le opinioni spesso seguono invece momenti, umori ed interessi di parte.
In questo clima torrido ed incerto si sta polemizzando e discutendo molto della deontologia del magistrato. Il Parlamento lavora per disciplinare puntualmente i comportamenti professionali ed anche privati cui esso si deve attenere. Quando e come è punibile, quando deve parlare con la stampa, quando deve fare commenti, dove deve risiedere, chi deve frequentare, forse persino come deve decidere.
Non è mia intenzione svolgere una difesa banalmente corporativa. Anche se sono convinto che poche categorie come la nostra siano sottoposte ad un controllo disciplinare così incisivo e frequente. Sembra del resto giusto che ad un grande potere corrisponda una grande responsabilità (la citazione è roboante ma in realtà cinematografica e fumettistica, "Uomo Ragno"). Pertanto chi deve decidere importanti eventi della vita altrui deve dare garanzie di equilibrio e correttezza, superiori alla media delle altre professioni ed impieghi.
Soprattutto comunque non dimentichiamo che i magistrati non devono essere condizionati da fattori esterni. Attenzione però: qui non interviene solamente il saggio quanto logoro argomento dell'indipendenza, ovvero i potenti non siano lasciati liberi di intimidire i giudici. L'argomento è vero e centrale, ma non è il solo, non basta, la realtà presenta molte complessità. Io adesso voglio ricordare anche e soprattutto: che i magistrati facciano la stessa vita degli altri.
Abbiano amici, desideri, passatempi, passioni, progetti, amori, dolori, libertà. Non restino sovrani in castelli di carta e volumi di diritto, non siano isolati dal timore di essere giudicati e quindi di perdere autorevolezza. Non si nascondano per paura di sentirsi eguali e censurabili e quindi diventare diversi e inadatti. Trovino come qualunque altra persona la misura nelle cose e non fuori di esse. Ricordino ovviamente di essere seguiti se non addirittura circondati e che sarà chiesta loro una particolare coerenza: un po' come ai preti ed ai poliziotti.
Questa condizione richiede serenità ma non isolamento e fuga, attenzione ma non disperazione, comunicazione e non clausura. Le nuove norme deontologiche definiscano con chiarezza cosa il magistrato può fare o non, ma non lo opprimano privandolo della sua intelligenza delle cose e della interpretazione del proprio presente.
Solo capire bene la vita nelle sue molteplici forme trasforma le leggi in giustizia, o meglio in qualcosa che se ne avvicini. Le regole e le istituzioni, ma anche la gente, abbiano a cuore che i giudici siano capaci di questo, capire la propria e l'altrui vita. Rendiamoli sensibili e non prigionieri delle apparenze: sapranno essere imparziali e non soltanto apparirlo.
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04/10/2003
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