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I Confini della Fantasia

| Mitopoiesis di Amalia Ciardi Duprè.

di Giuseppe Giardina


Come nascono i "miti"? Il presente é voluto, perché mi chiedo se ancora sia possibile, e la risposta è puntuale: Amalia Ciardi Dupré, che espone le sue recenti opere, sculture e pitture nella splendida cornice della Palazzina Azzurra di S. Benedetto del Tronto, in questo caldo inizio d'estate.
Le si addice il titolo di mitoplastes,  perché con i mezzi a lei così congeniali, e certamente ereditari, esprime al meglio la capacità di narrare la sua "versione del mito", quello greco classico, ma non solo, perché osa inventare terribili e toccanti favole moderne, mostrandone la continuità nello spazio e nel tempo, tra Grecia e Sicilia, e sorprendentemente, anche l'attualità, la contemporaneità.

Infatti, la sua sensibilità, squisitamente femminile (nessuno, per fortuna, afferma più che la creatività artistica e poetica fosse prerogativa maschile) conduce la sua mano a solcare il foglio, a modellare la creta o scolpire la pietra per interrogare (interrogarsi) sull'attualità dei miti greco-siculi, da quelli universalmente noti (si spera, ancora) ai più nascosti o forse difficilmente raggiungibili, come la favola di Aretusa ed Alfeo.
Una sorgente di dolce acqua - immortalata dai versi di Pindaro e Virgilio - sgorga sulla riva del mare, a Siracusa, circondata da verdi papiri: un mito d'amore forte e perenne. Aretusa, ninfa di Artemide, dapprima riluttante alle avances del fiume Alfeo, si getta in mare dalle coste dell' Elide; mutata in fonte dalla dea, riemerge sull'altra sponda dello Jonio, nella siracusana isola di Ortigia, ma Alfeo  correndo nel fondo marino, si riunisce con lei, mescolando con le sue le proprie acque.

L'amore e la tenacia - sottolineati dal caldo abbraccio al quale dà forza espressiva la fantasia creativa dell'Artista - premiano, eccome, lo testimonia la bellezza del mito della perenne liquida fonte, che sfida i millenni, su quella specie di balcone ove zampilla una sorgente d'acqua dolce, che nutre lussureggianti papiri, alla vista dell'azzurro mare mediterraneo.
Ma che abisso di dolcezza, nell'angelo che abbraccia Rita Atria, che la consola, che non la condanna, che la perdona per primo, e certamente la conduce in paradiso, che forse non è il paradiso delle religioni, ma certo è luogo e stato premiante.
No, non è apologia della disperazione.

Qui non si tratta di giudicare, ad altri compete, ma all'artista, al poeta niente e nessuno può imporre regole e confini esterni al suo io, alla sua sensibilità, deve ubbidire solamente alla sua ispirazione, lo governa una forza, (per fortuna) misteriosa, che lo accomuna ad altri, che artisti non sono necessariamente, ma ne condividono l'emozione.
Lo percepiamo, con immediatezza, al cospetto delle opere esposte.
E' quanto vuol dirci, con la straordinarietà delle forme plastiche e dei colori di cui è capace, per innata ed acquisita bravura, ed eleganza tutta toscana, la nostra Artista, Amalia Ciardi Dupré.

Ed è la prova di quanta sofferta e commossa partecipazione è nella sua espressione d'arte, nella sua prepotente necessità di interpretare l'antropologia culturale, attraverso un processo ancorché ideologico, che le consenta di attribuire a fatti reali ed alla narrazione di essi un valore fantastico di riferimento sociale, e perché no, spirituale.
Tutto ciò conduce alla poesia.

Ella narra la sua emozione: "Rita Atria era una giovane ragazza di Partanna, vicino Corleone. Aveva 17 anni quando, interrogata da Paolo Borsellino, decise di denunciare gravi fatti di mafia che riguardavano anche suoi familiari. La famiglia fu contraria a questa sua scelta e la isolò. Fu costretta a lasciare la sua città e a sottoporsi al trattamento riservato ai collaboratori di giustizia. Le fu accanto solidale la cognata, vedova di mafia. Viveva a Roma quando apprese della strage in cui era stato ucciso il giudice Palo Borsellino, l'unica persona di cui si fidava. Si uccise, disperata, il 26 luglio 1992 gettandosi dal balcone dell'abitazione dove era stata obbligata a rifugiarsi, per sfuggire alla vendetta di Cosa Nostra, al settimo piano di uno stabile della periferia romana. Funerali di paese "senza paese", una messa non in chiesa ma all'aperto, qualche persona venuta da fuori, un gruppo di donne a portarsi a spalle la bara, qualche vedova di mafia, neanche la madre a piangere Rita…"

Ecco, è nato un "mito" moderno. Chi non avverte la forza (drammatica) dei "gesti" di Rita"?
Amalia Ciardi Dupré trasfigura una realtà di miseria, di sangue, di dolore e di morte, e le imprime la bellezza immortale delle forme dell'arte. Costringe dentro la rete delle sue invenzioni plastiche e pittoriche, con tecniche di raffinata bravura, e l'impiego del bronzo, della terracotta a più fuochi, patinata verde e dorata, con il refrattario bianco e colorato, visi di donne assorte o sognanti, valori universalmente e perennemente tramandabili, fino a quando si vorrà delegare all'artista compiti che la quotidianità, con il corteo di apparenti godimenti o banali afflizioni, dimentica e rimuove.

Sono figure di paziente amore, nate dalla trasmutazione della "cera persa" in bronzi, o dalla duttilità della terracotta patinata, che conservano intatta la primigenia bellezza della materia, ma con qualcosa in più, che si appartiene solamente all'Artista, che la distingue, perché forse anche lei ha un angelo, invisibile e silenzioso, portatore del soffio divino…
Grazie, Amalia, per, per il sorriso rasserenante che sempre intuiamo nelle tue "creazioni", anche le più tormentate e drammatiche, comunque bellissime.

04/07/2003





        
  



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