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Pubblicare la foto di una bara è giornalismo?

| La risposta del Presidente dell'Ordine dei Giornalisti al quesito etico posto da un collega

di Gianni Rossetti*

Un pubblicista-fotografo di Senigallia mi ha mandato, via e-mail, un quesito di carattere etico. Cioè se è legittimo e corretto pubblicare foto con le bare di giovani morti in incidenti stradali e soprattutto le immagini dei familiari straziati dal dolore. Il collega naturalmente aggiungeva la sua opinione e cioè che "pubblicare la foto di una bara non è giornalismo, ma solo uno squallido mezzo per riempire un buco nella pagina del giornale".

   Insomma, è legittimo coprirsi con la bandiera del diritto di cronaca per accettare e tollerare certi comportamenti come - ad esempio - quello di salire sulle sedie della Chiesa pur di carpire un'espressione dei familiari delle vittime? Il mio interlocutore sottolineava, giustamente, come non ci sia nulla di più privato del dolore per la perdita di un familiare. E aggiungerei che mai una persona è più indifesa e vulnerabile nella sua più profonda intimità come in quei momenti.

   Un bel quesito. E, purtroppo, sfogliando le pagine dei nostri giornali, dobbiamo dire che l'attenzione, la sensibilità e il rispetto dimostrati dal collega fotografo sono minoritari nel panorama giornalistico della nostra regione.

    Ma potremmo citare molti altri casi: ad esempio l'enfasi e la spettacolarizzazione di certi suicidi, anche quando i protagonisti sono personaggi assolutamente anonimi. Alcuni lettori mi hanno segnalato, con commenti poco lusinghieri, la notizia pubblicata con grande rilievo, qualche settimana fa dal Messaggero, della morte per tumore di una bambina di due anni e mezzo. E potremmo andare avanti con tanti altri esempi. Tanti piccoli tasselli sui quali invito a una riflessione giornalisti e lettori; un approfondimento sul ruolo e sulla funzione del giornalista, sull'etica professionale. Cioè fino a che punto è giusto che il giornalista si spinga in nome del sacrosanto diritto di cronaca.

   In questa riflessione non dobbiamo fermarci dietro la trincea del possibile. Dobbiamo capire il limite insuperabile; individuare quel confine sottilissimo dove il possibile è anche lecito. Un invito ad andare oltre i codici, ad acquisire la maturità del rispetto. In questa scelta sta la nostra libertà e, contemporaneamente, la nostra professionalità. Se altri ci impongono temi e metodiche può darsi che il risultato sia eccellente, come avveniva in alcuni regimi di paternalismo illuminato, ma il giornalista perde la sua professionalità. Altri hanno scelto per lui. L'autonomia vera deve fare da sé, anche a costo di scontare qualche inevitabile contraddizione e qualche dolorosa lentezza.

   Chiarisco subito che considero aberrante la teoria del "giornalismo pedagogico". Alcuni sostengono che il giornalista non deve limitarsi alla semplice esposizione dei fatti, ma avere la capacità di orientare, guidare e formare l'opinione pubblica. Personalmente invito a diffidare dei giornalisti che si sentono investiti di questa missione pedagogica. Solo la verità è formativa e la verità non è né di destra né di sinistra. Resto fedele al vecchio motto: la notizia è sacra, il commento è libero.
  La notizia, quindi, prima di tutto. Da dare sempre senza condizionamenti o autocensure, ma anche dopo una attenta, scrupolosa, minuziosa verifica. Più la notizia è rilevante nei suoi riflessi sociali e più rigorosa, precisa e severa deve essere la verifica. Quali sono allora i limiti che dobbiamo imporci ?  
      
    Il primo è quello della "verità sostanziale dei fatti". L'altro, invalicabile, è il rispetto della persona, la dignità, il decoro, la riservatezza. Dobbiamo andare al di là delle leggi (che pure esistono), oltre la fredda applicazione dei codici. L'unica strada è l'autoregolamentazione se non vogliamo che siano altri a dettarci le regole e a metterci i bavagli.

    Come Presidente dell'Ordine mi trovo spesso a dover difendere quel diritto di cronaca che è un presupposto fondamentale del nostro lavoro, ma che non sempre è interpretato nel suo reale significato. Molti lo considerano un privilegio di casta, quindi da eliminare. Altri lo accettano controvoglia come se fosse un male necessario, una conseguenza perversa ma inevitabile di quella libera espressione del pensiero e di quella libera circolazione delle idee di cui parla la Costituzione.

   Non tutti si rendono conto che l'informazione è uno dei fondamenti sostanziali sui quali si regge una società democratica. E che quanto più ampia è l'informazione, tanto più solido è un altro fondamento portante della democrazia: la partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica. E che quanto più effettiva è questa partecipazione, tanto più concreto diventa il fondamento dei fondamenti: la sovranità popolare.

 Quindi, piuttosto che parlare di diritto di cronaca (del quale sarebbe titolare la corporazione dei giornalisti) preferisco parlare di diritto all'informazione, del quale sono titolari i cittadini nel loro complesso. E rispetto a questo diritto, ben più alto e ben più vasto, il diritto di cronaca si colloca in posizione subordinata: è, però, lo strumento indispensabile; è il mezzo senza il quale quel fine superiore non può essere raggiunto.

   Una cosa dobbiamo dire con fermezza: il diritto, il vero diritto che conta, è il diritto dei cittadini di essere informati. E il diritto di cronaca conta talmente meno che vorrei definirlo non già un diritto, piuttosto un dovere: anzitutto il dovere dei giornalisti di fare in modo che il loro lavoro ponga davvero i cittadini nella condizione di essere correttamente informati.

   Esiste, dunque, il problema di mettere dei limiti al diritto di cronaca; la sua soluzione è essenziale per dare equilibrio a un sistema di convivenza civile che voglia fondarsi sul rispetto di valori (e di diritti) anch'essi fondamentali: la dignità, il decoro, la riservatezza degli individui.

    Non sta a me valutare se la morte per tumore di una bambina di due anni e mezzo sia un fatto di rilevanza sociale da meritare tanto spazio e titoli così vistosi su un quotidiano a larga diffusione. Mi pongo però le stesse domande che ci hanno rivolto i lettori che hanno sollecitato l'intervento disciplinare dell'Ordine: era un fatto di così grande rilevanza sociale ? La messa in piazza di una vicenda triste e strettamente personale risponde a una effettiva esigenza di interesse pubblico ? L'insistenza su vicende private e personali rispondono al diritto dei cittadini a essere correttamente informati?

    Ciascuno di noi può dare risposte diverse a queste domande e su quelle orientare i propri comportamenti. Oggi però i lettori hanno una diversa sensibilità e non sono più disponibili a tollerare certe nostre esagerazioni ed esasperazioni. E troppo spesso sui nostri giornali i lettori rilevano segni di smodatezza, un "surriscaldamento" dell'informazione dovuto forse  a una concorrenza sempre più esasperata.

   Ma siamo sicuri che questo linguaggio crudo ed esasperato ci avvicina all'opinione pubblica ? Siamo proprio convinti che certi toni morbosi, quel frugare nell'intimità personale, l'incalzare di ipotesi sempre più impietose, l'enfatica e spettacolare messa in vetrina di privatissimi particolari di vita aiutano la diffusione del giornale ?

   Forse, di volta in volta, basterebbe porsi una semplicissima domanda: questo particolare, questa espressione e questa foto aggiungono qualcosa all'informazione e alla completezza della notizia ? Solo la cultura del rispetto potrà avvicinarci alla crescente sensibilità dei lettori e aiutarci ad aumentare la nostra credibilità e quindi anche la diffusione dei giornali. 


* Presidente Ordine dei Giornalisti delle Marche

25/03/2003





        
  



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