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Occhi aperti / occhi chiusi

| Note su cinema e dintorni

di Dante Albanesi

Occhi aperti
La città invisibile di "Dogville"

Lars Von Trier parte dal sogno del grande drammaturgo Thornton Wilder in "Piccola città": un borgo racchiuso dentro il perimetro di un palcoscenico e ridotto ad un tavolo e qualche sedia. "Dogville" trasferisce questo azzardo al cinema, mettendo in scena un villaggio in scala 1:1 dove le pareti sono trasformate in linee bianche sul pavimento, le siepi sono disegnate, porte inesistenti emanano cigolii reali. Una roccia di plastica sulla destra e un albero rinsecchito sulla sinistra incorniciano il mondo. Vere auto e furgoncini irrompono dalle quinte, scorrendo lungo la via principale.

Un bel giorno, questa città-fantasma viene sconvolta dall'arrivo di Grace (Nicole Kidman). In fuga da una banda di misteriosi gangster, la giovane trova riparo a Dogville, dove gli spauriti paesani prima la allontanano con diffidenza, ma poi la adottano, la ammirano, la amano, quindi cominciano a dubitare di lei, la maltrattano, la violentano. L'intero turbine di queste scomposte passioni si consuma sopra assi di legno impersonali, in una scenografia scheletrica, tra finestre che danno sul nulla e campanili sospesi nel vuoto. Folgorante esperienza visiva, "Dogville" depura il linguaggio del cinema fino ai suoi minimi termini: parole e corpi in movimento.

Occhi chiusi

Non è il '68, è solo un film

Breve risposta alle critiche su "The Dreamers" apparse nei giorni scorsi. Secondo l'autore dell'articolo, i tre protagonisti del film "sono ben poco interessati a quanto sta succedendo nelle piazze, quasi per niente coinvolti dai tumulti sociali, racchiusi nell'alveo domestico, in una cornice atemporale." Giustissimo.

C'è da aggiungere però che in nessuna scena Bertolucci mostra questo comportamento come "positivo", bensì si limita ad osservarlo con una sorta di disincantata indulgenza, come di un anziano che rammenta lontani errori di gioventù.
L'equivoco nasce probabilmente da un errore di prospettiva: "The Dreamers" non parla di quel "Sessantotto" che molti hanno vissuto e sofferto, ma soltanto di tre ragazzi che (per immaturità, gioco, incoscienza) si sono volontariamente posti ai margini di una società in subbuglio.

E non a caso l'opera di Bertolucci è colma di questi "sognatori": l'Alfredo di "Novecento", l'ultimo imperatore, il piccolo Buddha, fino allo svampito pianista de "L'assedio": eterni bambini serrati nella loro camera, mentre la Storia esplode fuori dalla città proibita e li fa cadere giù dal letto.

 Ciò non toglie che la sequenza finale sia molto chiara: Isabelle e Thèo scelgono la strada della violenza e si uniscono alle barricate, Matthew indietreggia e scompare nella folla. Anche Bertolucci mostra "insofferenza verso ogni rigida predeterminazione dei destini"; e infatti lascia a noi decidere come e con chi schierarci.

Fortunatamente, il grande cinema ha questo difetto: non conferma mai le nostre idee, ma fa di tutto per metterle in discussione. Di fronte ai film d'autore non ci si sente mai più intelligenti (per questo ci sono già gli sceneggiati TV), ma più stupidi, più arrabbiati, più disorientati di prima. Ogni grande regista fa star male il suo pubblico, perché mentre tutti guardiamo una cosa allo stesso modo, lui prova a guardarla da un altro verso, più da vicino, o dall'alto. Le vere opere d'arte non "spiegano", non ci aiutano a "capire", ma a porci nuove domande sulle cose che pensavamo di aver già capito. Se invece vogliamo conservare le nostre certezze, a Natale arriveranno Boldi e De Sica. 

16/11/2003





        
  



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