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Perché le grandi imprese fuggono dal nostro territorio?

| Solo un caso?

di Clemente Ciampolillo

Giugno: periodo di dichiarazioni dei redditi, di calcolo delle imposte, di resoconti dell'anno 2003.
 
Mai, come in questo periodo, tornano in mente i licenziamenti letti sulle pagine della cronaca locale, la chiusura delle imprese, il problema della disoccupazione dilagante. Inevitabilmente il pensiero va a chi non ha lavoro, a chi ha iniziato un’attività e non riesce a mantenerla, alle nostre strade piene di giovani, a passeggio perché senza occupazione.

Da commercialista, associo le due cose e le vedo come sfaccettature di uno stesso fenomeno, sapendo bene che il diritto tributario insegna proprio la stretta interazione che esiste tra politica degli investimenti e livello di tassazione dei redditi.

Pongo quindi l’accento su un particolare che la gente comune non riesce a cogliere, ma che gli addetti ai lavori conoscono bene: l’Irap. A tutti è noto che la nostra regione, nel dicembre 2001, ha introdotto un’aliquota ordinaria del 5,15%, ben superiore a quel 4,25% che la quasi totalità delle altre regioni italiane ha invece lasciato per le imprese operanti sul loro territorio.

A prima vista, una maggiore aliquota del 0,90% sembra quasi trascurabile, a fronte ad esempio dell’Irpeg, la quale invece è pari al 34% e sembra avere ben altro spessore, in termini di prelievo.

In realtà, proprio le grandi imprese fanno caso a questi dettagli e, nello scegliere dove allocare le proprie risorse ed intraprendere le attività produttive, si accorgono subito che il “dettaglio” non è affatto tale. Nulla fa capire meglio di un esempio.

Si prendano due imprese assolutamente identiche, una posizionata nella nostra regione e l’altra in una qualsiasi altra regione d’Italia.

Entrambe siano di medie dimensioni, in buono stato economico (supponiamo: con centomila euro di utili d’esercizio annui), una quarantina di dipendenti e una non eccessiva esposizione debitoria nei confronti del mondo creditizio.

Basta fare due calcoli per accorgersi che la nostra impresa, per il semplice fatto di dare lavoro ai nostri corregionali anziché collocarsi nel vicino Abruzzo, versa oltre diecimila euro in più di imposte rispetto alla sua gemella. Ciò perché l’imposta in questione non si limita a colpire i dividendi, ma assoggetta a tassazione indirettamente anche il costo del lavoro e gli interessi passivi, indeducibili e quindi ugualmente tassati.

A parità di condizioni, diecimila euro in più l’anno. E soltanto di Irap. In termini percentuali, si tratta di più del 10% dell’utile preso a base di partenza del nostro esempio (centomila euro).

Quindi, non ci si lasci ingannare dal fatto che l’aliquota Irap marchigiana sia più alta “soltanto” dello 0,90% rispetto a quella delle altre regioni, perché l’Irap è un’imposta subdola e colpisce una base imponibile molto più ampia di quella degli altri tributi. Ad un piccolo scostamento dell’aliquota nominale d’imposta corrisponde, infatti, un carico tributario estremamente più gravoso.

E’ chiaro che, a fronte di questa situazione, i nostri artigiani e le piccole imprese non possono fare altro che farsi carico di questo costo aggiuntivo. Però le imprese grandi no, non si limitano a questo: potendolo fare, chiudono i battenti e si trasferiscono altrove, in zone più accoglienti, con una tassazione meno esorbitante della nostra. In questo modo danno lavoro altrove, sviluppano l’indotto e contribuiscono a sostenere la spirale produttiva che crea la ricchezza del territorio.

Perché se un’impresa con quaranta dipendenti perde diecimila euro l’anno per il semplice svantaggio di operare dalle nostre parti, una con quattrocento dipendenti di euro ne perde centomila, e non ci mette molto a capire che è il caso di dismettere gli impianti e trasferirsi.

Di conseguenza, non ci si interroghi più sul perché la disoccupazione dilaga tra i nostri giovani, con tante imprese che chiudono o che sono pronte a  spostarsi.
Il motivo c’è ed è anche evidente.                                 

05/06/2004





        
  



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